John Maxwell Coetzee, “Vergogna”, Einaudi 2000
“Forse è una lezione da accettare. Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un’arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità.”
David Lurie è un professore universitario, insegna Scienze della Comunicazione e tiene un corso monografico, annuale, sui poeti romantici. Cinquantaduenne, ha alle spalle due divorzi; e ritiene di aver risolto sufficientemente bene il problema del sesso frequentando una casa di appuntamenti. I suoi bisogni, pur richiedendo di essere affrontati, non lo portano a provare grandi passioni.
“Gli viene in mente Emma Bovary, che ritorna a casa sazia, con lo sguardo appannato, dopo un pomeriggio di scopate selvagge ‘Questa è dunque la felicità’ – esclama Emma guardandosi allo specchio – ‘Questa è dunque la felicità di cui parlano i poeti!’ Be’, se mai il povero spettro di Emma dovesse capitare dalle parti di Città del Capo un giovedì pomeriggio, se la porterà dietro per mostrarle come può essere la felicità: moderata, molto moderata”
David non ama insegnare, sa di non trasmettere ai propri studenti una qualsivoglia passione per una materia che, in effetti, neppure lui ama. È il suo lavoro, lo accetta come tale, subendo il doversi piegare alla necessità. “L’ironia di questa situazione non gli sfugge: colui che viene per insegnare impara la più bruciante delle lezioni, mentre coloro che vengono per imparare non imparano niente.”
Quando, a seguito di una storia con Melanie Isaacs, una sua studentessa, verrà di fatto costretto a lasciare l’insegnamento, pubblicamente coperto di vergogna, sembra non farne un dramma. Si può ben dire che, anzi, accelera egli stesso la propria cacciata dall’insegnamento, non difendendosi come, forse, avrebbe potuto.
Si interroga. Su di sé, su ciò che è accaduto, sulla vergogna che lo ha ricoperto e sul suo non sentirla tale, nel mentre la subisce e nel mentre deve d’improvviso ripensare la propria vita. Dare speranza a progetti vaghi, disancorati dalla realtà.
Vorrebbe dedicarsi a qualcosa che lo appassioni. “La verità è che è stufo della critica, stufo della prosa un tanto al metro. Vuole scrivere musica: ‘Byron in Italia’, una meditazione sull’amore eterosessuale in forma di opera da camera”. Byron e la sua Teresa. La giovane ravennate contessa Guiccioli, ultimo amore del poeta, lo intriga. David Lurie riflette: su di sé, sull’amore, sugli eccessi. Sul poco tempo che ha di fronte.
“Eppure anche i vecchi, cui presto andrà a fare compagnia, e i barboni e i vagabondi, con l’impermeabile macchiato, i denti falsi screpolati, il ciuffo di peli che spunta dall’orecchio, sono stati figli di Dio, con arti dritti e occhi limpidi. Si può forse biasimarli se, al dolce banchetto dei sensi, si aggrappano alla sedia fino all’ultimo?”
Il tema – la Vergogna, il disonore, l’umiliazione – è apparentemente già affrontato. Il lettore segue la narrazione: terza persona, la distanza del narratore esterno corrisponde alla distanza che il protagonista prende da se stesso, dalle proprie emozioni, dai propri bisogni; il contesto appare quello di una buona ipocrita società borghese, mentre le riflessioni di David su di sé creano l’aspettativa di un intreccio coerente con l’universo in cui si muove. Il tutto sostenuto da una scrittura agile, scorrevole, capace di far presagire un seguito interessante e crearne l’attesa.
Ed infatti: ecco il movimento. David Lurie chiude casa. Si reca dalla figlia Lucy, venticinquenne, che vive a Salem, nella parte orientale della provincia del Capo, dove possiede un po’ di terreno, coltiva fiori e ortaggi che vende al mercato settimanale, gestisce un piccolo canile. Una scelta di vita che segue un’esperienza, ormai chiusa, di comunità.
“Perfettamente a suo agio con i piedi scalzi, gli va incontro con le braccia spalancate, lo abbraccia, lo bacia sulla guancia. Che bella ragazza, pensa David stringendola; e che bell’accoglienza al termine di un lungo viaggio!”
