Il “Professor Gramsci” e L. Wittgenstein: il sistema inscindibile lingua-parlanti

Antonio Gramsci, 1891 - 1937Franco lo Piparo, “Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere”, Donzelli Editore 2014: (segue)

 L’avevo detto, nel mio post del 4 novembre “Il compagno professor Gramsci: tra dialogo filosofico e lealtà multiple” (In: Filosofia e dintorni) che si sarebbe trattato unicamente di una “Introduzione”. Ora, si tratta di riprendere dalla domanda: quale era l’oggetto di una conversazione così pregnante da far sì che quegli uomini proseguissero il loro indiretto colloquio ignorando il mondo che si preparava ad andare in frantumi?

Breve riassunto della puntata precedente. Negli anni tra le due grandi guerre del ‘900 intercorreva un dialogo, indiretto, mediato, in parte inconsapevole, tra filosofi di diversa formazione e provenienza sul tema del linguaggio: i partecipanti al dialogo erano Wittgenstein, Sraffa e Gramsci. Quel dialogo avrebbe dato un importante contributo alla principale opera di Wittgenstein, “Le ricerche filosofiche”, aprendo la strada a un nuovo sviluppo della linguistica e non solo.

Il tema del confronto era così importante? Ecco, sì, lo era.

Erano gli anni in cui Wittgenstein, a Cambridge, lavorava “al concetto di significato, di comprendere, di proposizione, di logica, sui fondamenti della matematica, gli stati di coscienza, e altre cose ancora.” (Wittgenstein, le Ricerche filosofiche). Nel contempo, e in anticipo, Gramsci, la cui formazione e i cui interessi originali si concentravano particolarmente nel campo della linguistica e della glottologia, discuteva con l’amico Sraffa idee che si andavano formando nel contesto della sua “filosofia della praxis” che non poteva non prendere in considerazione il linguaggio, quale fattore centrale dell’agire, nel suo rapporto con il potere.

C’era un dibattito in corso su cosa si dovesse intendere per “una proposizione dotata di senso”. Wittgenstein aveva dato una prima risposta, che in seguito ripudierà, a questa domanda, costruendola sul piano logico, nel suo “Tractatus logico-philosophicus”; in Italia, Benedetto Croce utilizzava, come esempio di nonsenso la proposizione “Questa tavola rotonda è quadrata” definendola insensata in quanto “illogica”.

Qui parte la critica gramsciana che dice: no, nel linguaggio il nonsenso non può aver luogo perché il senso, nel linguaggio, dipende dal contesto. In caso contrario non avremmo le favole; paradossalmente, non avremmo la possibilità di dire qualcosa che esemplifichi una frase senza senso quale quella utilizzata da Croce.

Problemi di lana caprina? Non proprio. Da queste riflessioni si è avviato un percorso che ha portato agli sviluppi che ora troviamo, ad esempio, a partire da Gregory Bateson e con Paul Watzlawick, negli agli attuali approcci al tema della comunicazione.[i]

Tornando al tema: Wittgenstein affermerà la stessa cosa chiamando “gioco linguistico”, “l’insieme delle attività composite (linguistiche e non linguistiche) entro cui una proposizione o una parola hanno un impiego e svolgono una funzione” (Lo Piparo, op.cit.): che dunque trovano il loro senso nel contesto in cui vengono dette o scritte. (E Watzlawick, circa vent’anni dopo, mostrerà che: “Non è possibile non comunicare”).

Per ambedue gli autori tutto il comportamento umano è “grammaticale” e quindi sensato. Eppure, la grammatica di una lingua[ii] comporta il fatto che, nel parlare, vengano seguite delle regole. E allora, ci si domanda, da cosa riconosciamo una regola?

