«Quante altre persone erano diventate nere in America?»

AmericanahChimamande Ngozi Adichie, «Americanah», Einaudi 2015.

Traduzione di Andrea Sirotti

 

«Quante altre persone erano diventate nere in America?» È la domanda che si rivolge Ifemelu, la protagonista di questo romanzo della scrittrice nigeriana.

La storia. Ifemelu, una ragazza nigeriana, riesce ad andare negli U.S.A. per completare gli studi universitari; la sua partenza è parte di un progetto condiviso con il suo ragazzo, Obinze che, a differenza di lei, non otterrà il visto per l’America. Quando Obinze riuscirà a partire sarà in direzione dell’Inghilterra, il rapporto con Ifemelu ormai interrotto.

Le vite dei due ragazzi percorreranno strade diverse, di grande fatica, che porteranno lui al successo, economico e sociale, nel proprio paese, dopo un’esperienza di emigrazione fallita, e lei a realizzare pienamente il proprio progetto di vita negli U.S.A.

Ifemelu diventerà una nota blogger, autrice di «Razzabuglio, o varie osservazioni sui Neri Americani (un tempo noti come negri) da parte di una Nera Non Americana». Otterrà una borsa di studio a Princeton, vivrà una positiva relazione con un N.A. (Nero Americano), professore universitario; e quando avrà ottenuto anche la cittadinanza U.S.A. e l’agognato passaporto, sceglierà di lasciare tutto e rientrare in Nigeria, a ritrovare la propria identità e, solo forse, riallacciare il rapporto con Obinze, interrotto in modo molto doloroso.

La storia parte da qui, dal momento in cui Ifemelu, avendo deciso il ritorno a casa, sta recandosi a farsi fare le treccine africane; lavoro di ore, carico di un lungo incontro con altre donne nere, clienti e parrucchiere, un tempo di chiacchiere e storie di vita.

Da qui in poi, la storia proseguirà per salti temporali – la vita di Ifemelu e di Obinze in Nigeria, i modi e le esperienze della crescita, gli amici, le famiglie – il percorso americano di Ifemelu, le difficoltà e le esperienze traumatiche – la vita di Obinze, il suo non riuscire a raggiungere Ifemelu, il non averne più notizie, la drammatica esperienza inglese, il rientro a casa.

Il lettore verrà immerso in mondi impossibili da porre in una relazione di continuità, i cui linguaggi, sotto la specie della comune lingua inglese, risulteranno tra loro intraducibili mentre i salti temporali della narrazione saranno lo strumento, efficace, che darà concretezza al costante sentimento di frantumazione di sé che i protagonisti sperimentano.

È stata una lunga lettura. Una lunga storia, narrata in terza persona e dunque oggettivata, che attraversa luoghi e situazioni, esperienze di vita che con fatica si possono coniugare tra loro, dentro un’identità coesa. Una lettura che si snoda lungo percorsi che non tanto descrivono, danno ragione della crescita e del mutamento di una persona, quanto portano un sentimento di identità a rischio di scissione, impossibilitata a far convivere immagini di sé che confliggono nel confronto-scontro tra l’esperienza interiore del proprio sé e l’immagine di sé, altra, che la realtà di immigrazione restituisce.

«La razza non è biologia: è sociologia» farà scrivere l’autrice a Ifemelu, nel suo blog.

«La razza non è genotipo: è fenotipo. La razza conta perché c’è il razzismo. (…) Molti neri americani hanno un bianco tra i loro antenati, perché i padroni bianchi avevano l’abitudine di andare a stuprare le donne negli alloggi degli schiavi. Ma se vieni fuori scuro è fatta. (Quindi se sei la tipa bionda con gli occhi azzurri che dice: “Mio nonno era un pellerossa, perciò vengo discriminata anch’io, quando i neri parlano della merda che devono sopportare, per favore piantala subito.)»

Nello sperimentare su di sé il problema, il personaggio parla del <diventare nere>, e dunque mostra di conoscerne il significato di esclusione. Pure, di lei viene detto che, nella sua Nigeria, non aveva mai saputo di essere <nera>. Conosceva, doveva conoscere, l’esistenza di un problema di diritti civili negati che colpiva gli afroamericani. Ma non lo avrebbe mai riferito a sé; lei non era afroamericana, era nigeriana. E quando dice il desiderio degli afroamericani di ‘essere bianchi, di negare le proprie caratteristiche somatiche («Certe donne nere, (…) correrebbero nude per strada piuttosto che farsi vedere in pubblico con i capelli al naturale») dice il suo coglierlo a partire dal suo essere nera e, insieme, trovarsi ad esserlo divenuta.

