Un breve pensiero, sul leggere meno

cachiMentre il riordino delle librerie prosegue, trattandosi di un lavoro che, per sua natura, non può aver fine, c’è nell’aria la chiusura di un altro anno. La si sente venire, quasi non si potesse attendere oltre, velocemente e distrattamente assolti il Giorno di Ognissanti e il Giorno dei Morti – un malvisto e mal goduto Halloween da parte di bambini privati della complicità adulta per un gioco rituale mal condiviso (che pure ci apparteneva, con altri nomi, con riti diversi di uguale significato).

La fine dell’anno si avvicina attraverso una brutta anticipazione che, con tratti ossessivo-isterici, le nostre città ridondanti di luci precipitano a favore di un commercio fallimentare e convulso, rendendo il tempo del Natale già consunto al suo arrivo.

halloweenCome ogni anno, da molti anni, ci viene rubato il silenzio del tempo autunnale e negata la sua bellezza di nebbie e lunghe piogge, di paesaggi che sfumano nei contorni indefiniti, al di là dei vetri, dei residui appena intuiti di verde rosso arancio sugli alberi, da guardare nel piacere dello stare in casa a godere il calore dell’interno – e certo, quasi sempre, oggi, manca il fuoco di una vecchia cucina economica in cui infilare stecchi e qualche piccolo ciocco, e la cappa, decorata da una pizzo casalingo di filo bianco lavorato all’uncinetto, con la sequela dei cachi riposti a maturare mentre, sulla piastra, si cuociono castagne e si bruciano scorze di arancia. Mancano, soprattutto, bambini forzati a trovare e godere i piccoli giochi lenti della noia che, nel dopocena, diventavano favole, quando c’era un nonno, per i più fortunati un bisnonno, che leggeva o, ancor meglio, narrava, e ritardava l’andare a letto presto del tempo in cui anche gli adulti, con la scusa dei piccoli, stavano nel piacere di un racconto che ritornava, rassicurante, sempre uguale come le stagioni, a far da barriera all’incertezza. E le donne interrompevano il rigovernare, e gli uomini, quelli, talvolta, erano usciti per la partita a carte all’osteria ma anche no; fingevano anche loro il rimanere e l’ascolto del piacere dei bambini. In silenzio. La cucina greve di fumo.

il-romanzo-di-un-giovane-poveroErano case, quelle dei più, dove non c’erano librerie da riordinare; i pochi libri, quando c’erano, avevano a che fare con la religione – nessuna Bibbia, da noi, raro un Vangelo, per lo più una vita di santi di qualche tipo, magari un don Bosco, dalle mie parti alla moda perché la scuola privata femminile era delle monache salesiane e l’oratorio della parrocchia, riservato ai soli maschi, aveva a sua volta a che fare con il santo che avviava al lavoro i ragazzi perduti, e occorreva da subito instillare nelle giovani menti nordestine il concetto di un’etica del lavoro, e chi mai avrebbe potuto immaginarne i risultati, la strada dell’inferno è sempre lastricata di buone intenzioni, ci insegnavano.

I pochi altri libri, quando c’erano, erano tenuti con cura. Erano i romanzi della nonna; primeggiavano, oggi dimenticati, «Il romanzo di un giovane povero», di Octave Feuillet e «Il padrone delle ferriere», di Georges Ohnet mentre il nonno era già un patito dei grandi gialli Mondadori d’anteguerra, di cui non è rimasta una sola copia, letti maneggiati succhiati, le pagine sono entrate a far parte degli occhi dei polpastrelli della pelle delle vene. E dunque, divenuti materia umana vivente, stanno giustamente al posto loro, al cimitero. Stanno anche nella vecchia fotografia, che hanno intriso di sé, basta porre attenzione, sono lì, nello sguardo del vecchio.

Pure, la grande parte delle narrazioni era ancorata all’oralità, e non so se la memoria mi inganna ma ricordo, ripetute e ripetute, le stesse poche favole che venivano richieste, sempre quelle, non credo, in effetti, che il bisnonno ne possedesse molte, dopotutto una fiaba è pur sempre la stessa fiaba e il piacere, per il bambino, sta nella sua rassicurante ripetizione, nella conferma che la paura verrà risolta, che il tempo proseguirà, che la bella stagione tornerà; una fiaba, narrata da un nonno a un nipote è la rassicurazione, quella vera, terrena, concreta, che la vita (la <mia> vita), nei figli, nei nipoti, nel ritorno delle generazioni e delle stagioni, non avrà fine – e chissà se erano i bambini o se era il nonno a trovare la maggior rassicurazione, nel cerchio del tempo e della complicità tra chi raccontava e chi ascoltava.