Ma la vita di Lucy apparirà, da subito, incomprensibile per il padre che, tuttavia, accetterà di entrarvi, compreso l’impegnarsi nel dare una mano a una coppia, due coniugi animalisti, Bev e Bill Shaw, che gestiscono una piccola misera clinica veterinaria. Assicurano a cani e animali domestici le povere cure possibili e, alla fine, una soppressione senza dolore.
David fatica a capire la scelta della figlia, il suo mondo, la vita dura, le scarse relazioni, l’aiuto equivoco di Petrus, un vicino che aiuta Lucy nei lavori pesanti e nella vendita di ortaggi
“E tu? E’ questo che vuoi dalla vita?”
“Mi accontento, – risponde Lucy sottovoce”
Lucy non maschera le difficoltà ma conferma le proprie scelte, marcando la propria distanza dal mondo del padre che, a sua volta, non mitiga il proprio giudizio.
“Quello che fai tu, quello che fa Bev, è ammirevole, ma gli animalisti mi sembrano come certi cristiani. Così gioiosi e pieni di buone intenzioni che alla fine ti viene una gran voglia di stuprare e saccheggiare il mondo intero. O di prendere a calci il gatto.”
“Stuprare e saccheggiare”. Il tema della vergogna, del disonore, dell’umiliazione, assume altre forme. Gli avvenimenti incalzano, la fatica di vivere esplode, per David, in un alternarsi vorticoso di cadute e ricomposizioni dell’immagine di sé, di rispecchiamenti nell’immagine di altri, nell’impossibilità di ricreare un mondo che tenga unito un io costretto ad un confronto impari con la realtà; nell’impossibilità di un mondo che possa comprendere in sé il desiderio di nuovi progetti, l’espiazione per la sua storia con Melanie, la relazione con la figlia e con i drammi che la colpiscono, nella vita che ha scelto e che conferma come sua (“Non posso essere figlia per sempre. Non puoi essere padre per sempre. So che sei animato dalle migliori intenzioni, ma non sei il consigliere di cui ho bisogno, non in questo momento. Con affetto. Lucy).
Mentre tutto accade, la musica canta, dentro di lui, l’amore infelice di Teresa, che Byron ha infine lasciato, disonorata e nonostante ciò innamorata; Teresa che ha perduto il suo poeta, morto di malattia in Grecia.
“I suoi desideri sono immortali e lei canta i suoi desideri. Non morirà mai.”
Anche Teresa deve fare i conti con la vergogna. Che appartiene ad ognuno. Che sta nell’occhio di chi guarda e sente, dovrebbe sentire, l’impudicizia dello sguardo che giudica. Che non può essere risolta dalla giustizia formale; che non ottiene pacificazione dal caricare il peccato su di un capro espiatorio.
“I capri espiatori funzionavano quando erano un’emanazione del potere religioso. Caricavi i peccati della città sul groppone del capro e lo scacciavi, così la città veniva purificata. Funzionava perché tutti sapevano interpretare il rito, divinità comprese. Poi gli dei sono morti, e di punto in bianco ci siamo ritrovati a dover purificare la città senza aiuto divino. Si sono rese necessarie delle azioni reali al posto di quelle simboliche. È così che è nato il censore nel senso romano. La parola d’ordine è diventata vigilanza: vigilanza di tutti su tutti. La purificazione è stata sostituita dalla purga.”
Nella casa di Bev, David impara che la vergogna colpisce il cane, come l’uomo. Impara che anche il cane chiede la restituzione di un onore che equivale al rispetto per la vita. Per ogni vita. Il rispetto che inizia nel riconoscere il diritto di ognuno, uomo o animale, al proprio destino.
Questo è il primo libro che leggo di J. M. Coetzee, autore sudafricano, premio Nobel 2003. L’ho riletto. Lo rileggerò ancora. Molte le possibili letture; ad ognuno la sua, credo.
Leggerò altri libri di questo autore. Mi aspetto che, come questo, non siano libri riposanti ma libri di una durezza resa ancor più feroce da una scrittura scorrevole, limpida, priva di asperità, che non consente di sfuggire importanti domande di senso; libri che, come questo, aiutano l’accrescimento della nostra capacità di comprendere, di prendere dentro di noi e amare ciò che vive e, certo, per ciò stesso, soffre. Animali compresi. In ogni caso, questo è un libro necessario. Da leggere.