Ricordate? – «Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto in un enorme insetto immondo» – Si prova la strana impressione di leggere una improbabile spiegazione dell’incubo-non incubo di Kafka.

Così, nel blog scriverà: «Cari Neri Non Americani, quando fate la scelta di venire in America, diventate neri. Chiusa la discussione. Smettetela di dire sono giamaicano o ghanese. All’America non interessa. Che importa se nel vostro paese non eravate <neri>? Ora siete in America. Abbiamo tutti i nostri momenti di iniziazione nella società degli ex negri. La mia è avvenuta in una classe al college quando mi hanno chiesto di dare il punto di vista nero, solo che non avevo idea di cosa fosse, quindi mi sono inventata qualcosa.»

Il tutto, alla fine, risulta sbagliato, in qualche modo. Che è sicuramente ciò che l’autrice si proponeva, e il sentimento di disagio che ne deriva prova la riuscita del libro, l’obiettivo raggiunto. Ma anche no. Non del tutto e non solo.

Risulta sbagliato, e reso molto bene, il modo dell’ipocrisia bianco-progressista di voler affiancare la lotta dei neri a partire dal chiedere loro di veder riconosciuta la propria superiore capacità di negare il problema.

«Accumuliamo tutto dentro la testa e quando veniamo a simpatiche feste progressiste come questa, diciamo che la razza non è un problema perché è quello che ci si aspetta da noi, per far star meglio i nostri simpatici amici progressisti. È la verità. Lo dico per esperienza» dirà Ifemelu ad una festa in una casa bianca-progressista, gelando gli astanti, imbarazzati.

«Vorrei portarmi via un po’ di quella salsina fantastica, se ne hai ancora» rimediò la poetessa, scuotendo la testa.

Ma risulta anche sbagliato nel modo in cui, necessariamente, la negritudine orgogliosa e identitaria della protagonista si trova a non poter aver luogo senza un conflitto che esita nello scontro con il <Nero Americano>, prima ancora che con il <Bianco Razzista>. Quasi che il tema del razzismo, e lo specifico modo del suo concretarsi per il Nero Americano, non possano districarsi dal suo <essere per me>, punto e basta. Per Ifemelu.

E per l’autrice? La narrazione in terza persona, in questo libro, non nasconde, e anzi complica, una scrittura che, se non è autobiografica in termini di esperienze reali di vita, resta carica di una voce in prima persona. Ecco, forse proviene da qui il disturbo che, nel libro, si sente.

Seguiremo il tema del trattamento chimico dei capelli, il bisogno di renderli lisci, il problema del cuoio capelluto bruciato, inutilmente, mentre impera il modello capelli lisci di Michelle Obama; o proponendo, in opposizione, le treccine africane, o i capelli crespi e voluminosi, come auto-costrizione a sbandierare un’accettazione di sé: che dunque fallisce.

Un libro un po’ ruffiano, almeno quel tanto che è necessario a scrivere la contraddizione, a mostrare come si vive mentre si perdono pezzi, di identità e di pelle; e lo strumento che Ifemelu aveva trovato, il blog, «Razzabuglio», si rivelava un’arma che, puntata contro il fuori, colpisce, di ritorno, quel suo sé che non aveva saputo di essere <nero>, che desiderava il proprio normale esserlo e ne era impedito.

«Più scriveva più diventava insicura. A ogni post grattava via un’altra scaglia di sé, finché non si ritrovò nuda e falsa.»

Non so, c’è qualcosa che rende non solo complesso ma significativamente incongruo lo sguardo che, a partire dal non aver mai riferito a sé il tema della razza, rende viziato di fondo il «come» della lucida percezione dei significati che il razzismo porta con sé, le strane forme di collusione cui dà luogo.

Sicuramente qualcosa di faticoso anche solo da pensare, per chi legge questa storia alla cui fine, forse, solo forse, il lettore potrà dire di vedere di fronte a sé la donna che ha cercato pagina dopo pagina, situazione di vita dopo situazione di vita. E faticherà a criticare alcuni aspetti di questo romanzo (troppo lungo, per esempio?) per tema di risultare non politically correct (ad immagine sgraziata dei progressisti americani così ben inquadrati dall’autrice) dicendo che, forse, è impossibile, anche per l’autrice, esserlo.

Da leggere. E sicuramente leggerò gli altri romanzi di Chimamanda Adichie