In cui si parla di abitudini insane, ma forse no

Particolare pubblicità Olivetti, Lettera 22, 1958.

Un pensiero mi ha sorpreso, inatteso; un pensiero strano. Questo: forse, leggo troppo. Troppi libri, intendo. E il troppo impedisce il trattenere, e – non so.”

Avevo scritto questo, era il 23 novembre scorso, in un post (qui). Qualche riflessione un po’ a casaccio, forse un pensiero non ancora giunto a maturazione.

E la scrittura? Ecco, la scrittura: la trascuro, in effetti. La mia, intendo, quella solo per me; quella che, come tutti noi, frequento. Quella che serve a dar forma ai pensieri, non importa sotto quale titolo, alibi, categoria.

Capita solo a me?

Poi: ci sono tutte le cose che scrivono gli altri, questo bellissimo mondo dei blogger, che restituisce libri non letti, interessanti chiavi di lettura di libri già letti, perché uno stesso libro, come sappiamo bene, è tanti libri e può essere diversamente declinato da lettori diversi.

Il castello dei desideri, su questa strada, svetta sempre più alto, finché le tessere del mio gioco crollano, lasciandomi a fronteggiare voglie a valanga, in un esercizio di incertezza, stile asino di Buridano, travolta dall’incapacità di scegliere, anche se, ecco, no, non muoio di inedia da lettura. Di indigestione, tuttavia, sì. Di fretta – del terminare un libro per darsi a un altro.

Ancora: capita solo a me?

Non va bene. Proprio no. Ogni libro richiede un suo tempo per la digestione, come un buon pasto; richiede uno spazio che, per quanto contenuto, consenta di tramutare ciò che si è letto in carne e sangue propri; un tempo che ci consenta, avendo assimilato una lettura, di uscirne diversi, arricchiti da un aumento della complessità, di quella buona, coesa e coerente; capaci di interrogarci con nuove domande, di ritrarci ancora un po’ dalle risposte.

Non è un pensiero chiaro, ma rotola nella testa, qualcosa come un impasto che deve ancora venir lavorato a lungo.  È presto per dargli forma e infornare.

Digerire. Dis- gerere, portare intorno, distribuire. Nel caso della lettura: alla testa, al cuore, alle emozioni; e allo stomaco, al respiro, ai muscoli: ad ogni senso – suoni, immagini, profumi, tatto.

Assimilare. Inglobare in sé. Finché il tutto non sarà divenuto carne e sangue, appunto, e nervi; muscoli, ricoperti da una giusta quantità di adipe che riscaldi; unghie artigli; e mani grandi e braccia per contenere.

Accade, poi, di pensare al leggere come ad un ritrascrivere, parola per parola, dentro di sé, immagino; e perché non farlo nella realtà? Perché non farlo davvero? – e non riesco a togliermi il brutto vizio della sottolineatura, come dell’orecchio alla pagina; nei momenti di pignoleria (tentativi a vuoto di buon costume, nel senso proprio del termine), nei quali acconcio il libro imbandierandolo con post-it dei più vari colori, listarelle di carta segnalibro, cartoline e foglietti-appunti.

C’è di che pensare, a tutta questa disponibilità di libri, troppi, troppi, ingordigia, cupidigia, eccesso, sì, bulimia. Libri dappertutto.

Una domanda. Ma gli amanuensi, loro, là, in piedi allo scrittorio, a occupare intenti tutta la luce del giorno, ore e ore di fatica e precisione; a copiare, miniare, attenzione e silenzio, centratura assoluta sul compito. Loro, gli amanuensi, li leggevano, poi, i libri? – che dire “i libri”? “Il” libro- che ricopiavano, attenzione a non sciupare la pergamena, gli inchiostri, avete presente, in tipografia, quegli scatoloni di scarti di carta mentre le macchine sputano fogli fogli fogli, caratteri, pagine su pagine, rumorose e furenti, sì, furenti.

Gli amanuensi monaci lo leggevano, certo, ci immettevano anche pezzettini di sé, correzioni taciute, giusto quel po’, solo un po’, di riscrittura. Decidevano la cancellazione ad etaernum di qualcosa.

Leggere richiede una punteggiatura. Terminato il libro – punto. È il momento del pensiero. Lo è anche in corso di lettura, a temine capitolo – virgola. Interrompere, ritornare su ciò che si è letto.  Punto e virgola. Interrogativi ed esclamativi. Puntini di sospensione. Rallentare, qualcosa come assaporare lentamente il boccone, inghiottire, poi sostare, prima di raccogliere un nuovo boccone. Rimanere un momento in compagnia del sapore gustato. Perché si compia il bolo, e la digestione sia proficua per tutto l’organismo. Pensiero compreso.

