Storia di una montagna a cui non è possibile tornare

le-otto-montagnePaolo Cognetti, «Le otto montagne», Einaudi 2016

Questa non può essere, non da parte mia, una “recensione” nel senso che abitualmente diamo a questo termine. Tanto più trattandosi di un libro molto bello – ne fa fede l’autore e la sua scrittura sempre felice, il piacere di un italiano curatissimo senza sforzo alcuno percepibile, la costruzione perfettamente equilibrata del racconto, senza cadute, mai.

E tuttavia io, da questo libro, non sono in grado di prendere la distanza necessaria per poterne scrivere in modo, diciamo, equanime. Non ne sono in grado, pur desiderando proporlo, a causa del suo essere entrato, di prepotenza, nella mia vita, precipitandomi dentro la storia – non come uno dei personaggi, nessuna identificazione, ma per l’essermi trovata, non veduta, tra gli anonimi che abitano là, nel borgo di montagna teatro degli avvenimenti; non ad ascoltare un racconto, bensì testimone diretta degli avvenimenti, veduti nel loro svolgimento, dalla posizione di una delle voci di paese che, nel corso della storia e della sua conclusione, avranno commentato, all’osteria del posto, nei momenti di incontro, ogni fatto, avvenimento, comportamento  dei protagonisti. Ecco: mi sono trovata a vivere la parte del coro, che punteggia, e commenta, e ammonisce. Con emozioni forti, e contrastanti, molto contrastanti.

Questa si propone come una storia di fantasia, che come tutte le storie contiene aspetti, esperienze, autobiografiche, restando una storia di fantasia. E tuttavia, dentro questa storia, facilmente il lettore si ritroverà ad affrontare aspetti della propria biografia. Come dire che, forse, l’aspetto (auto)biografico che, tanto o poco, segna qualsiasi narrazione, ha qui superato l’autoreferenzialità dell’autore? Come dire di una bravura tale da poter trascinare, dentro lo specchio, anche chi legge, per mostrare (e mostrare il limite di?) una filosofia di vita, un percorso di formazione. Elaborando, e caricando di respiro universale, (anche) le proprie esperienze individuali.

Dentro queste pagine abita uno sguardo sul mondo, a partire da un mondo – la montagna, la sua bellezza, la sua ostilità; abita l’esperienza del bisogno di dominarla, sotto la fattispecie dell’amarla. Abita un amore <maschile> per la montagna. Un amore che autorizza se stesso a dominare. C’è tutto questo e molto altro, qui dentro.

La storia. Ma non è il caso di riassumerla, anche se è difficile dire che non sia importante: il narratore ha ben saputo tenerne il filo e legare a corda doppia il lettore e dunque vale unicamente il leggerla. Pure, da un certo punto di vista, si tratta di niente più di un espediente per dire la montagna e il suo carico di significati, di assegnazione di valori, di palestra di formazione alla vita – e dire insieme un mondo vicino alla sua fine, dove chi ci vive sperimenta una vita dura, una fatica che raggiunge il degrado di sé, a sfidare la sopravvivenza, comprendendo bene, senza bisogno di usare se non poche parole per dirlo, la falsità del mito a uso del turista, di chi ama la montagna la domenica; di chi la raggiunge come fosse un’amante, arrivando attrezzato per poi andarsene. Mentre chi ci vive resta.

È la storia di una grande amicizia tra due bambini, che si protrarrà nella vita adulta; tra il protagonista-narratore, Pietro che, con i genitori, veneti trasferiti a Milano per lavoro, trascorre a Grana, in Val d’Aosta, le vacanze estive, e il coetaneo Bruno, destinato a fare il casaro, già impegnato a nove anni a guardare le vacche, all’alpeggio, con gli zii. L’amicizia tra i due ragazzini diverrà per Bruno un invito, irrealizzabile, a condividere la vita di Pietro, il figlio della coppia di turisti, l’abitante della montagna estiva, e dei suoi genitori.

Difficile il dialogo tra le due famiglie. Impossibile. Dura la vita tra le montagne. Dure le relazioni. E lo zio di Bruno, il casaro, su all’alpeggio, richiesto di indicare i nomi delle cime che sovrastano la malga, risponderà:

  • “Grenon.
  • Qual è il Grenon?
  • Per noi è la montagna di Grana
  • Tutte queste cime insieme?
  • Ma sì. Non diamo nomi alle cime qui. È questa zona”

Ovvio. I nomi delle cime sono un lusso, un gioco, da turisti. Per chi ci abita, la montagna è la montagna. Che lentamente, abbandonata dagli uomini che non ci ricavano più la vita, si riapproprierà di tutto ciò che, malghe, paesi, le è stato faticosamente strappato.

