Una voce per ogni giardino, e per ognuno di noi

Pia Pera, «Al giardino non l’ho ancora detto», Ponte alle Grazie 2016

Al giardino non l’ho ancora detto – / Non ce la farei. / Nemmeno ho la forza adesso / Di confessarlo all’ape.

Non ne farò parola per strada- / Le vetrine mi guarderebbero fisso – che una tanto timida – tanto ignara / abbia l’audacia di morire.

Non devono saperlo le colline – / dove ho tanto vagabondato – né va detto alle foreste amanti / Il giorno che me ne andrò –

e non lo si sussurri a tavola – / né si accenni sbadati, en passant, / che qualcuno oggi / penetrerà dentro l’ignoto.

Emily Dickinson, in “Poesie religiose

_________________________________

Pia Pera è morta, all’età di sessant’anni, il ventisei luglio di quest’anno.

I versi di Emily Dickinson avevano aperto, per lei, il tema della morte, quando il suo tempo non conosceva ancora il proprio limite.

Nella Premessa a questo libro – diario di un tempo che vive il percorso ormai noto alla propria fine – racconterà di come quella poesia la colpì, allora, “con la forza di una rivelazione. Mi parve contenesse un atteggiamento rivoluzionario verso la morte”.

Da lì, verrà lo sviluppo di un pensiero che, nella malattia, nel confronto con il limite di ogni giorno, che ogni giorno si spostava e precludeva e restringeva il fare, otterrà che non venisse precluso il vivere; verrà la scrittura di pagine che, riconoscendo l’orizzonte della vita, ne costituiranno un inno; insieme ad una apertura indeterminata dell’essere al mondo che, relativizzando, allentando, la corazza dell’identità, avrebbe restituito possibilità, gioia per l’esperienza dei sensi, dello sguardo rivolto al ciclo della natura; e una grande vitalità, capace di fronteggiare anche i momenti dell’angoscia, della disperazione, del rifiuto.

Con il pensiero del, sul, giardino; il pensiero per ciò e per chi (come il cane, Macchia) dipendeva da lei; un pensiero che virerà in tanti pensieri, nel farsi dell’esperienza e nel chiudersi progressivo dei suoi spazi. Sempre agiti.

Che fortuna, in generale, che non sia possibile scrivere tutto quello che passa per la testa, senza disciplina, senza ombra di rigore, mentre ci si aggira in giardino. Perché spesso sono solo fantasticherie, rêveries prive di sostanza e costrutto. È la mente che si riposa giocando, prendendo tutto quello che capita a tiro per farne costruzioni inconsistenti come bolle di sapone. (…) Pensieri e immagini fluttuano, sbadigliano, si stiracchiano, godono dell’assenza del sorvegliante. Libera uscita. Se ci si incapriccia di immaginare il giardino pieno di aspettative che noi potremmo deludere, che male c’è, è una fantasia affettuosa. Certo smussa lo sgomento in agguato”

Avevo scelto di attendere per parlare di un libro che, testamento di una vita che raggiunge il suo termine anzitempo, esprime grande bellezza e potenza, evocative di valori.

La notizia della morte, pur attesa, di Pia Pera, mi ha raggiunto mentre stavo terminando queste pagine; e mi ha portato sia il bisogno di porre un tempo di sospensione prima di terminarne la lettura sia, a seguito, ad escludere il pensiero di poterne scrivere nell’immediatezza. Ho sempre sperimentato una personale difficoltà nel parlare di qualcuno al tempo della sua morte, pur comprendendo che si tratta del momento giusto per farlo, in cui offrire voce alla commemorazione, alla condivisione della memoria, per mantenerne e fondarne la persistenza.

Ora, terminato il libro, so che, per poterlo veramente chiudere, è quasi necessario poterlo fare in compagnia, condividendolo.

Pia Pera
Pia Pera. Foto corriere .it/cultura/16 luglio 26

Pia Pera, classe 1956, scrittrice, traduttrice di romanzi dell’800 russo, è, è stata, per me, poco più di un nome che significava un blog, http://www.ortidipace.org/ (interesse curioso e saltuario per una come me, dotata di un pollice verde spesso capace di uccidere, per buona volontà distratta, qualsiasi pianta non ami sopravvivere da sé contro tutto e contro tutti); significava un vecchio libro di racconti, «La bellezza dell’asino», Marsilio 1992,  caduto di fatto nella dimenticanza e, constato, sparito dai miei scaffali. Un prestito non rientrato? Possibile. Ora sto attendendo il postino per recuperarlo.

