Molti studenti scrivono male…e troppi adulti leggono, e scrivono, nulla.

professore-universitarioÈ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. (…) servono interventi urgenti”.

È l’incipit della lettera che seicento tra docenti universitari e personalità del mondo della cultura hanno indirizzato al Governo italiano, chiedendo provvedimenti.

Devo dire che, di primo acchito, sono rimasta perplessa. Lo scoprono ora?

Passato il breve attimo di sconcerto, la lettera mi pare importante; quantomeno, otterrà di fornire ad un problema ben noto quell’ufficialità che forse mancava. Potrebbe derivarne l’impegno a intervenire (con urgenza? Non lo credo possibile. Da parte di chi? Molti gli attori in campo, mi pare).

Una stranezza. i correttivi che i nostri illustri docenti indicano paiono aver a che fare unicamente con la didattica, e un po’ di organizzazione:

«A questo scopo, noi sottoscritti docenti universitari (……) ci permettiamo di proporre le seguenti linee di intervento: una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base (…) i traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere e le più importanti tipologie di esercitazioni; l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano. Sarebbe utile la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria e all’esame di terza media (…)”

Fatemi capire: stanno chiedendo al Governo di dire agli insegnanti “come” si insegna? Quali strumenti di didattici utilizzare? Sicuramente, stanno chiedendo che gli insegnanti del grado superiore siano incaricati di verificare il lavoro dei colleghi del grado inferiore.  Mah! Molte le interpretazioni. Tralascio. No, una si impone: “Evitate, prego, che tali somari giungano a noi”.

A distanza di qualche giorno pare che la stampa, avida di notizie, rivolta a un pubblico avido di notizie, possibilmente di cronaca vera e nera, abbia già lasciato cadere il tema. Quando ho veduto apparire alla TV, nel corso di un TG, la titolare del MIUR mi sono fatta attenta. Pensavo che sarebbe entrata in merito: invece no, trattava il problema del bullismo nella scuola – problema serio, molto, ma – penso – un altro problema.

D’improvviso, mi pare che i due problemi (più altri) si tengano. Cerco di recuperare un pensiero. Bullismo: azione impropria che si sostituisce, malamente, a parole adeguate che mancano. La violenza è, anche, un aspetto della mancanza di parola.

Ecco, sì, lo stato in cui versa, nella nostra scuola, la lingua italiana, è certamente problematico. Prima di ciò, tuttavia, lo è lo stato in cui la stessa versa nella nostra società tutta. La lingua parlata socialmente non è meno importante e sarà difficile ottenere una buona scrittura e una buona comprensione dei testi da ragazzi che vivono in una società non in grado di esprimersi, a parole, in modo adeguato.

Per dire cosa? Per dare forma e contenuto a relazioni diverse, rispettandone le specificità. Per ascoltare comprendendo e formulare un pensiero in risposta, scegliendo le famose parole per dirlo; per fare amicizia e per chiedere, essere compresi, ottenere. Per godere la reciproca compagnia attraverso piacevoli conversazioni. Per non incorrere in diverbi e incomprensioni rischiosi e spiacevoli.

Per poi scrivere, ottenendo che il pensiero espresso sia almeno a grandi linee corrispondente a ciò che si voleva dire. Per ottenere che il nostro pensiero non mostri tutto, inopportunamente proprio tutto ciò che pensiamo, pur riuscendo a dire, bene, il necessario. Per saper discriminare.

La lingua abita un intero mondo di bisogni e da essa dipende la qualità della nostra vita, condivisa con altri, a diversi livelli di vicinanza e dunque con bisogno di diversi livelli di linguaggio.

corriere-dei-piccoli-francobolloSubentrano ricordi, nel bisogno di esplorare un percorso della lingua vissuto, i diversi tempi e i diversi mondi sociali che nel tempo hanno dato struttura alle mie/nostre parole.

Quando sono entrata alla scuola elementare, nei nostri paesi, nelle nostre città, tutti, comprese le cosiddette classi colte, parlavano il dialetto. Non esisteva la televisione (cominciava a esistere, ma era oggetto ancora raro); la radio era la sola fonte di ascolto della lingua italiana a disposizione: poco o nulla che potesse interessare un bambino.

Vita sociale: con gli altri bambini, la strada, il cortile: vigeva il dialetto; la parrocchia era per i maschi, le chiacchierate con il prete erano per i più grandi (non c’era nulla di cui parlare prima del tempo del sesso, quando il prete diveniva per i maschi il referente da cui ricevere informazioni improbabili – per le ragazze, nulla, la suora non serviva); va anche detto che, al tempo, non era abitudine degli adulti parlare con i bambini, se non per interrogarli e dare ordini. Solo con la mamma si parlava, in dialetto, naturalmente: la lingua-madre, per l’appunto.

