Letture vacanziere

E no, le mie vacanze non sono terminate; non del tutto. Sono semplicemente state, diciamo così, strane, vaghe, segnate da inciampi di diversa natura, a partire dal non funzionamento del Wi-Fi – che DOVEVA funzionare, era stato previsto e programmato perché funzionasse – fino al tempo meteorologico traditore, di cui mia madre diceva che non si fosse mai sposato per non dover mai obbedire.

Ed ecco un rientro anticipato, sia pur di poco; non una vera interruzione ma una coda di tre giorni da trascorrere a casa senza, tuttavia, sentirsi veramente rientrati alla routine dei giorni.

Sono state buone ferie; dedicate al riposo, a girovagare senza meta certa, scoprendo di esser diretti, senza averlo progettato, a ritrovare vecchi amici che non si incontravano da tempo; in luoghi di mare e di verde, riposanti alla vista anche con il tempo incerto, certissimo del suo non volersi assestare.

“Vacanza”, in Vocabolario etimologico online: latino vacantia, da vacans, participio presente di vacare, essere vacuo, sgombro, libero, senza occupazioni………….

A ben guardare, è stata proprio la “vacanza” che si era progettata, sgombra di quei falsi obiettivi (tra cui, temo, anche il ripensare il blog) che, dovendo credere al vocabolario, sarebbero risultati incongrui; essendo invece congrui con un miglior uso del tempo di vita di ogni giorno.

Non è mancata la lettura; e la scrittura – per me sola; con un’aggiunta, sulla pagina facebook del blog, di brevi commenti sull’esperienza e sui libri letti, che ora condividerò, qui.

Tre buoni libri, che non sarebbe giusto definire leggeri se, con questo aggettivo, si volessero intendere banali prodotti di consumo. La leggerezza è altro.

Tre autori molto diversi, proposti da due piccole case editrici di qualità, Astoria e Iperborea.

M. C. Beaton

M. C. Beaton, uno degli pseudonimi con cui la scrittrice Marion Chesney firma una serie gialla, con protagonista Hamish Macbeth, un anomalo poliziotto di paese. Di questa autrice avevo letto, in passato, un altro romanzo giallo, firmato con il suo vero nome, protagonista una giovane aristocratica inglese di inizio novecento. Quel romanzo non mi aveva indotto a conoscere meglio l’autrice.

Ho scoperto trattarsi della stessa autrice solo dopo aver letto questo e, avendolo trovato migliore del precedente, mi interroga la scelta di certi autori di utilizzare pseudonimi diversi per generi diversi, o per dar vita a protagonisti diversi di romanzi in serie.

Barbara Pym

È seguita Barbara Pym: nome noto, di una scrittrice attiva negli anni ’50 del secolo scorso, rapidamente dimenticata, che sta vivendo, senza eccessi, una rivalutazione che, in effetti, merita. Ecco, nel suo caso, il tema della “leggerezza” sicuramente nulla ha a che fare con la superficialità di un prodotto di semplice consumo.

Arto Paasilinna

Terzo e ultimo nuovo (per me) autore di questi giorni: Arto Paasilinna. Un inizio di conoscenza con un autore interessante, di cui mi avevano resa curiosa Claudia (qui)  e Pina (qui).

Ed ecco le brevi note su queste tre letture.

M.C. Beaton, “Morte di una moglie perfetta. I casi di Hamish Macbeth”,

Astoria 2017. Traduzione di Chiara Libero

Diciamolo: il titolo è accattivante. Crea sia l’attesa sia la sicurezza del sapere di cosa si parla. Un giallo, certo, del genere “tutti a favore dell’assassino”, o giù di lì.

Con l’aggiunta di una storia d’amore dal carattere incompiuto, con un po’ di morale sui “veri” valori della vita, qualcosa del genere.

Piaciuto? Anche sì. Pure, non so come mettere a fuoco qualche riserva, dovendo tuttavia ammettere che mi sono sorpresa a parteggiare. Vale a dire che il libro funziona, che i personaggi hanno spessore, con qualche limite di improbabilità del contesto, tutto sommato lieve e perdonabile. Vero, tuttavia, che il mio prender parte non è andato a favore del protagonista.

Un paese, una comunità più o meno affiatata, che accoglie una coppia che vi si trasferisce. Nei paesi si fa così: si accoglie e si sottopone a esame. Si collabora al trasloco, si offrono torte. Ci si conosce.

La nuova signora si inserisce velocemente, diventando una leader delle mogli, casalinga perfetta e sostenitrice di battaglie sociali (contro alcool, per una dieta sana, ecc.). Tutto segue, mentre al lettore vengono fatti conoscere il paese e i suoi abitanti.