Un’autrice, dunque, che avevo dimenticato, fino alla pubblicazione di questo suo libro-diario-testamento dal titolo tanto evocativo. E fino al trovarmi immersa in un testo che, da solo, giustifica una intera vita di scrittura; un libro che avevo tenuto in disparte, per una lettura “privata”, credendo (chissà perché) di avere un tempo davanti a me, un tempo, ancora, dell’autrice; mentre riflettevo, attraverso le sue parole, sul tempo mio.

Pia Pera, a un certo punto della sua vita, sceglie di abitare una vecchia casa di famiglia, in campagna, nella zona di Lucca, e dedicarsi alla cura di un grande orto-giardino, attività nella quale ha investito una filosofia di vita, condivisa attraverso il suo blog e attraverso un’intensa attività divulgativa, realizzata attraverso libri che non ho letto (ancora); e attraverso attività con le scuole, le carceri, con gruppi, per lo sviluppo di orti sociali, sulla base di un pensiero semplice e, come tale, rivoluzionario per la nostra società. Questo: che chiunque coltivi un orto, anche quando tale attività sia dettata da esigenze di sopravvivenza come accadde per quelli che furono chiamati “orti di guerra”, in realtà lavora per la pace; e che dunque ogni orto è un “orto di pace”, è il frutto di un lavoro che crea relazioni tra le persone, nel rapporto con la natura e con la comunità di appartenenza.

Alla fine di questo suo percorso, è arrivata, ha scelto di arrivare, a questo libro. Iniziato come riflessione-diario, dopo che, attraverso incertezze e spazi di speranza rivelatisi inutili, le era stata diagnosticata la SLA, Sindrome Laterale Amiotrofica e la certezza di un percorso, per un tempo limitato e limitante, verso l’abbandono di sé nel mondo e l’abbandono di quel mondo – il suo giardino – la cui vita e la cui identità dipendevano da lei; quando la memoria ha recuperato i versi della Dickinson che tanto l’avevano colpita, in un tempo diverso.

Mi trovo ora alle prese con un libro che non voglio “dire”. Perché dice un tempo di vita che evolve e non può essere fissato; e dice di un pensiero che evolve, di una persona impegnata ad adeguare il proprio esistere al cambiamento, facendo vita di questa esperienza, intensa, piena; perché nulla, di questo percorso, può essere fermato in una sintesi, se non la personale lettura che ognuno ne farà, per sé, per la propria unica realtà e la propria unica esperienza del lutto – per la diversità dei tanti modi in cui si lascia e si viene lasciati, per un non aver potuto, o saputo, accompagnare o per l’esperienza di un accompagnamento che si vorrebbe diverso; per ciò che tutto questo porta, ad ognuno di noi, nel pensiero identitario e impossibile del proprio non esserci; per la ineffabilità dell’esperienza che appartiene alla vita di ognuno e di tutti; dell’esperienza più taciuta e respinta, nel nostro mondo. Che qui, venendo accolta, se pur con fatica e dolore, mostra tutto il suo essere parte fondante della vita.

L’esperienza della dipendenza, fisica, del chiudersi dell’autonomia del corpo e delle sue funzioni; quando “anche il giardino sta scemando: tutto cresce incontrollato, si va perdendo il sia pure sommesso disegno.”

Ma non voglio raccontare. Se non  i versi di Robert Louis Stevenson che chiudono questo libro –  non i soli di queste pagine:

___________________________

“A letto d’estate”

“D’inverno mi alzo la notte /e mi vesto alla luce gialla della candela / D’estate è tutto il contrario, / mi tocca andare a letto di giorno.

Mi tocca andare a letto e vedere / gli uccellini saltellare ancora sull’albero, / Oppure sentire i passi dei grandi / Che se ne vanno ancora per la strada.

Ma non vi pare brutto / Col cielo così chiaro e azzurro / Quando si vorrebbe tanto giocare / Dover andare a letto di giorno?”