“In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”.

Karen Blixen, La mia AfricaKaren Blixen, “La mia Africa”, Feltrinelli 1986

In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”. L’incipit mostra da subito di cosa si parla, mostra la prima persona e la forma del racconto; lo fa con un scrittura pulita, che scorrerà limpida, mai tormentata, anche se la storia della vita in Africa della danese Karen Blixen – dal 1913 al 1931 – è, con la storia della felicità che si prova trovando il proprio posto nel mondo, intrisa di grande dolore e, alla fine, di un grande rimpianto. E’ una storia che terminerà nello sradicamento, e che si era svolta, anche, nella malattia e nella sofferenza: di cui nel libro non si parla, quantomeno non degli avvenimenti che hanno segnato e reso difficile la vita in Africa di Karen Blixen, Tanne per gli amici. Il suo sguardo è sempre rivolto all’esterno, a dirci la bellezza di quei paesaggi, di quel mondo, di quei popoli. Mostrandoceli dall’interno.

Di sé, della sua vita e della sua sofferenza, fino alle ultime pagine, c’è solo, nell’incipit, quell’”avevo”, quel verbo al passato, che dice tutto.

Da lì in poi, inizia la bellezza. Una bellezza sconfinata, dove la vita e la morte avranno un significato che ingloba la montagna e la collina, l’altipiano e il cielo con i suoi movimenti, gli animali, domestici e selvaggi, la caccia, facendo convivere l’ amare e l’uccidere, amare e organizzare un safari, che darà pelli al cacciatore, carne ai portatori e ai battitori che lo hanno accompagnato; conosceremo l’appostamento e l’uccisione del leone, a difesa degli animali domestici, degli amatissimi buoi che i leoni predavano; l’uccisione di quello stesso leone che si era veduto “quando il sole non era ancora sorto e la luna stava declinando, tornare a casa dopo l’eccidio attraverso la pianura grigia, lasciando nell’argento dell’erba una stria scura, il muso ancora rosso fino alle orecchie; o durante la siesta nel meriggio, quando si riposava pacificamente in mezzo alla sua famiglia, sull’erba bassa, all’ombra delicata e primaverile delle grandi acacie, nel suo giardino d’Africa.”

E’ una storia di amore che, tralasciando gli avvenimenti personali, racconta, con parole da antropologa innamorata, la gente con cui vive, i kikuyu, gli aristocratici Masai, i somali; le loro difficoltà alla convivenza, abitanti di un territorio e di una storia devastata dal commercio arabo degli schiavi e, a seguito, dal colonialismo europeo, anche quando travestito da Protettorato (inglese, nel caso del Kenia, dove si trova l’altipiano del Ngong); il ‘servo’ amico Farah; e Kamante, il suo cuoco, il bambino pastore di capre che, dopo che lei lo aveva salvato da morte certa perché ammalato e affetto da malformazioni, scelse di restare nella sua casa, al suo servizio.

Questo libro non è una biografia: è un inno all’Africa; alla sua gente; alla sua bellezza e alla sua difficoltà; è il recupero, perché nulla vada perduto, di un’esperienza e di una vita (in realtà, meno di vent’anni) scritta quando tutto questo sarà finito, non solo perché lei sarà stata costretta, dal fallimento economico della piantagione di caffè sulla quale aveva scommesso la vita, ma perché, a quel momento, si intravvede la fine di quel mondo, quasi preconizzata dalla morte, avvenuta in quegli ultimi giorni in Kenia, del suo grande amico, Denis Finch Hatton, in un incidente aereo.

Blixen racconta un mondo e le sue regole, semplicemente, senza giudicare (se non, in realtà, per giudicarle sagge e utili). Racconta un mondo che non c’è più.

