Il dovere di odiare l’infame. E ricordare

L'odio è antiquatoGünther Anders, “L’odio è antiquato”, Bollati Boringhieri 200″

Lei non odia niente?”
“Certo – rispose Zenone. – Qualcosa sì”
“E cosa?”
“L’odiare”
“E nient’altro?”
“Qualcos’altro.”
“E cosa?”
“L’essere, comunque, costretto ad odiare.”

Un libriccino. Ottanta pagine totali, per un pensiero che, liscio liscio, non lascia scampo.

Oggi è il 25 aprile, e mi vien da pensare che onorare la Resistenza richiede anche l’impegno in un forte pensiero sull’oggi, su ciò che ancora ci trasciniamo da allora e su ciò che, in un mondo diverso, è il volto attuale del pericolo, pena l’ipocrisia magari involontaria del non aver voglia di capire (ancora una volta).

E il dialogo riportato sopra, incipit di quattro brevi capitoletti, di quattro percorsi di ragionamento che conseguono l’uno all’altro nel dimostrare (e anche no) la tesi sostenuta nel titolo, sembrerebbe dire il contrario: che l’odio non è antiquato, che, in certi momenti, è ancora e sempre necessario. Ma allora?

Günther Anders afferma, da subito, che è necessario “odiare l’infame”: non farlo porta ad esserne complici, magari involontari ma complici.

L’ebreo tedesco Günther Anders lo sa bene; lo ha imparato leggendo il Mein Kampf, fin dal 1925, prima che tutto fosse compiuto; e può parlare con cognizione di causa del pericolo insito nell’indifferenza, nel non odiare l’infame, pur detestando l’odio.

Passa dunque a dare una formulazione filosofica-psicologica di questo sentimento, ad esaminarne la fonte, il significato.

La sua argomentazione prende avvio dal principio deduttivo cartesiano, riportandone la vulgata “Io odio, dunque sono” che, trasformandosi in un “Dunque, io sono” può concludere: “Dunque, io sono qualcuno”: l’odio come affermazione di sé che passa attraverso la negazione dell’altro, la sua distruzione.

Prosegue, per breve tratto, l’argomentazione filosofica attraverso le proposizioni fichtiane “l’io pone il non-io” e “l’io pone se stesso attraverso la negazione del non-io”, per affermare (e da qui in poi chiude con l’aspetto filosofico di tipo, diciamo, scolastico, per iniziati) che quest’ultima proposizione è vera in senso fisiologico, “giacché non esiste alcun essere animale che, per sopravvivere, non sia costretto dalla sua urgenza a utilizzare altri esseri come preda e come cibo”. E dunque, per essere ho bisogno che tu non ci sia più. Devo incorporarti.

Ma l’uomo non è un animale come gli altri. E può andare oltre. Il discorso, nel secondo capitoletto, si tramuta in un divertente-amaro dialogo tra il filosofo Pirrone e un ‘Presidente Traufe’ sul tema dell’odio.

Nel dialogo, il Presidente taccia di ingenuità il filosofo che non comprende che la guerra non deriva dall’odio che un popolo prova nei confronti di un altro, ma che è vero l’inverso: è la guerra a richiedere che l’odio venga instillato nelle menti dei soldati, per far sì che combattano. Sarà dunque compito del politico, del Presidente, condurre i suoi cittadini ad odiare, non importa chi. Né, in verità, perché.

Sarò io – spiega il Presidente – a far sì che l’odio si formi nelle menti dei cittadini e dei soldati, in modo da mandarli alla guerra motivati, a combattere sentendosi valorosi.

La legge dell’odio è: Io combatto qualcuno, perciò lo odio” afferma il Presidente. “Combattere e odiare sono una coppia che si incrementa a vicenda”.

Il Presidente vede in questo una strana forma di moralità. Ritiene infatti che sarebbe disdicevole (oltre che fallimentare) mandare dei soldati ad uccidere senza odio: equivarrebbe a chiedere loro di comportarsi da macellai. Potrebbero non farlo.

Il discorso prosegue, le implicazioni sono molteplici. Pirrone sembra perdente, quantomeno sul piano della concretezza e il quadro che ne emerge è tale da non farci vedere via d’uscita.

