Come eravamo? “Come gli indiani!

eraldo-baldini-stirpe-selvaggiaEraldo Baldini, “Stirpe selvaggia”, Einaudi 2016

Posso dire che mi trovo a disagio nel parlare di questo bellissimo romanzo? Molto bello davvero, diciamolo subito, sicuramente una lettura da consigliare, che non deluderà lettori di gusti diversi. Una scrittura sapiente. Una storia che si dipana senza mai soffrire di cadute. Un libro che difficilmente verrà lasciato e che, anzi, facilmente verrà letteralmente bevuto, senza tralasciarne una riga.

Eppure, non so perché, qualcosa, in questa lettura, mi disturba; qualcosa che ha il sapore di un’incongruenza, che non riesco a mettere a fuoco ma di cui non so liberarmi.

La storia: un ragazzo, Amerigo, che vive in un piccolo borgo di montagna, San Sebastiano in Alpe – le montagne del casentino, ai confini tra Emilia Romagna e Toscana, se ho ben capito – figlio di Giulia, ragazza madre, lavandaia al torrente e nipote di Luigi, un boscaiolo che crescerà il nipote facendogli conoscere la foresta, la sua vita e i suoi segreti. Amerigo è figlio di Buffalo Bill (leggere il libro per sapere come ciò sia accaduto); l’arrivo, a Ravenna, del Wild West Show doveva costituire l’occasione, fallita, per conoscere suo padre e venirne riconosciuto. Da quel momento, e in conseguenza di tale scoperta, Amerigo tiferà per gli indiani.

Il ragazzino, che ancora non sa, attende di entrare a vedere lo spettacolo. Attende i suoi adulti che stano procurandosi i biglietti. All’entrata c’è la statua di un indiano.

Davanti a quello un altro indiano, stavolta in carne e ossa, stava fermo e impettito come una statua. Era alto, i capelli neri e lustri, le fattezze eleganti e possenti allo stesso tempo. Sul viso aveva i segni di guerra colorati, in mano teneva una lunga pipa, e la sua pelle scura luccicava come se l’avessero cosparsa di unguenti. (…).”

Gli indiani si allenano, un po’ si esibiscono.

“(…) le asce volarono e coprirono il palo. Amerigo annuì, ammirato. Poi prese dalla tasca il coltello che portava sempre con sé e lo scagliò a piantarsi a pochi centimetri dalle asce, mormorando: “Lo so fare anch’io, cosa credete?”

“Stavolta furono gli indiani ad annuire e ammirare.” Ridendo, gli segneranno il viso con i loro colori e gli metteranno una penna tra i capelli.

Comprimari della storia, con Amerigo, saranno Rachele – la figlia di Alma, la guaritrice, la donna che sapeva sentire, prevedere, alla cui nascita si era sentita “urlare la balza”, quel rumore del sottosuolo che segnalava l’imminenza di fatti gravi, eventi nefasti, e allarmava gli abitanti di S. Sebastiano, portando con sé l’angosciata accettazione di chi conosce la propria debolezza di fronte alla natura e al soprannaturale – e Mariano, l’amico figlio di commercianti benestanti, con cui condividere scorribande e malefatte infantili:

Come gli indiani?” chiedeva Amerigo quando stavano per buttarsi in qualche scorribanda o avventura.”

“Come gli indiani! – confermava Mariano, e con il fango, l’erba, la ruggine delle pietre o il sugo di qualche bacca si dipingevano le guance e la fronte, un’unzione che buffalo-bill-and-wild-west-showaveva il valore di un sacramento barbaro e profano.”

Era una terra, la loro, carica di storia, e di presenze, e di un sapere condiviso e non detto, solo accennato.

Il romanzo seguirà le vite di Amerigo, Mariano e Rachele lungo la prima metà del ‘900 e gli accadimenti del tempo. E seguirà la vita di una vetrina di comprimari, storie di vite anomale e originali, che la comunità di appartenenza sa integrare nella vita comune.

Personaggi: accattivanti, ben disegnati – protagonisti a tutto tondo circondati da un coro di figure paradigmatiche, tipizzate con sapienza, prive dunque di chiaroscuri – che regalano al lettore, nello loro buona o cattiva sorte, il piacere di una storia che, pur nelle asprezze, nelle prove che ogni personaggio si troverò ad affrontare, in un ambiente di vita e in un periodo storico difficili, la rasserenante familiarità di tutto ciò che, in quanto altro dalla norma, è ben noto e normato. Come in una fiaba, dove il principe è il principe, la serva è la serva, la maga è la maga, e il folletto, e il gigante, e il malvagio – e persino la cattiva regina (nel caso, ci accontentiamo di una contessa) – ottemperano ai loro ruoli di indicatori di un destino.

