Libri per viaggiare, nel tempo e nei luoghi

E a proposito dei legami che, intrecciando una lettura all’altra, fanno sì che da ogni libro si dipanino sentieri per altre letture-viaggi, altri luoghi, altri mondi, oggi vorrei raccontare l’aprirsi di un sentiero, di più sentieri – di una via maestra, in effetti – che rallentano e intensificano la mia lettura in corso.

In questi ultimi giorni – deve trattarsi di una anomala congiunzione astrale – qui da me si sono accumulati libri, aperti sentieri, con desideri e attese disparate, mentre sto fortemente abbarbicata al libro che sto leggendo, fonte, peraltro delle attese e dei desideri che sussurrano al mio orecchio e vorrebbero condurmi su altri percorsi.

Paolo Rumiz, “Trans Europa Express”, Feltrinelli 2012. Si tratta di un libro recente ma non nuovo, mentre una cosa nuova dello stesso autore è in attesa: “Gulaschkanone”, una pièce teatrale, voci narranti.

Breve parentesi. “Gulaschkanone” è il termine, scherzoso, che sta per “Cucina da campo”, attrezzo in cui si infilano/infilavano pezzi di carne e esce/usciva, si fa per dire, spezzatino: il rancio militare. Opera, questa, che si lega al bellissimo, e importante, “Come cavalli che dormono i piedi” (qui).

Una sbirciata veloce a questo piccolo libro (cosa breve, per non farmi attirare, ora, subito, nella sua orbita) ed ecco cosa trovo:

Voce:L’arte di narrare si avvia al tramonto! Capita sempre più di rado di incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve! È come se fossimo stati privati di una facoltà che sembrava inalienabile: quella di scambiare esperienze!”

(…)

“Tutto è cominciato con la guerra mondiale! La gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca ma più povera di storie.”

Il richiamo è forte, ma questo testo dovrà attendere ancora un po’, perché “Trans Europa Express” è un libro di grande intensità, che chiede un’attenzione esclusiva, su di un viaggio che porta alla luce fatti della nostra storia e del nostro oggi, perduti tra l’essere ignorati, l’essere stati scordati, e il bisogno di porli in relazione, perché diventino una storia, un racconto, più racconti e, per questa via, assumano una leggibilità – una, altre saranno possibili, da angolature diverse, immagino, ma unicamente se avremo prima compiuto l’operazione dell’ascolto e del narrare, se avremo fornito di senso i fatti umani e il dove, dentro quale storia, dentro quale mondo, avranno preso vita.

Fino a raggiungere i miti di fondazione delle genti, e dei luoghi, che si incontrano.

Paolo Rumiz è un narratore. Uno vero. Ed è un viaggiatore, che, percorrendo i luoghi, leggendoli, compie un percorso di conoscenza della gente che li abita; stabilisce relazioni, crea legami, raccoglie storie.

Se dunque, con il suo aiuto, riusciremo a catturare luoghi, gente, storie, e a connetterli tra loro, solleveremo un sipario sul teatro del nostro mondo e su popolazioni incluse, per lo più, nella denominazione di Europa – se non politica sicuramente geografica – che erroneamente crediamo a noi note.

Una storia di viaggio, dunque, che richiederà il concordare sulla nozione – ci si muove molto, nel nostro tempo, si viaggia poco, credo, presi come siamo dentro una rete che organizza ogni nostro movimento affinché il nostro mondo venga sempre con noi, come bagaglio appresso; cosicché, saremmo potuti benissimo rimanere a casa nostra, possibilmente con un libro tra le mani che ci racconti i viaggi, quelli veri, che altri avranno compiuto.

Tuttavia, non è ora il tempo per raccontarne. Oggi, qui, vorrei solo dire dei percorsi che un libro come questo ha aperto e che ora premono, come fosse possibile catturarli tutti insieme, in una frenesia che chiede di essere dipanata – e per fortuna non posso procurarmi tutti i libri che vorrei né rimanervi incollata, come l’ossessione richiederebbe.

Mi è occorso un nuovo atlante (in questi ultimi anni gli atlanti, o almeno quelli che trovo io, per quanto si provveda a rinnovarli, non mi soddisfano, così ne ho dovuto acquistare uno nuovo, mentre in realtà cercavo altro; il mio desiderio (di sempre, irrealizzabile) è rivolto ad un mappamondo di dimensioni tali che mai potrebbe entrare in casa (costi impossibili a parte, tanto non se ne fa nulla).

Ho dovuto prendere atto, stupita, di quanto poco io conosca i confini, soprattutto i significati dei confini, che legano le nuove, vecchissime, nazioni della nuova Europa che si va facendo (o disfacendo); di quanto io non sia in grado di <leggere> questi confini e le relazioni che costruiscono e pattuiscono tra loro – dopotutto, un confine è un potente segnale di relazione; anche di una pessima relazione che, come tale, rende il legame tra le parti ancora più intenso e necessario.

Vorrei costruirmi una mappa, per questa lettura, sapendo bene che non ci riuscirò, perché non potrebbe essere fatta di soli nomi e dovrebbe poter contenere, con lo spazio, i tempi, le storie, le persone, i luoghi.

