Marco Malvaldi, “Buchi nella sabbia“, Sellerio 2015
Ingredienti del romanzo: La Tosca di Giacomo Puccini, il Teatro Nuovo di Pisa, cantanti, direttore d’orchestra, direttore del teatro, tecnici di scena; I Carabinieri e un giornalista, Ernesto Ragazzoni, il protagonista principale; un tempo e un luogo, Pisa 1902, un anno dopo l’assassinio di re Umberto per mano dell’anarchico Gaetano Bresci; sullo sfondo, il nuovo re, Vittorio Emanuele III, mentre Giacomo Puccini, pur in assenza, sarà un inconsapevole protagonista della storia. E l’Anarchia.
Sarà perché amo l’opera lirica e, insieme, la sua aneddotica; sarà perché ho sempre sentito un certo qual trasporto per il movimento anarchico di quegli anni (quando capita, mi esalto ancora ascoltando ‘La locomotiva’ di Francesco Guccini a tutto volume), ma anche per i Carabinieri (ho sempre pensato che la coerenza è noiosa e indice di una mente un po’ rigida); sarà per tutto questo o per altro ma, per me, questo romanzo di Malvaldi ha quel qualcosa in più che mi porta a proporlo, qui, pur pensando che, nel frattempo, tutti lo abbiano già letto.
Dico questo perché non avevo mai proposto un romanzo di questo autore, anche per la difficoltà di scegliere: i suoi romanzi sono, davvero, sempre, tutti godibilissimi. Genere: giallo. Ma non solo.
Malvaldi utilizza, anche in questo romanzo, in cui ovviamente c’è il morto ammazzato, l’alibi del racconto poliziesco che, qui come in ogni sua storia, è strumentale al racconto di altro, pur dentro un ragionevole rispetto dei crismi del genere, nella suspense che ci porta a cercar di capire chi sia l‘assassino (senza eccessi, per la verità; almeno, data la simpatia che nasce per tutti i personaggi, si pensa che, dopotutto, il fattaccio potrebbe anche rimanere irrisolto, l’assassino avrà anche avuto i suoi buoni motivi).
Ciò che cattura il lettore è altro, è l’ambiente in cui tutto avviene: il mondo della lirica, i problemi che crea la messa in scena di “Tosca”, che dovrà venir eseguita al Teatro Nuovo alla presenza del re Vittorio Emanuele III, essendo un’opera di ispirazione non propriamente monarchica, in un periodo in cui il rischio di sollevazioni popolari era temuto e non improbabile.
Sono gli anni ed è anche il territorio, dell’internazionalismo. E infatti, del quadro fanno parte alcuni anarchici, tecnici di scena e altri, tra i quali va annoverato il tenore che interpreterà la parte del pittore Cavaradossi e che Malvaldi descrive come “convinto fautore dell’idea che tutti gli uomini siano uguali, tranne lui”.
L’altro sono poi i Carabinieri: il tenente Gianfilippo Pellerey che fin dal nome si presenta come un giovane di buoni natali e di alti ideali, a partire dal rispetto assoluto per i valori dell’Arma; il capitano Ulrico Dalmasso, che, anche in questo caso fin dal nome, di suono alemanno, e dal cognome roccioso, si presenta rigido, di limitate vedute per non dire di limitata intelligenza.
