Il grande piacere della lettura: la ricomparsa di un romanzo bellissimo

John Williams, Stoner, Fazi Editore 2012

Quando si finisce di leggere questo libro, dimenticando il fatto che, fino circa la metà si era stati tentati di lasciarlo per noia e qualcosa ci aveva trattenuti, si esala un respiro e la voce interna dice una unica parola: Bellissimo.

Poi, come accade quando un autore ci ha totalmente presi, la mente va alla ricerca della nuova sua opera da leggere. A questo punto ci si dice, stupiti: “No. Non credo che leggerò altro di suo. Questo autore è questo libro. E basta”.

Non accade spesso, ma accade. A me è accaduto con questo libro. Di sentirlo come una totalità. E cerco di capire: perché questo libro è bellissimo? E perché questa sensazione di totalità conclusa?

Alla prima domanda la risposta è immediata. Per la scrittura. Una prosa di una perfezione classica, pulita, diretta al cuore e al cervello di chi legge, senza sovrastrutture o fronzoli, in cui ogni parola è sufficiente e necessaria ed è quella, non poteva non essere.

Ma non basta, proprio no.

Il romanzo racconta la vita di un professore universitario, William Stoner, la cui carriera è caratterizzata dalla stagnazione, grigia come l’uomo che la rappresenta, ma che, nel contempo, mostra al di sotto e attraverso il grigiore di una vita priva di riconoscimento, la vita interiore di un uomo forte, che non ha alcun bisogno di conferme per vivere di sé e con sé. C’è un matrimonio fallito, c’è una esperienza dolorosa come padre.

Poi la storia prende abbrivio, se vogliamo dire così, ma possiamo anche dire che si tratta di un artificio: una storia d’amore, la sua fine, e soprattutto la storia del conflitto professionale e umano con un collega, un grave conflitto di caratteri e di filosofie di vita, che determinerà il cambiamento. O forse no. Forse c’era già tutto.

Stoner è stato pubblicato nel 1965 e pacatamente apprezzato, per poi essere lasciato cadere, senza gloria e senza disonore, come si dice; per emergere, potentemente, quarant’anni dopo quando, non so dire il perché di questa mia convinzione, al culmine del successo subirà una nuova caduta. Come una parabola, il libro rappresenta perfettamente il suo autore, che < è> Stoner, il personaggio di cui parla.

Mi trovo ad usare questo termine: Parabola. Nei due significati, di curva geometrica che sale e poi cade e nel suo altro significato di breve racconto allegorico. Provo stupore per questa idea, poi mi accorgo che ci sta.

Ci sta il tempo della crescita, il tempo di Stoner, che non appare finché non giunge un fattore di cambiamento, che porta all’epifania del personaggio: che avviene al tempo e al momento della morte. Il culmine della parabola, l’allegoria di una vita, il dire attraverso altro.

La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato”.

Nonostante il racconto in terza persona si è tentati di vedere in questo libro una autobiografia, cosa che sicuramente non è. Ma c’è quel nome, William. E a proposito: c’è anche il cognome, un richiamo alla pietra, alla solidità, alla rigidità. Che rapporto può stabilirsi tra John Williams e William Stoner?

Non è un’autobiografia. E’, credo, una potente rappresentazione di sé, per via allegorica, attraverso un racconto nel quale è richiesta una lettura diversa da quella che appare: per questa via, vengono trasmesse una conoscenza e una dichiarazione di valore. Una parabola, dunque. Per dire le cose che danno senso alla vita, per dire, soprattutto, il senso della morte nella vita.

Giovane dottorando, Stoner “non finiva di meravigliarsi per la facilità e la grazia con cui i lirici romani accettavano l’idea della morte, quasi che il nulla con cui si confrontavano fosse un tributo doveroso degli anni goduti in terra.”

Ci sono i personaggi comprimari. La moglie, in particolare. Speculare al grigiore della roccia Stoner, presentata attraverso gli occhi del marito, di cui costituisce la vittima e la nemesi, è una figura di grande forza e una figura di lotta, “la cui educazione era fondata sul presupposto che qualcuno l’avrebbe sempre protetta dalle grandi difficoltà della vita e che in cambio di tale protezione il suo unico dovere sarebbe stato quello di comportarsi come un grazioso e raffinato accessorio”. Edith, che “non sapeva nulla di certe cose e c’era qualcosa in lei che la pregava di restare all’oscuro”; Edith, la cui distruttività nella relazione con il marito è una dichiarazione, una pretesa di vita. Edith, la donna di cui Stoner si innamora, scegliendo l’apparente fallimento del suo matrimonio. Che si rivelerà solido. Con la capacità di ritrovarsi e perdonarsi.

La vita si compie, e nella morte raggiunge il suo apice: qui è il capolavoro. E la riscossa. Da vivere con “facilità e grazia”. Qui, nelle bellissime pagine che chiudono il libro, ma che traggono dal grigiore di prima la loro forza e il loro significato. E che formano una totalità conclusa.