Compreso il Mazzapegolo, folletto maligno dei boschi.

Personaggio principale, tuttavia, sarà il borgo, il bosco, saranno i riti e i miti di una comunità isolata e, insieme, connessa al mondo che la circonda, capace di vivere la propria particolarità senza separatezza. Così come avviene nelle fiabe che, certo, rappresentano un mondo altro e tuttavia compreso, come tale, nell’appartenenza.

Non si tratta di una fiaba? Vero. Pure: che ci fa, allora, tra i personaggi, un cane che non muore mai e dopo aver fedelmente seguito e protetto fin dall’infanzia una padrona ne seguirà e proteggerà, per la vita, la figlia?

Sono i racconti, i personaggi, dei paesi di noi tutti, di un’Italia composta da piccole comunità, dove non esiste anonimato; di un’Italia che le grandi città non rappresentano, se non nella misura in cui sono anch’esse un agglomerato di quartieri, borghi, stanzialità radicate e inamovibili. E se oggi non è più così – ecco, tanto più si gusta il piacere del riposo in un mondo che ci appartiene, dove anche le disgrazie, i destini infausti, possono venir riassorbiti da una narrazione che li fornisca di senso.

In quei mondi, esiste un sapere taciuto, un patto, dove ci stanno le storie individuali e le favole, livelli di realtà diversi eppure fattuali, ed esistono i modi della credenza che vengono chiamati ad essere rituali di compensazione.

Ercole – “La gente del paese, di tutti i paesi, sa tante cose, quelle che si possono e quelle che non si possono dire, quelle giuste e quelle no, quelle belle e quelle brutte. E conosce verità da raccontare sempre e comunque, bugie costruite per malignità oppure a fin di bene e anche segreti da mantenere ad ogni costo.”

Amerigo – “Cioè?”

Ercole – “Cioè è così che va, e basta. (…)”

Il disagio dicevo – dopo aver letto un bel romanzo, con grande piacere. Perché? Da dove?

Ci provo – con il timore di instillare in chi legge un dubbio, improprio, sull’opportunità di leggere questo autore, e questo suo libro.

Ecco, si tratta forse di questo: troppe cose; troppi livelli diversi di tipizzazione dei personaggi, livelli che in qualche modo cozzano tra loro.

L’antropologo Eraldo Baldini si è fatto forse un po’ prendere la mano, disturbando il narratore? Viceversa? Sta di fatto che si affastellano figure che, tratteggiate nelle forme tipizzate da macchietta del paese (troppi? Per un paese tanto piccolo, un borgo; troppo accolti? Troppo normati?), ad un certo momento lasciano questa loro figura per assumere ruoli propri della norma; dove la tipicità si riassorbe, l’estrosità diventa saggezza, il matto del paese, integrato senza sforzo nella sua comunità, viene ricondotto alla sua inabilità a vivere  con gli altri, non appena si crei il bisogno di un capro espiatorio. E le vite seguiranno la via della norma – in un momento storico e dentro avvenimenti che, quelli sì, pure se sono storia, nulla hanno di normale. Perché è così che avvviene, in effetti. Storie di paese, da tenere finché serve, poi basta.

I luoghi: con tutta la consistenza del reale, che si integra perfettamente all’invenzione (ebbene sì, ho cercato S. Sebastiano in Alpe e, contro l’evidenza, non mi sono resa convinta che non esiste). La risposta sta nel fatto che esiste, come somma di piccole storie di diversi piccoli luoghi; che, nella somma, nella ricostruzione, per pezzi sparsi a formare un realtà altra, senza esserlo, danno un senso di incongruenza che porta quel disagio incompreso di cui dicevo. A me.

Il personaggio, Amerigo, il cui destino è essere leggenda, per la storia della sua nascita, sarà costretto a diventarlo per la sua vita; costretto ad assolvere il compito – perché nessuno, vivendo, può prescindere dall’assumere la storia di vita che la sua comunità gli ha assegnato, salvo l’esilio, e la perdita di sé. La sola vera libertà consiste nell’essere, per propria scelta, la persona che ci è stata assegnata e al cui destino non si può sfuggire. Forse.

È la mia esperienza di lettura, non una recensione, e come tale la porgo. Invitando a leggere questo libro; e desiderando che, chi l’ha letto, me ne dica qualcosa. A parte il piacere, indubbio.