Professione scrittore? Anche sì. Occorre uno pseudonimo

Evan Hunter

È iniziata l’estate. E le sue letture disimpegnate?

Strano luogo comune. Nonostante tutto ciò che se ne dice, viviamo in un mondo dove la lettura è di massa, in ogni mese dell’anno; e in cui «Il Libro», quello con la maiuscola, viene venduto e diffuso più o meno attraverso gli stessi canali che diffondono «i libri», i prodotti di una letteratura anche di intrattenimento, diffusa, sconosciuta fino all’era moderna: che non esclude certo la qualità, anche elevata, dei prodotti.

Abitiamo una società che, per un verso, legge e scrive in centoquaranta caratteri mentre, per altro verso, il mondo dei lettori è caratterizzato – anche dove, come in Italia, si legge “poco” – dal segno del consumo diffuso. Il romanzo in particolare, che nasce e si sviluppa con la modernità, mette a disposizione la grande letteratura intrecciata con una narrativa di consumo al cui interno occorrerà distinguere tra libri buoni, meno buoni e carta sprecata. Tutti insieme appassionatamente. Nella società dei consumi perché mai il libro dovrebbe potersi chiamar fuori dal percorso?

Ed ecco: noi leggiamo, non solo d’estate, anche e per lo più una narrativa che, per contenuto, per scrittura, per genere, non aspira alla durata, quantomeno non oltre, diciamo, la vita del suo autore o poco più; mentre l‘autore, producendo nuove narrazioni, instilla nuova vita anche nelle sue opere datate – vale a dire che fornisce motivo all’editore per ripubblicarle, mantenendo vivo il proprio mercato.

Ci sono opere di alta qualità, in questo campo. Opere che, anche divertendo (nei diversi significati che il verbo di-vertire, volgere altrove, contiene) informano, istruiscono, portano a esercitare il pensiero. Fanno del bene, talora molto, a chi legge.

Un esempio? I romanzi di Camilleri: che sopravvivranno al loro autore? Ecco, non credo, se non per un tempo non certo storico; non i più noti, la saga del Commissario Montalbano, legati come sono a un tempo, a un ambiente, e al loro doppio televisivo. E se oggi ancora leggiamo le storie del Commissario Maigret, e se qualcuno, in età, come la sottoscritta, può ancora godere la vecchia serie televisiva nell’interpretazione di Gino Cervi, possiamo star certi: io e i miei circa coetanei saremo l’ultima generazione a goderne.

Andrea Camilleri

Andrea Camilleri, Georges Simenon: hanno scritto molto altro, non solo i romanzi seriali. Hanno scritto altri ottimi libri, splendide narrazioni – che dureranno meno, temo, avendo meritato di più.

Le serie, dunque. E la commistione di linguaggi per cui, oggi, prima ancora che un libro veda la stampa, già ci si esercita con la trasposizione cinematografica o televisiva – indicatore sicuro, nella sua durata, di vitalità della fonte scritta. Finite le repliche delle serie televisive, finita la vendita dei libri.

Le eccezioni, costituiscono «La Letteratura», i libri che manterranno integra la loro vitalità nel tempo. Non più nei secoli. La persistenza, oggi, la durata, sembra non costituire più un obiettivo: non per un ponte, non per un edificio, non per un libro. Per la musica – forse. Per alcune arti visive. Spero.

Tuttavia, lasciato il criterio del tempo, della durata, il giudizio di qualità vale anche per ciò che non costituisce grande letteratura. Si tratta unicamente di prodotti diversi: artigianato di alta qualità versus opera d’arte? Anche se li denominiamo tutti “Libri”. Anche qui, con le dovute commistioni. Dove sta – eliminato il tempo – la linea di demarcazione?

Georges Simenon

Mi ha incuriosito un elemento che caratterizza la narrativa – mi permettete di darle il nome di artigianale? – e i suoi autori, quasi una speciale dichiarazione di orientamento per il lettore da parte dell’autore, e rivelatore della sua funzione d’uso: l’utilizzo, che chi scrive pone in atto, di pseudonimi – plurale – con cui firmare opere seriali di genere diverso. Ad esempio: romanzi rosa, romanzi noir, altro.

Tralasciando il caso italiano Elena Ferrante (che ha caratteristiche sue proprie), e i casi in cui lo pseudonimo è scelto per motivi diversi, e per essere utilizzato a vita da un autore (vedi Aron Hector SchmitzItalo Svevo, Alberto PincherleAlberto Moravia, e a proseguire) l’uso di pseudonimi, al plurale, pare tipico del mondo anglosassone.

Molti scrittori, esercitando la scrittura come professione (cosa, in Italia pressoché sconosciuta), attraverso tale espediente indirizzano i propri lettori, collocando in un preciso genere la propria opera mentre, come dei buoni artigiani, producono beni-opere diverse, frequentando generi diversi, per il bisogno, il gusto, di acquirenti diversi.