In “Buchi nella sabbia” c’è, poi, quel qualcosa in più, molto di più, dato dalla ricostruzione di una storia italiana minore: la chiamo così per dire di una storia sconosciuta ai più, che mai entrerà nei libri di scuola, in quanto relativa a fatti non tali da segnare, in via ufficiale, il destino dei popoli; ma senza la quale le tristi nozioni che ci vengono propinate dalla manualistica che tutti conosciamo sono nulla, perché prive di vita, di carne e sangue. C’è il richiamo dato dalla figura storica del protagonista, Ernesto Ragazzoni, dalla cui opera più nota Malvaldi ha ricavato il titolo di questo suo romanzo: nato nel 1870, novarese di buna famiglia, poeta, giornalista, vicino al pensiero della sinistra e sicuramente ben disposto verso le idee anarchiche; morto a cinquant’anni, destino cui ha certo contribuito il suo amore per il vino.[1]
Ragazzoni è una figura interessante che, dentro una storia di invenzione, riprende vita, così come, dentro questa storia, riprende vita un ambiente, un periodo, una cultura popolare che, nell’amore per la lirica, dava il meglio di sé, esprimendo un’area di cultura condivisa che, a differenza di quanto avviene oggi, non separava classi sociali al tempo segnate da confini molto netti, al cui interno vi era anche spazio per l’orgoglio di ogni appartenenza. E uso la locuzione ‘classi sociali’ con tutte le riserve del caso, consapevole che il confronto con l’oggi è improprio, che il suo uso richiederebbe, per il nostro tempo, quantomeno molti distinguo.
L’opera lirica viveva della partecipazione generale. Ne erano cultori e intenditori tutti e se, in teatro, la distinzione di classe era espressa dall’occupare una poltrona in platea o nei palchi, o sedere invece pigiati e scomodi in loggione, esisteva tuttavia un ‘comune sentire’, documentato da una estesa aneddotica; quello per cui, nel racconto di Malvaldi, viene raccontata l’occasione in cui un pubblico unanime, dalla prima fila di poltrone all’ultimo posto in piccionaia, avendo ascoltato un pessimo tenore nel ruolo di Cavaradossi, espresse il proprio giudizio attraverso un caloroso applauso, spontaneo ed entusiasta, non al canto bensì al muto plotone d’esecuzione che fucilava l’interprete.
Non so, forse tutto ciò porta me a ridere di cuore perché quel mondo e quella passione sono state anche le mie; sono aneddoti che risvegliano, in me, ricordi di gioventù, la mamma melomane che raccontava di quella volta in cui, secondo lei al Regio di Parma, al grido che chiude ‘Cavalleria Rusticana’ – “Hanno ammazzato compare Turiddu!” – seguì voce dal loggione: “han fat ben, ‘l dovea cantar mejo!”[2].
E il pensiero che, forse, la storia è la stessa, che di voce in voce cambia teatro e opera, documentando per questa via il calore del pubblico, la realtà per cui la messa in scena di un’opera era qualcosa di condiviso, cui il pubblico contribuiva con un ruolo di cui era ben consapevole.
Era, quello della lirica, un teatro vivo, che apparteneva al suo pubblico, che poteva accomunare nobili, borghesi, classe lavoratrice e, certo, anche i Carabinieri, quanto meno il tenente Pellerey, amante del bel canto e dunque equanime verso gli anarchici intenditori cui lo accomunava tale passione.
Ma proprio i Carabinieri, nel duetto di pareri contrapposti tra Tenente e Capitano, nel problema di dover rispetto alla gerarchia, nei richiami al “Galateo del Carabiniere” di Gian Carlo Grossardi e al “Codice cavalleresco Italiano” di Jacopo Gelli – testi che, confesso, darei qualcosa per poter trovare – costituiranno il momento clou del racconto, riservandoci una bella sorpresa in chiusura di storia.
Una cosa strana, in effetti e, a mio parere, un colpo di genio dell’autore: tutti, ma proprio tutti, condividiamo una stima condita da alcune certezze sui componenti dell’Arma. Tutti, ma proprio tutti, sappiamo distinguere ciò che vi è di favola metropolitana in tali certezze, sorrette non da vera credenza ma dal fatto che amiamo crederle. Come mai, dunque, alla fine, restiamo allegramente sbalorditi da una conferma di ciò che, fuori dal mito, sapevamo bene, al chiudersi della storia?
Un romanzo piacevole, dunque, fonte di allegria, con il quale trascorrere un tempo ben speso. Ma anche una storia che regala conoscenza, che apre domande, che induce ad allargare i nostri interessi e suscita utili curiosità.
[1] Ernesto Ragazzoni, “Buchi nella sabbia e pagine invisibili. Poesie e prose”, Einaudi, Torino 2000
[2] Hanno fatto bene, doveva cantar meglio!