Ma, come in ogni buona favola, il nostro eroe ne uscirà. Peccato solo che non si tratti di una buona favola.

Il giorno seguente Pirrone esce dall’angolo mostrando al Presidente Traufe come, nelle guerre attuali, difficilmente il soldato può ancora essere ritenuto tale, può ancora muoversi, e agire, contro un nemico su di un ‘campo di battaglia’.

“(…) i suoi cosiddetti soldati (…) non vedono affatto coloro che odiano e uccidono su ordine e per conto suo. ‘Cose’ del genere si definiscono soldati”

Il quadro si definisce e la favola non è più tale: nella guerra moderna non c’è più il ‘campo di battaglia’ e questo fa cessare la necessità dell’odio, che richiede una relazione tra due, richiede il riconoscimento di un nemico. Il soldato diventa un normale ‘lavoratore’, un ‘impiegato’. In questo quadro, le stesse vittime avranno difficoltà a odiare carnefici non più umanizzabili.

Anders ci pone di fronte a uno scenario che porta a non poter più concepire la guerra neppure come un semplice ‘lavoro’. Per voce di Pirrone, si rivolge al Presidente e ristruttura ancora una volta il tema:

(…) la parola ‘lavorare’ che lei trova tanto insopportabilmente cinica poiché non vuole riconoscere i morti come ‘prodotti’, è anch’essa un eufemismo. Un’esornazione dei fatti. Poiché ciò che accadrà nella guerra di domani (…) non solo non è più un combattere ma non è neanche più un lavorare.”

“Bensì?”

“Un semplice ‘azionare’”.

Sempre più, la guerra è compiuta da dispositivi, prima o poi non ci sarà più un essere umano ad azionarli.

Lasciata la favola, sarà Anders ad argomentare, tirando le file, la sua tesi. Sommerà scenario a scenario, ed oggi tutto questo non ci può sembrare inverosimile. Non in questi giorni. Non di fronte agli scenari in corso.

Non (dice Anders) quando si bombardano ‘siti’ senza ‘mettere a rischio’ piloti non più soldati, avendo dall’altra parte non un esercito nemico ma popolazioni inermi che, evidentemente, possono essere messe a rischio.

Non se il fronte è potenzialmente ovunque e i morti non sono nemici combattenti ma civili inermi, neppure considerati quali obiettivi.

Non se il pilota del bombardiere che sgancia le bombe si vanta, come avviene, di ‘non provare odio per il nemico’.

Bei tempi erano quelli in cui i soldati si minacciavano e si massacravano a vicenda e in cui le guerre erano combattute da uomini capaci di odiare! Si trattava comunque di esseri umani. E coloro che si odiavano reciprocamente potevano un giorno, in determinate circostanze, anche smettere di odiare; e così smettere di sterminare; o forse persino iniziare ad amarsi.”

E l’odio? Oh certo. L’odio, e il piacere dell’odio. Vengono ancora fomentati. Perché?

La fine dell’odio potrebbe presagire la fine dell’umanità, giacché non siamo più noi esseri umani a combattere gli uomini (…)”

La conclusione di Anders è amara. Gli uomini di potere amano ancora fomentare un odio inutile per pura idiozia; e perché (il cerchio della dimostrazione si chiude, si ritorna da dove eravamo partiti) l’odio è affermazione di sé, perché dare alla gente qualcuno da odiare serve ad essere amati e divinizzati, e non partecipare all’odio equivarrà a tradire, proponendosi dunque quale oggetto di odio.

Chi protegge gli ebrei è un traditore della razza ariana” si diceva (…)”. Ma è ben possibile cambiare il complemento oggetto. Qualcosa risuona? Su chi protegge rom, immigrati, altri, generici?

Nota:
Il filosofo Günther Anders (1902 – 1992), ebreo tedesco, ha dato alle stampe quest’opera nel 1985, essendo impegnato da anni nella lotta al pericolo atomico e per la messa al bando delle armi nucleari. E’ stata una voce importante, talvolta eccessiva ma sempre lucida nella sua ‘Resistenza’ per la salvezza.
Nella Postfazione a questo libro, il curatore Sergio Fabian riporta le parole con cui Anders chiude la sua opera “I comandamenti dell’era atomica”: “Se sono disperato, ciò non mi riguarda!” Il suo è un Memento da non dimenticare.