Soprattutto, sento l’urgenza – che un libro come questo fa emergere –  di avvicinare il substrato che regge le storie che Rumiz incontra, il mondo dei miti fondativi, le narrazioni che consentono, anche non sapendolo, alla gente di ogni luogo di possedere una identità e poter agire una narrazione di sé, del proprio abitare luoghi ed esserne parte, costruendovi la propria vita in consonanza.

Ed ecco, da questo libro sono usciti due testi, per ora, uno dei quali è già in attesa sul mio tavolo:

Snorri Sturluson, “Edda[i]”, a cura di Giorgio Dolfini, Adelphi 1975.

L’autore, islandese (1179 – 1241) fu il grande storico e narratore della mitologia dell’area scandinava, di cui curò, con altissima cura filologica, la raccolta dei miti fondativi, dei componimenti lirici ad essi collegati, di una grande tradizione orale.

E già mi sono interrotta, mentre scrivo, per sfogliare il libro, che ora ho riposto, anche perché si tratta di uno di quei libri che, per un verso, riescono a tenermi letteralmente affatturata come, temo, solo i bambini molto piccoli è giustificato facciano ascoltando una storia; dall’altro, richiederebbero, per essere letti in modo utile come meritano, una preparazione che non posseggo. Con il risultato che me li bevo così come sono, così come, penso, a mia giustificazione, dovevano essere ascoltati al tempo loro, quando una voce li narrava.

Mi diranno qualcosa sulle popolazioni che oggi occupano quelle terre? Non credo, non a me, e tuttavia forse sì: senza che io mai venga a saperlo, ecco tutto. Ho sempre coccolato l’idea che le cose che si conoscono veramente si ricavino dai miti, dalle fiabe, e poi, dopo, dalle storie; e che tale conoscenza non salga alla consapevolezza, rimanendo invece dentro di noi, come un sapere inconscio buono, e una cassetta degli attrezzi per la vita.

Lo ammetto, è una convinzione che assomiglia molto a un personale mito fondativo (di me, a giustificazione di tutto il tempo della mia vita dedicato a leggere, attività che, oltre certi limiti, è socialmente considerata altamente improduttiva, soprattutto per una donna della mia generazione, lavoratrice e madre di famiglia).

Disegno raffigurante un Lönnrot peregrinante per i villaggi della Finlandia. In basso la scritta: Unus homo nobis currendo restituit rem (Un solo uomo ci ha restituito una nazione camminando).

Ed ecco allora la mia utile scusante, di tipo fideistico: accogliere i racconti, i miti di diverse genti, consentirà di risuonare con loro, pur nell’incontro che mai avverrà. Ci aiuterà a fornire di senso la nostra vita e acquisire una chiave di accesso a quella degli altri, per poterli incontrare.

So benissimo che la scusa non regge. Temo non si tratti di altro se non del modo di (non)viaggiare di una persona molto pigra. Ma, in mancanza d’altro, e di meglio, se volete provare, funziona.

Ed ora il secondo libro: Elias Lönnrot (1802 – 1884) Kalevala”, raccolta dei testi, di tradizione orale, di canti, di poemi sulle origini e la storia leggendaria del popolo finlandese, data alle stampe dal curatore circa a metà ‘800. Ne esiste, in italiano, anche una versione in prosa, che tuttavia non mi attira.

Di quest’opera io nulla conoscevo (nella mia ignorantia felix, detto in latino per blandire la mia autostima un po’ ammaccata), e sì, lo si trova, difficile decidere in quale versione acquistarlo (curatore, traduzione), essendocene più d’una. Ancora una volta, l’ignoranza non aiuta: se qualcuno ha un consiglio farà cosa grata. Difficile anche decidere se poi lo saprò leggere in modo utile, trattandosi di un’opera in versi, paragonabile, leggo, a un’Iliade finlandese. So solo che, a parte tutto, desidero fortemente questo libro, e che dunque, è inevitabile, me lo procurerò.

Avevo pensato, ne avevo parlato, che c’è il libro che porta ad altre letture e quello che apre un mondo. E c’è il libro che porta dentro di sé molti libri.

Ora, penso che, ogni libro essendo un viaggio, un libro fallito sia solo quello che non porta da nessuna parte e che, dunque, non consente neppure il rimanere, utilmente, dove si è. Come un treno su un binario morto.

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[i] Cit. da Introduzione, di  Giorgio Dolfini, a: Norri Sturluson, “Edda”, Adelphi 1975, pag. 14:

Il termine (Edda) non è del tutto chiaro nella sua origine e nel suo significato.  Si è pensato ad una forma derivata dal norreno ódhr ‘poesia’ e varrebbe dunque per ‘poetica’. Fu proposta anche l’interpretazione che ne vedeva l’antecedente linguistico nel toponimo Oddi, là dove Snorri ha trascorso parte della propria giovinezza ed acquisito le proprie conoscenze antiquarie: il termine varrebbe ‘Libro di Oddi’ ed in tal modo potrebbe estendersi anche ad altre opere, quali la silloge dei canti ‘antichi’. Altre etimologie (…) appaiono quanto mai problematiche ed insoddisfacenti”