La messa, debitamente frequentata anche dai comunisti, era in latino.

Tutto questo per dire che, a scuola, a sei anni, dopo NON aver frequentato la ancora inesistente scuola materna ci si entrava, qualcuno in lacrime, spesso senza aver mai sentito parlare italiano.

Leggere e scrivere. Bella calligrafia. Pennino e inchiostro (in commercio erano comparse le prime penne biro, ma il loro uso veniva ritenuto diseducativo, dannoso per la formazione alla manualità dello scrivere).

Leggere. La maggior parte delle famiglie non disponeva di una, sia pur limitata, biblioteca domestica. Gli uomini leggevano il giornale, solitamente al bar. Per le donne c’era Famiglia Cristiana, famiglia-cristiana-1950benemerita, va detto; e il bollettino parrocchiale.  C’era, è vero, dal 1909, il (meraviglioso) Corriere dei Piccoli (per pochi eletti), e gli album dei fumetti, malvisti, ma che a poco a poco si imposero. Biblioteche: zero via zero.

Sia come sia: al termine della quinta elementare mi pare che scrivessimo e leggessimo tutti (con qualche eccezione, certo) benissimo. Non erano tollerati errori di grammatica; al massimo qualche ineleganza sintattica.

Un lampo, e mi accorgo: tutto questo non è vero. Lo è e non lo è.

Nella mia classe non c’erano bambini “difficili”, né bambini disabili; erano “altrove”, invisibili. Se c’erano stati, erano spariti.

Dopo la scuola elementare, per me, e poche altre, è iniziata la scuola media, che preludeva alla scuola superiore – vi si accedeva mediante un esame supplementare di ammissione. Ho perso di vista le mie altre compagne. La maggior parte di quelle bambine non ha proseguito la scuola. L’obbligo scolastico finiva con la quinta elementare. E no, non tutti sapevano leggere e scrivere alla fine della quinta. In particolar modo non lo sapevano fare molte bambine, che comunque lo avrebbero presto dimenticato. Non era un problema. Non avrebbero mai dovuto, si pensava allora, scrivere; né leggere un giornale. Quanto al parlare, c’era il dialetto. Sufficiente.

Qualche bambina avrà frequentato il triennio della scuola commerciale; per i maschi c’era anche il triennio professionale: non mi è chiaro che cosa vi si studiasse.

nembo-kidLa lingua. Era quella della mamma, e quella della strada, del cortile, che comprendeva anche le parolacce, certo. Dialettali. Per i maschi.

L’italiano, la lingua della scuola, del giornale, della radio, non comprendeva un parlare men che forbito (o ritenuto tale) e il mio nonno, che ci scriveva da Milano (non c’era il telefono nelle case, ancora), iniziava ogni lettera con la frase di rito, formale:

Cara figlia e cari tutti, la presente per dirvi che noi stiamo bene e così speriamo di voi.”

Il dialetto era la lingua degli affetti, delle emozioni, della quotidianità; l’italiano, la lingua della forma, dello scritto, dell’estraneità.

Ma l’Italia, allora, avanzava: riforma della scuola media, per tutti. Innalzamento dell’obbligo scolastico a quattordici anni. Poi fine. Di fatto.

Sono trascorsi molti anni, e il tutto non pare aver realmente funzionato. La scuola pare esser rimasta, come allora, qualcosa di estraneo alla società, priva di strumenti per farsi carico del mondo in cui è chiamata a produrre cultura, se non per la buona volontà del singolo insegnante.

Quel mondo ruspante, un po’ bullo, di ragazzi e ragazze di strada, che le comunità sapevano contenere, a modo loro, e che non entrava nella scuola, oggi ha inglobato la lingua italiana mentre la scuola, con tutte le sue riforme, si è fatta unicamente invadere senza appartenere: a una società che, perduta una lingua madre, familiare, lingua degli affetti e del privato, anche sociale, non ne ha conquistata una civile. Situazione anomica, che non si rimedia (solo) con il dettato ortografico.

Oggi molti insegnanti non sono messi in grado di svolgere il loro lavoro; molti non lo sanno fare (figli-prodotto di una scuola ormai fragile); e non esiste “aggiornamento” di una competenza che non si possieda. La didattica è importante e le verifiche hanno il loro perché (informazioni di esercizio per l’insegnante e non giudizio sui ragazzi, o almeno non solo), ma non spetta al Governo stabilirle. Gli spetta invece ascoltare, proporre una visione, un progetto, definirne gli obiettivi, fornire gli strumenti di lavoro, e chiedere conto.

Sono solo pensieri in libertà. Nessuno giusto. Nessuno definitivo.