È la storia di un amore per le vette predatore, anche quando si ammanta del massimo rispetto; la storia della sua versione maschile, che gode solo per poco il piacere dello sguardo che, dalla cima, si allarga all’orizzonte: il tempo di una sigaretta, ma solo dopo la conquista, dopo una salita veloce, quanto più veloce possibile.

C’è il ritrovarsi al rifugio, tra uomini, a confrontare prestazioni, rimpiangere la gioventù e le forze trascorse – e il ragazzo, alla prova cui il padre lo conduce, non denuncerà il proprio soffrire il mal di montagna; resisterà fin quando non sarà più possibile la finzione.

Dirà poi che l’aver accompagnato il padre e appreso il suo modo di andare in montagna era stata “la cosa più simile a un’educazione che avesse avuto da lui.”

Ho iniziato a leggere questo libro, dopo una brevissima resistenza, con il viatico dell’<andiamo a farci del male> perché, conoscendo la qualità dell’autore, ero sicura, sapevo con certezza, che il tema – la montagna – mi avrebbe travolta nell’amore-dolore dell’averla amata come <casa>, dal suo interno e da lontano. Un luogo del cuore e, sì, anche del dolore.

Ho scoperto, leggendo, che sarei stata travolta anche dai personaggi, da quella oggi impossibile coppia anni ’70 che conosco bene; il matrimonio nella piccola chiesetta alle Tre Cime di Lavaredo (allora un comportamento originale, talmente alternativo da venir quasi prescritto, date alcune premesse); quel bambino trascinato in auto a raggiungere le cime, con il viatico delle vecchie canzoni degli alpini – uno comincia la strofa l’altro segue – e sono la ragazza della coppia e sono la bambina trascinata dentro un abitacolo di vecchia cinquecento da un padre amante della montagna, e da una madre che condivide ma se ne starà a valle, a conoscere il paese, i suoi pochi abitanti, il cibo, le erbe, i prati, e le donne del posto.

Ed ecco il borgo, difficile chiamarlo paese, quel che ne resta, fa lo stesso che si tratti delle Dolomiti – era il tempo in cui dal Veneto ci si spostava, ancora per poco, a ovest per trovar lavoro – o se, dalla pianura fumosa di fabbriche, da una Milano di palazzoni anonimi si potevano alzare gli occhi e vedere La Grigna delle Prealpi lombarde, la guerriera bella e senza amore della leggenda, tra le nebbie di strade che si chiamavano incongruamente via degli Ontani, degli Abeti, dei Larici, delle Betulle, o Quartiere degli Olmi, dove la madre del protagonista bambino lavorava come assistente sanitaria in un consultorio, sicurissima del suo diritto-dovere ad attivarsi in aiuto delle vite altrui; per, infine, raggiungere le grandi vette valdostane, e il borgo di Grana (Graines, frazione di Brusson, ai piedi del massiccio del Rosa), incuneato tra i meandri del Torrente Evançon.

“Mia madre poi mi avrebbe raccontato che, la prima volta fu invasa da un inatteso senso di oppressione. (…) quelle valli occidentali le sembravano anguste, buie, chiuse come gole; la roccia era umida e nera, torrenti e cascate scendevano dappertutto. Quanta acqua, pensò (…)”

In alto, la valle si apre, pure se “tutto il paese sembrava fatto della stessa pietra grigia della montagna, e le stava addosso come un affioramento di rocce, un’antica frana; un po’ più in alto pascolavano le capre.”

Ci giro intorno ma la verità è che questo romanzo cattura nel senso proprio del termine, specchio magico che rende il lettore parte della storia del protagonista, della sua famiglia, della storia di Bruno, ragazzino e poi uomo, pastore di vacche, muratore, casaro, appartenente a un mondo che sta per morire.

Intorno a loro c’è il piccolo paese, un paio di donne, qualche uomo, nessun bambino più; ci sono i turisti, quelli che danno nomi alle montagne e ne parlano come se appartenessero loro; e il lettore è là, dentro lo specchio.

E se la lettrice sono io, si scatena la rissa, mi trova dentro e fuori la storia e vorrei tanto prendere per il bavero l’autore e scuoterlo, perché sì, si tratta di questo: questo romanzo mi ha fatta infuriare. Non si va così in montagna!

E questo romanzo mi ha affascinato. Se per Bruno ci sarà un’appartenenza scissa, e il futuro che ne deriverà, che si vede arrivare, pagina dopo pagina, per Pietro ci sarà – aiutato da una leggenda himalayana – l’imparare che ci sono altri modi di andare in montagna. E la dolorosa impossibilità di tornare “alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia.”