A latere, ognuno di loro si dedicherà o non si dedicherà ad una scrittura “alta”, almeno nelle intenzioni, firmata con il proprio nome: a segnare la diversità del brand.

Poi, si sa, le cose vanno come debbono andare; c’è chi produce involontariamente un’opera d’arte e chi suda sangue per generare un libro la cui vita durerà il tempo del passaggio dalla tipografia al macero; chi subirà l’onta di un grande successo nella veste di buon artigiano della narrativa vedendo morire i figli generati a prezzo di grande sacrificio. Così è la vita, diceva un tale.

Un esempio. Abbiamo parlato, nell’ultima chiacchierata, di M. C. Beaton, pseudonimo di Marion Chesney (qui); la cui produzione comprende, dal 1979 ad oggi, per romanzi di genere diverso, dal rosa al giallo, le firme Ann Fairfax, Jennie Tremaine, Helen Crampton, Charlotte Ward, Sarah Chester.

La sua produzione è altissima, prima come autrice di romanzi di ambientazione storica, poi come giallista, autrice di serie con personaggi fissi: e con firma correlata ai personaggi cui dà vita..

Ciò che appare interessante, curioso, è dunque il fatto che l’uso di pseudonimi, per questa autrice come per altri, non corrisponde a una forma di protezione, per qualsivoglia motivo, della propria reale identità, ben nota e non nascosta. Corrisponde a un modo attraverso il quale un autore “vende” aspetti diversi della propria produzione. Come se la firma definisse commercialmente l’opera, tanto più se seriale; come un brand, appunto (ma è possibile che io usi il termine in modo improprio: capitemi).

Mi viene in mente, in proposito, un altro autore di gialli, molto noto un tempo, oggi forse meno, tra gli amanti dei celebri e indistruttibili settimanali Mondadori: Ed Mc Bain, il papà del detective Steve Carella e degli agenti dell’84° Distretto. Pseudonimo di Evan Hunter, un autore oggi un po’ dimenticato, o del quale non sappiamo di sapere, per così dire, se non altro per la sua attività, anche, di sceneggiatore, ad esempio del film “Gli uccelli” di Hitchcock, nonché soggettista e sceneggiatore della serie Ironside (chi ha qualche anno in più la ricorderà), protagonista, lasciati i panni ingombranti dell’avvocato Perry Mason, Raymond Burr.

Bene, come autore di noir di successo, Evan Hunter ha utilizzato altri pseudonimi: Ezra Hannon, Richard Marsten, Curt Cannon, Hunt Collins, John Abbott, riservando il suo vero nome, Evan Hunter, ad una produzione di «romanzi» sui cui investire la propria identità di scrittore. Torna alla mente, di questi tempi, con la cronaca che quotidianamente ci riporta al problema del bullismo nelle scuole, il suo più noto romanzo, “Il seme della violenza” (con relativo film) storia di un professore che si trova ad insegnare in una scuola professionale dei bassifondi: di New York? Può essere, non ricordo, Chicago farebbe lo stesso. Ricordo invece la mia passione adolescente per questo romanzo, letteralmente consumato (ne fa fede lo scotch trasparente che rinforza il dorsale del libro e la mancanza della copertina posteriore). Caccio l’idea di rileggerlo. Oggi ne sarei delusa, temo; ci sono libri che appartengono non solo a un tempo della nostra vita ma anche ad un tempo loro proprio, e non lo superano. Meglio mantenere il ricordo?

Ritrovo ancora, di Evan Hunter, “Gli amanti”, un Pocket Longanesi 1965 – in copertina viene riproposta la quarta di un’altra edizione che recita: “Il romanzo che penetra perfettamente nel meccanismo segreto dell’abbandono femminile e, insieme, nei recessi del desiderio e della violenza maschile”. Non ne ho memoria, potrebbe essere interessante rileggerlo, se non altro come confronto d’epoca. L’uno e l’altro, dunque. Tenere a portata di mano.

Non so perché parlo di tutto questo, in effetti. Perché mi colpisce questa cosa degli pseudonimi, e dei molti pseudonimi usati da uno stesso autore, cui non avevo mai fatto particolare caso, se non per notare la cosa e lasciarla cadere, come priva di importanza.

Ora il fatto mi interroga, come indicatore di qualcosa di importante. Da capire meglio. Credo faccia parte di quel problema – il cambiamento – che ci prepariamo a fronteggiare mentre, vedi un po’, era già avvenuto quando neppure lo sospettavamo; e c’è qualcosa che ci dovrebbe dire, a proposito del nostro rapporto con «i libri» e con «I Libri» (maiuscola). Non so bene cosa.