
In cui racconto cosa sto leggendo e cosa vorrei proporre. Svagandomi, cosa che, diciamolo, è ciò che regge la passione e l’abitudine della lettura – certo insieme a quella cosa che ci diciamo sempre per la quale leggere è anche pensare, riflettere, conoscere, crescere, rivedere le proprie idee, svilupparne di nuove, viaggiare, instaurare relazioni e intrattenere dialoghi nel tempo e nello spazio, abbattendo le barriere linguistiche: tema, quest’ultimo, di grande importanza e cui sarebbe necessario porre maggior attenzione.
Non si parla quasi mai dei benemeriti ma, pare, poco considerati traduttori italiani per l’editoria. Potrebbe essere il prossimo tema di queste chiacchierate: cosa sappiamo di quei tali che, detenendo, come ovvio, il diritto d’autore sulle proprie traduzioni, sono degli sconosciuti per la maggior parte dei lettori; il che comporta anche la difficoltà di riconoscere la qualità del lavoro di ognuno. E’ un tema davvero interessante, che solo per ora lascio.
Tornando alla lettura e allo svago: possiamo dirci e ridirci tutto ciò che la lettura è, ma niente reggerebbe senza la componente piacere. Talvolta masochista, certo, mettiamoci pure l’aggettivo, salvo intendersi sul suo significato e scoprire che è impropriamente utilizzato.
Ed è certo che, tra gli autori che ci riforniscono di buoni libri, che ci danno piacere nei molti significati del termine, ci sono anche quelli che offrono prodotti appositamente scritti con intento ricreativo, dello spirito e dell’umore. Addirittura scritti allo scopo di fornire un passatempo, che non necessariamente dev’essere, anche se il termine sembra suggerirlo, di scarsa qualità, cosa che ne ridurrebbe i benefici effetti.
Prodotti ottimi, dunque. Utili per ricevere suggerimenti sui tanti modi di affrontare i casi della vita, il nostro prossimo con le sue idiosincrasie, le persone che, senza il suggerimento di un punto di vista diverso attraverso il quale osservarle, potrebbero infastidire le nostre giornate, cose così. Anche per dare una dimensione umana, accettabile, contestuata, ai grandi problemi (e ai grandi personaggi) del nostro e di tutti i tempi: un po’ di parodia, un po’ di buona satira, un sano sorriso, da portare fino ad una sana e magari grassa risata aiutano a vivere con saggezza e senso del limite, nostro e altrui.
Tralasciando per un momento il genere noir, che è sicuramente uno dei più gettonati tra i romanzi da diporto, e che annovera dei capolavori; e tralasciando anche il genere sentimentale con lieto fine incorporato, del quale abbiamo detto abbastanza, il romanzo umoristico annovera opere senza tempo.
Sotto questa etichetta possiamo collocare libri diversissimi, partendo, perché no, dal Boccaccio del Decamerone, per arrivare al ‘fantasy umoristico’ (definizione quanto mai limitativa e in parte impropria) dei romanzi di Terry Pratchett.
Da tempo avrei voluto scrivere di questo autore. Avrei voluto – anzi, vorrei – leggerlo di più. Ma trovo una grande difficoltà nel fatto che, come tutti i suoi lettori italiani, l’ho letto obbligatoriamente poco e male.
Avrei voluto parlare di Terry Pratchett soprattutto quando, a marzo di quest’anno, è stata annunciata la sua morte, peraltro attesa, anche se egli aveva solo 66 anni, dato che da tempo era ammalato di una forma di Alzheimer che, tuttavia, non gli ha impedito di continuare a scrivere. In Inghilterra il suo ultimo libro è uscito da poco.
Non ne ho fatto niente, per il senso di sbalordimento e di confusione che provo di fronte all’impossibilità di trovare l’opera di Pratchett tradotta e pubblicata in Italia in modo coerente e di qualità. Temo addirittura che questo autore inglese sia poco noto in Italia, pur essendo tra i più letti al mondo. Sicuramente – cosa di cui Pratchett si vantava – sembra sia l’autore più rubato dalle biblioteche pubbliche inglesi.
In Italia, le sue opere – in particolare le quattro saghe di romanzi ambientati nel ‘Mondo Disco’ (un mondo piatto, un disco, appunto, sorretto da quattro grandissimi elefanti che stanno sul carapace di una tartaruga che nuota, dove? Ma che razza di domanda inutile!) sono state tradotte nel tempo da case editrici diverse, poche, male, a salti, senza seguirne la progressione.
