Janet Frame: scrittura e follia

Janet FrameUna che ce l’ha fatta ad uscire dal manicomio, un po’ per fortuna, molto per determinazione. Per capacità. Un genio.

Mentre leggo “Un angelo alla mia tavola”, autobiografia di Janet Frame, mi si impone il riflettere sul fatto che la sua opera e la qualità della sua figura di donna vengono, e sono, legate alla sua storia di sofferenza psichica; e la riflessione si allarga allo stereotipo che propone come pressoché inevitabile la relazione tra una sensibilità fuori dell’ordinario, che sa tradursi in parole, e la malattia mentale, quantomeno la precarietà di quel tanto di equilibrio richiesto (e non potrebbe essere diversamente) dalle convenzioni sociali, dall’epoca e dalla società in cui si vive.

E’ uno stereotipo che colpisce, non solo ma in particolare, le donne; e il tema della presenza, ad esempio, di suicidi tra le scrittrici o, come nel caso di Janet Frame, di malattia mentale, ritorna, più o meno dibattuto, più o meno sostenuto da dati oggettivi, quasi ci fosse una richiesta sociale che prescriva questo. ‘Genio e sregolatezza’ certo ma, per le donne, sembra si chieda qualcosa di più.

Non voglio, qui, raccontare la storia di vita della Frame, che è bene lasciare al libro, al suo diretto racconto che spero a breve di riuscire a proporre, se non per il ‘non dettaglio’ di anni di vita, tra i venti e i trent’anni di età, trascorsi al manicomio prima che, a seguito del suo successo di scrittrice, tale diagnosi non venisse, diciamo, revocata e le venisse restituita la libertà personale.

Vero, la sua biografia dice, a proposito della fine dell’esperienza manicomiale, che è stata riconosciuta come <errata> la diagnosi di schizofrenia che le era stata ascritta ed è stato tirato un rigo sui duecento elettroshock subiti e sulla lunga esperienza di reclusione, per non dir altro. E allora va bene, diciamo che la diagnosi era sbagliata; oppure che la schizofrenia non esiste; che, forse, è altra cosa e non si cura con gli elettroshock, come pure avviene ancora in molte parti del mondo. Diciamo che sono il regime manicomiale e la supposta cura a causare la devastazione mentale e fisica delle persone affette da questa malattia. Problema complesso.

Ma il tema che, mentre leggo, mi si pone è un po’ diverso. Il tema sta nel fatto che, in qualche modo, sembra sia difficile che non venga correlata alla pseudo o vera malattia di cui Janet Frame (non) soffriva, la sua particolare sensibilità, la visione che lei stessa esprimeva della sua vita, di cui diceva che era scissa tra “questo mondo” e “quel mondo”, tra la vita che conduceva in quello che chiamava il suo mondo, ricco di sensazioni, colori, emozioni, riservate a lei sola, da tradurre in scrittura, da contenere, forse, attraverso la parola scritta, e dunque mediata, e la vita che conduceva nel mondo di tutti, dentro le regole, gli impegni che la società richiede, dove si muoveva comunque con la necessaria competenza – e con la fatica, va detto, che ciò comportava per lei, donna introversa, timida, a disagio nelle relazioni con gli altri.

Ed ecco aprirsi l’estrema aporia che vuole far convivere, nella mente di una ‘pazza’ (con tutto ciò che il senso comune associa a tale condizione), una sensibilità fuori dell’ordinario, un pensiero preda di visioni, emozioni di grande forza, stati d’animo difficili da controllare e l’estremo rigore, la capacità tecnica, la cura, la continuità di impegno richiesti dalla scrittura. Tutte cose che mal si sposano con una mente devastata.

E colpisce come, ancora, viva una forma di malinteso romanticismo, fuori tempo e fuori contesto, che fa amare, quasi desiderare, sembra, la figura dell’artista caratterizzato da eccessi (nel vivere, nel sentire, nel comportarsi) che diventano disagio mentale fino ad arrivare alla pazzia, e fino al comportamento suicidario, in particolare quando l’artista è donna.

Non sono infrequenti i luoghi comuni che associano la letteratura al femminile alla pazzia, che indicano un tasso di suicidi particolarmente elevato tra le scrittrici. Poi, al dunque, tutti pronunciano un solo nome: Virginia Woolf. Janet Frame è fortunatamente morta anziana, per una malattia, nella sua città natale di Dunedin in Nuova Zelanda.

Eppure. Qualcosa sembra esserci, potrebbe, e il nome della Woolf non è il solo, nel computo delle morti cercate. L’elenco potrebbe essere lungo – limitandoci al ‘900 vengono alla mente le poetesse Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, l’americana Silvia Plath. Possiamo aggiungere Marina Cvetaeva, Alejandra Pizarnik, Violeta Parra. Sibilla Aleramo ha a suo carico un tentativo fortunatamente fallito mentre ha evitato tale esito, ma pagando con una vita di grande sofferenza, la sudafricana Bessie Head; e non è stata facile la vita, e la storia manicomiale di Alda Merini.

Solo un abbozzo di elenco impossibile, che comporterebbe comunque la mancanza di tutte quelle che il mondo non ha conosciuto.

Le biografie di queste donne riportano difficoltà di vita talora gravi, che tuttavia difficilmente consentirebbero una correlazione tanto semplicistica, come se il viverle dovesse portare, di per sé, attraverso una relazione diretta e inevitabile, alla pazzia; o come se il cedere alle prove della vita fosse il segno distintivo di un animo elevato, di una sensibilità superiore che tutte le donne che, similmente provate, non hanno ceduto, non possedessero.

Eppure. E’ pensabile che queste grandi scrittrici siano state, pur dentro storie personali difficili, più che sane di mente, ma che il loro mondo le abbia messe alla prova in modo alla fine insostenibile, mponendo loro un sovraccarico di peso per il loro essersi permesse la scrittura, la poesia, deviando dall’assunzione di ruolo prescritta? E’ pensabile che quel di più che la società ha posto sulle loro spalle abbia fatto la differenza?