Eppure. Inevitabilmente, racconta dall’interno della realtà del colonialismo; e non fa alcuna differenza il fatto che lei approvi o meno il dato storico, sia o meno critica nei confronti della presenza bianca e dei modi di quella presenza in Africa. Lei è necessariamente interna al sistema, ne fa parte e, correttamente, non avanza scuse né vere e proprie critiche. Non prova, in modo ipocrita, a dire io non sono d’accordo. Non cerca scusanti che non possono aver luogo. Prende atto del fatto che vive nella storia, ne fa parte e, fortunata, sta dalla parte comoda, se non giusta.

Rileggere oggi questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1937, è l’avventura di una nuova diversa comprensione, nei cui confronti si intuisce (ma forse solamente si desidera) una critica, invece giustamente non messa a tema, se non, verso la fine, quando si comincia a intravvedere la fine di quel mondo che gli europei, gli occidentali, stanno causando e causeranno: fino alla situazione odierna.

Rileggendo la bellezza, è impossibile non venir travolti dall’orrore dell’oggi, non collocare, storicamente, quel racconto e la prospettiva dalla quale, accettando quel mondo, di cui faceva parte, la Blixen ne accettava anche la posizione padronale dei bianchi, di fatto. Come avrebbe potuto essere diversamente?

Tanne abita un crinale, su cui si erge, con tutto il suo carattere autorevole e aristocratico, che emerge non diversamente nei confronti degli indigeni e nei confronti del mondo europeo di Nairobi, la “città”, lontana solo venti chilometri, una Nairobi che viene descritta, come le colline dell’altipiano, a sua volta su di un crinale, non più ciò che era ma forse non era mai stata e ormai prossima a ciò che sarà, quando l’invasione della “civiltà” distruggerà regole e stili di vita, sprofonderà quelle culture nell’anomia, stravolgendole dall’interno.

Su quel crinale storico, la sua casa è una casa della società europea benestante e colta: con le porcellane, i cristalli, ‘necessari’ a gustare i vini che le vengono fatti pervenire, i piatti che a Kamante viene insegnato a cucinare: e diventerà bravissimo, un cuoco riconosciuto; con il grammofono; con la possibilità di ascoltare Beethoven ma non solo. In un curioso miscuglio che non impedisce la familiarità con le capanne kikuyu, con la sporcizia, la malattia, con il sangue e la caccia, con la fatica estrema, con la morte. Non impedisce che la casa venga frequentata dagli indigeni, dagli squatters, “individui che vivono sulla terra di una colono bianco, coltivandone qualche ettaro per proprio conto; in cambio lavorano per il padrone un certo numero di giorni ogni anno.”

Oggi ci è difficile, almeno per me è difficile, mettere a fuoco quel mondo bianco; l’idea che qualcuno, non proprio ricchissimo, possedesse tremila ettari di territorio, una piccola parte dei quali utilizzata per la piantagione; il resto, bosco, pascolo, le shambas, i villaggi degli squatters, cinquecento ettari, come se qualcuno potesse essere proprietario del luogo in cui la gente vive.

I miei squatters probabilmente vedevano il rapporto in una luce completamente diversa: là erano nati, là, spesso, erano nati anche i loro genitori e avevano tutta l’aria di considerarmi una specie di squatter di marca superiore, un ospite dei loro possessi.”

Tutto è detto. E siamo solo a pagina quindici. La positività sta nel fatto che non ci sia menzogna, che ci sia consapevolezza e, emergerà in seguito, tra le righe, non condivisione, tuttavia con l’assunzione di responsabilità, priva di scusanti, della propria posizione.

Cosa dire: un libro bellissimo, che si legge d’un fiato; che si legge lentamente: sia perché le descrizioni dei paesaggi costringono a fermarsi, a darsi il tempo di vedere, di sentire, di far entrare in noi; sia perché la lettura, almeno per me, oggi, è intrisa di un non molto sottile disagio. Che diventa un positivo bisogno di riflessione Di bisogno – sì, sono queste le parole giuste – di non farla facile e chiamarsi fuori. Oggi. Quando tutto è accaduto e quel bel mondo (e persino quei “buoni” sentimenti) hanno mostrato, e continuano a mostrare, tutto il loro volto violento e distruttore.