Si tratta, per l’appunto, di ‘saghe’, dove i personaggi ritornano da un romanzo all’altro, le storie hanno un seguito, e richiedono dunque che si sia letto il libro che precede per poter gustare quello che segue, e via leggendo. Vi immaginate il successo italiano di Harry Potter se, dei suoi sette libri, ne fossero stati tradotti solo tre, a cominciare dall’ultimo per passare al primo e, infine, pubblicarne uno intermedio? Bene: più o meno questo è successo, sta succedendo, con i romanzi di Terry Pratchett, in Italia.
I diritti sono detenuti dalla Casa Editrice Salani. E serve un grande sforzo, e soprattutto permane un grande interrogativo sul perché, se tutto il mondo apprezza questo autore, e dunque ne acquista, addirittura ne ruba, i libri, una casa editrice italiana provi fastidio a decidere di realizzare una pubblicazione di qualità e, con ciò, di probabile buona vendita.
Ho tuttavia letto, da qualche parte, che Salani sta prendendo in considerazione l’ipotesi di cambiare politica editoriale, se vogliamo chiamarla così, nei riguardi di queste opere. Lo spero vivamente. Spero di non averlo sognato, dato che non ritrovo la fonte di questa mia convinzione.
Così, ora sto leggendo “Tartarughe divine” e me la sto spassando alla grande. Nota necessaria: si tratta, dice Wikipedia, del tredicesimo romanzo ambientato nel Mondo Disco. Tuttavia, posso dire che è leggibile e molto godibile al di fuori della serie (basta lasciare irrisolte alcune curiosità, legittime ma non essenziali alla comprensione del tutto).
Il tema, dentro il contenitore del romanzo fantasy, è una grande opportunità di riflessione sulla religione, sulla fede, sul potere religioso, sulla violenza che il potere, in particolare quando si lega ad una fede e la deforma istituzionalizzandola, porta con sé. È dunque un romanzo che, mentre si ride (forse dovrei dire ‘si ghigna’) fornisce strumenti preziosi al nostro pensiero sull’oggi, senza neppure bisogno, vorrei dire, che ne prendiamo nota. La comicità, lo strumento della satira, in questo caso si potrebbe parlare anche di parodia, sono armi potenti nelle mani giuste, che lasciano al lettore unicamente il compito di divertirsi, mentre i suoi pensieri si ristrutturano utilmente da sé: non nel senso di ritrovarsi necessariamente a condividere il punto di vista suggerito ma nel senso, più proficuo, di mostrare la possibile varietà dei punti di vista. E la possibilità di soluzioni buone, mi par di capire, ai problemi più ostici.

Nel frattempo, e sempre in tema di svago ma non solo, ho letto l’ultimo Marco Malvaldi, “Buchi nella sabbia”. Non me ne perdo uno, dei libri di questo autore, anche se, confesso, quando esce un suo nuovo romanzo spero sempre si tratti di una storia dei vecchietti del Bar Lume (detto per chi conosce la serie: se così non fosse, consiglio provvedimenti urgenti, in nome di tutta la salute che il buonumore produce). L’autore, tuttavia, dà il meglio di sé forse proprio nei suoi altri romanzi – potremmo citare “Odore di chiuso”, in cui il personaggio del grande cuoco Pellegrino Artuso si trova, ospite presso il castello di un nobile maremmano, a doversi occupare di un delitto.
Anche in questo suo ultimo romanzo, Malvaldi confeziona un racconto, collocato in quel di Pisa nel 1902, con delitto incorporato, tra storia, fantasia e messa in scena della Tosca. Ne è protagonista Ernesto Ragazzoni, un poeta, giornalista ma soprattutto anarchico, storicamente esistito: sarà la prossima recensione, e dunque non racconto altro.
Per ora dico solo che, se anche nella serie dei vecchietti del Bar Lume, così come in “Odore di chiuso” e in questo “Buchi nella sabbia” la storia racconta una vicenda in cui c’è il morto ammazzato, si tratta di libri che difficilmente possono essere racchiusi nella definizione di ‘giallo’. In Malvaldi, il giallo è solo un piccolo espediente per dare forma a una trama. L’interesse sta tutto altrove.