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Il padrone delle ferriere, film d’epoca

Tutto questo non ha molto senso? Colpa dell’autunno; di un bisogno, non so, di vivere una stagione che ora, anche, mi appartiene, nel suo giusto tempo; di recuperare il piacere della noia, delle ore lente, e di condividerlo.

Un pensiero mi ha sorpreso, inatteso; un pensiero strano. Questo: forse, leggo troppo. Troppi libri, intendo. E il troppo impedisce il trattenere, e – non so.

So, credo di sapere, cosa ha risvegliato questo pensiero; oltre all’autunno, e anche se il ricordo ha qualcosa di fasullo perché a me i cachi non piacciono e, se oggi ricordo come buona quella noia di ore che scorrevano lente, interrotte dalla fiaba sempre quella, so bene di averle odiate, quelle stesse ore – lo si dice delle medicine, devono essere cattive per fare bene – sapendo tuttavia anche, sì, che erano occupate da qualcosa che non si è perduto e ha figliato e dunque, come la medicina amara, doveva essere buono.

Era certo molto bella, e attesa, la fiaba, doverosamente paurosa, che chiudeva la noia e apriva al sonno. Ed erano belli, di un bel colore, anche i cachi d’oro antico. Valevano il fingere di trovarli buoni anche se legavano i denti causa il volerli mangiare non ancora maturi, forzando l’attesa.

Sto leggendo, ne avevo accennato, «La Poesia», di Giorgio Manacorda. Che mi ha presa al laccio alla prima pagina, ricordando il tempo in cui “si imparavano a memoria quantità sterminate di versi che non c’era bisogno di spiegare, ma ti facevano compagnia per tutta la vita, erano degli amici, dei compagni, degli esseri viventi.”

È così. Ancora oggi ne incontro la compagnia; avviene nella notte – al buio, quando non si riesce a dormire; e ci sono anche momenti del giorno, pare strano, nella vita convulsa di oggi, ma ci sono, segnati dalla sacra feconda noia; in un tempo bruciato che incombe su di noi senza lasciarci conoscere un’attesa, divenuti incapaci di lasciare, al tempo e al pensiero, uno scorrere vuoto di cose da fare.

È allora che ci si aggrappa a una poesia, al raccontarsi da sé. Ma attenzione, è necessario che le parole siano quelle, come quando, bambini, correggevamo la mamma, la nonna, che raccontava per farci addormentare, o leggeva la fiaba e cercava irresponsabilmente di affrettarne la chiusura, saltando qua e là ciò che a lei pareva superfluo, magari una sola parola, un solo aggettivo.

“No, qui non dice così, dice………Hai saltato dove dice….”

Le parole devono essere quelle <giuste>, quelle previste, perché la liturgia funzioni. Pena il non esserci rassicurazione, nessuna certezza.

Non ho dubbi sul fatto che sia così per tutti. No, non è vero, so che non lo è. Allora diciamo che lo spero, che tutti abbiano una loro poesia, un brano, un qualcosa fatto di parole sempre uguali che non può essere perduto, un qualcosa che dice, in loro, la natura primigenia e indistruttibile della parola. Qualcosa cui afferrarsi, capace di restituire un esserci e uno stare nel dove e nel chi si è. Per qualcuno è la preghiera?

Va bene anche solo un Orco della fiaba, paesano, la figura veneta del “Barba Zucon”, terribile uomo nero che veniva a catturare il bambino nel letto, dove si doveva nascondere, a protezione, sotto le coperte – e addormentarsi cullato dal tepore e dal piacere della paura; e fa nulla se il nome dell’orco vale, in traduzione italiana, “Zio scemo”. Nulla intacca la bella paura da cui imparare ad affrancarsi.

E ora, torna il pensiero. Forse, solo forse, leggo troppo. Forse, solo forse, dovrei – rileggere e rileggere fino ad imparare a memoria? Prendere dentro di me, trasformare in carne e sangue la parola? Quella che serve. Quella che posso contenere. E restituire.

Ecco, un altro ricordo Fahrenheit 451.E quando ci chiederanno cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Noi ricordiamo.

Argomenti diversi? No, credo di no. Solo un pensiero che fatica a trovare la strada. Che chiede aiuto.

E ora, per dormire, dovrò cercare qualcosa di buono, e dimenticato, da leggere.