Al termine, chiuso il libro, sarà utile riaprirlo. Risfogliare. Rileggerne, qua e là, alcuni passaggi. Trattenerlo, chiuso, tra le mani. Poi deporlo, certo, reinserirlo nello scaffale? No, dovrà stare ancora a disposizione, è cibo ancora caldo, il tempo del frigorifero, della conservazione, non è ancora giunto.

Rileggere. Tutto. Qualche pezzo. Tornare all’indietro.

Vorrei rallentare il tempo! Del giorno, dico; non è un desiderio di avere più giorni di vita. No. Di questo sono sicura. È un desiderio di avere più tempo nel giorno. Ore lente. Anche un po’ di pensiero a vuoto. Quello che ora sto esercitando, temo.

Incontinenza – si chiama incontinenza. Fossi almeno un po’ religiosa, o qualcosa di quel genere che ho sempre capito poco, potrei dare un significato a tutto questo, mentre per quest’esito agnostico della mia educazione religiosa devo ringraziare le suore salesiane (o esprimere una reprimenda nei loro confronti) un anno o poco più di scuola materna, cinque orribili anni di scuola elementare che, come l’amore di Fred Buscaglione, “ripenso ancora con terrore”, quando nella mia testolina, tenera ancora ma già potenzialmente peccaminosa, veniva immessa a secchiate la consapevolezza dell’incombere dei tanti possibili peccati in cui potremmo incorrere, anzi, in cui cadremo sicuramente, da cui tanto bisogno di preghiera, tanto controllo dei pensieri, che erano brutti di default,  molto prima del giungere al tempo giusto per compierli, altempo in cui avremo almeno vagamente intuito quali fossero questi brutti pensieri.

L’esperienza dev’essere stata, credo, l’equivalente di una vaccinazione a virus vivi, depotenziati da una mamma che ridacchiava ai miei briefing su ciò che avevo appreso a scuola dicendo, sibillina, “Sai, ci sono anche peccati che è un peccato non fare” – e io a interrogarmi, era chiaro che si trattava di un indovinello di cui non avrebbe mai svelato la soluzione; e a soffrire le colpe morali del non aver condiviso le caramelle con le altre bambine, dell’essermi arrampicata sul proibitissimo e pericoloso albero di fichi, e dell’essere stata a giocare, di nascosto, con i bambini degli zingari giostrai periodicamente accampati poco distante, frequentazione che mia mamma non trovava opportuna. La povera donna si affrettava a procurarmi un libro per tenermi buona a casa, a leggere, e a riflettere sui suoi indovinelli. Risultato raggiunto.

Di recente, sono stata fuori casa due giorni e NON ho portato con me il computer. Quasi due interi giorni di astinenza. Ci si è burlati di me, ne abbiamo riso, ma mi ha raggiunta l‘osservazione per cui dovrei provare ad astenermi per quindici giorni – è la verifica, per bevitori fumatori e consumatori falsamente saltuari di sostanze, della dipendenza acquisita, qualora la cosa non riesca.

Mentre non confessavo che, certo, non avevo il portatile con me, ma nella mia borsa ci stava pur sempre il mio Moleskine e la stilografica – e in valigia la boccetta di inchiostro, ebbene sì, sono legata a vecchi riti di scrittura comme il faut – mi sono resa conto che sicuramente non un giorno della mia vita, da che ho coscienza di me, è trascorso senza un libro. Dipendenza, sicura. Neppure saprei reggere la sola idea di quindici giorni di astinenza dalla lettura e dalla scrittura.

Non fa male, mi si dirà. Non è detto. L’abuso, l’ingordigia, fanno male sempre.

Ho terminato di leggere “Il musulmano errante” di Alberto Negri. Un libro affascinante, e importante, per quella strana, forse inutile idea per cui è bene capire cosa sta avvenendo in questo nostro mondo; almeno un po’.  Ora me lo sto rileggendo, e appuntando; nella speranza di poterne raccontare qualcosa.

Ieri sera, ho iniziato “Terradilei”, di Charlotte Parkins Gilman; le prime cinquanta pagine, e sono colpita dalla scrittura di questa donna, attuale, vivace; una narrazione che, prima ancora di giungere in medias res, prepara in gola l’attesa del riso, e non solo.

Prometto. Come si dice, mi darò una regolata. Nel frattempo, mi frulla in testa un piccolo progetto per la gestione del marasma librario. È ancora in nuce. Forse non c’è. Ci penso. Se il pensiero si dipanerà, ne racconterò. E mi scuso per la filippica, ma senza rinunciarvi (scuse ipocrite, dunque, e falsissime).