La risposta è: da un’altra regola, poiché noi comprendiamo, originariamente, cosa significa ‘seguire una regola’. E la impariamo attraverso l’esempio, dal fatto che ci venga mostrata, che ci venga detto: “Si fa, si dice, così”

L’attenersi a regole (è una) caratteristica naturale del nostro linguaggio, pervade la nostra vita” scrive Wittgenstein, intendendo con ‘linguaggio’ tutto ciò che costituisce segno, relazione, giustificazione dei nostri comportamenti e che viene condiviso. Non esiste infatti un “linguaggio privato”. Usare le parole significa condividere una visione del mondo, anche quando si compiono atti non linguistici, che sono comunque comunicativi, rivolti ad altri – e sono atti pubblici: perché non è possibile “seguire una regola” da soli.

Ne consegue, dice Gramsci, che il ‘seguire una regola’, il ‘parlare una lingua’, è un’istituzione[iii].

Questo ha quale conseguenza, importante, che le norme, per loro natura, sono trasgredibili, e per essere seguite richiedono il consenso. Non sono algoritmi, come lo sono le ‘regole’ cui rispondono i fenomeni naturali. “Si può fissare la grammatica di una lingua solo col consenso del parlante ma non l’orbita delle stelle col consenso delle stelle.” (Wittgenstein)

Commenta Lo Piparo: “Il passaggio dal linguaggio come oggetto teorico autonomo regolato dalla grammatica alla coppia inscindibile lingua-parlanti è la novità dell’approccio indotto da Gramsci-Sraffa. I parlanti non sono esecutori delle regole ma parti costitutive delle regole. Trasformano le regole in norme e, per questo, non stanno fuori dalle lingue ma diventano il motore della grammatica”.

E scrive Gramsci, nel febbraio 1918 “Il diffondersi di una lingua è dovuto all’attività produttrice di scritti, di traffici, di commercio degli uomini che quella lingua particolare parlano. Milano manda giornali, riviste, libri, merce, commessi viaggiatori in tutta Italia, e manda anche alcune peculiari espressioni della lingua italiana che i suoi abitanti parlano.” Ne deriva che le grammatiche scritte sono una scelta, un atto politico.

E ancora, in una lettera del 23 agosto 1933: “Secondo me, oltre al linguaggio nel senso strettamente tecnico della parola, ogni Paese ha un suo ‘linguaggio’ di civiltà’ che occorre conoscere per conoscere il primo” per poi annotare (Q 11, 1932-33): “Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento (…). Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi.

Dunque, se per giocare un gioco linguistico non bastano le regole, ma occorre anche il consenso sulle regole, come avviene il cambiamento, cosa porta a cambiare le regole?

Risposta: ancora il consenso, vale a dire la fiducia, una fede nella fonte che propone il cambiamento, una certezza di tipo fideistico basata sulla fiducia nella propria visione del mondo, che resiste alle dimostrazioni razionali.

E scrive ancora Gramsci: “Perché, e come si diffondono, diventando popolari, le nuove concezioni del mondo? La forma razionale, logicamente coerente, la completezza del ragionamento (…) ha la sua importanza, ma è ben lontana dall’essere decisiva; essa può essere decisiva in via subordinata, quando la persona (…) ha perduto la fede nel vecchio e ancora non si è decisa per il nuovo”.

Dunque, le nostre certezze si formano per imitazione, per addestramento, per una ‘fede’ in chi ce le insegna o nel sistema che le rappresenta. Senza questo elemento fiduciario, e che prescinde dalla verifica razionale, non si apprende.

L’imparare riposa sul credere” afferma Wittgenstein; mentre Gramsci scrive: “ogni rapporto di egemonia (ossia di persuasione) è necessariamente un rapporto pedagogico”.

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[i] Paul Watzlawick, J. H. Beavin, D.D. Jacksn, “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio 1971. Ma si trova tuttora in tutte e librerie.

[ii] La grammatica è l’insieme di fonologia, morfologia e sintassi; è l’insieme delle regole per comporre le frasi; viene usato come cosignificante di semantica, nel senso di regole necessarie perché la frase, avendo senso, abbia significato.

 [iii] Istituzione: “atto o complesso di atti con cui si istituisce, cioè si fonda, si stabilisce, si introduce nell’uso qualche cosa” (Vocabolario Treccani della lingua italiana)