Si fa leggere, e bene. Direi ottimo sotto l’ombrellone. E no, non ne racconto altro: dopotutto, si tratta di un giallo.

Barbara Pym, “Un po’ meno che angeli”,

Astoria 2017.Traduzione di Nicoletta Rosati

In libreria il titolo mi ha attratto come il ricordo di un desiderio; giunta a casa, ho scoperto di aver già letto questo libro, molto tempo fa – edizioni la Tartaruga, 1988.

Un doppione, accade. Due sono i casi: nel primo caso, non si riesce a trovare un libro amato, lo si suppone perduto – genere prestito mai rientrato – lo si riacquista e poi lui si fa trovare; nel secondo caso il libro non era risultato interessante e aveva lasciato la nostra memoria, salvo una traccia di titolo, confondibile, appunto, con un desiderio di acquisto.

Eppure, il libro meritava di essere ricordato. E ha ben meritato una rilettura.

Barbara Pym è stata un’autrice britannica (che più non si può) di successo negli anni ’50 – ‘80, dimenticata, riemersa. La storia è, in realtà, una descrizione d’ambiente – studenti di antropologia culturale, i loro professori, l’ambiente universitario; i tè, i riti e i miti di una società legata in modo acritico alle proprie tradizioni, che si esalta nello studio delle tradizioni altrui.

Lo sguardo dell’autrice è uno sguardo di antropologa che si esercita sugli antropologi, con ironia, neppure molto velata ma sicuramente molto ammodo. Uno sguardo, poi, su due mondi: il maschile e il femminile; sui maschi in partenza per (o di ritorno dalla) “zona operativa” in terra d’Africa; sulle ragazze, per lo più dedite ad altro, a scrivere racconti, o studentesse alle prime armi: forti, nella loro fragilità culturalmente prescritta almeno tanto quanto i maschi risulteranno fragili, nella loro attesa di partire, o forse no – per la “zona operativa”, appunto.

Una buona scrittura. Scorrevole. Pacata. Bandite – meglio: assolutamente presenti ma doverosamente controllate – le grandi emozioni. Interessante. Leggerò ancora questa autrice.

Arto Paasilinna, “Il mugnaio urlante”,

Iperborea 2016. Traduzione di Ernesto Boella

Primo romanzo, per me, di questo autore, che da tempo ero curiosa di conoscere, senza passaggio all’atto per la prevalenza, ad ogni occasione, di qualche altra lettura nel mio interesse.

Ora, con tranquillità, senza fretta, leggerò sicuramente altre sue opere, sicura di trovare una buona lettura, divertimento, emozione e occasione di riflessione.

Che dire: un romanzo facile alla lettura senza essere banale, anzi; un mondo finlandese che, ricco di una bella estraneità rispetto al nostro, ci riporta tuttavia a un’universalità dei tipi umani, a un modo delle relazioni sociali che suscita ricordi; a un mondo dai tratti noti dove la coesione sociale, capace di solidarietà, amicizia, condivisione, si presenta unita al suo lato oscuro, intollerante, in cui prevale, date certe condizioni, il respingimento, l’odio, la separatezza.

Ed ecco giungere il marchio della follia, quale strumento per l’esercizio di un potere improprio; che poco ha a che fare con la verità di un individuo; mentre il dolore di una vita ha invece molto a che fare con la capacità di viverla tutta, di conoscerla, felicità compresa, dentro ogni condizione e, per tale via, fornirla di significato.

Comunque vada, qualunque sia la conclusione di una storia.

Si ride, in queste pagine; ci si diverte, mentre ci si rattrista, molto, si soffre con il protagonista, un mugnaio buono, capace, pieno di risorse utili a se e al suo prossimo, che disturba quello stesso prossimo con l’abitudine, la notte, di ululare, interrompendo così il sonno altrui: vecchi dolori, che domandano di essere espressi in questo modo, sicuramente catartico.  Che incontrano altri dolori, altri bisogni, e anche un vicendevole sostegno.

Il manicomio, dove notoriamente non ci stanno “i matti”, pare sempre una buona soluzione, o una buona vendetta. Mentre la vita, per chi la ama, offre risposte e soluzioni. Anche drammatiche. Anche molto originali.

Bello.

Dopodiché, mi sono decisa per una rilettura, tuttora in corso, che da tempo cercava il giusto momento. Uno dei libri più interessanti, e più lunghi, degli ultimi anni.

Mo Yan, “Le sei risurrezioni di Ximen Nao”, Einaudi. Per la traduzione di Patrizia Liberati.

E poiché la mia vacanza non è ancora conclusa, ora me ne vado a leggere.