…le loro facce scure e le armi scintillanti…

Robert Louis Stevenson, “L’isola del tesoro”, Feltrinelli 2014

Con breve saggio introduttivo, L’arcipelago”, sulla critica e sulla fortuna editoriale di R. L. Stevenson di Domenico Scarpa.

Introduzione e traduzione di Lilla Maione

 

Björn Larsson, “La vera storia del pirata Long John Silver, Iperborea 2010. Introduzione di Roberto Mussapi

Dovrò riprendere a parlare di questi due libri da dove ho lasciato, nell’ultimo post (qui), in cui scrivevo, a proposito del romanzo di Björn Larsson dell’incontro felice con una storia e una scrittura appassionanti”, e proseguivo domandandomi “come evitare, incontrando Long John Silver, di riprendere Robert Louis Stevenson, di reimmergersi nell’”Isola del tesoro”?

Ora, a termine lettura, e mentre ripasso entusiasta dall’uno all’altro, mi chiedo come sarebbe stato l’aver letto i due libri in sequenza inversa, giusto perché, va detto, il bel libro di Bjorn Larsson dà per assodata la conoscenza dell’altro, e del suo protagonista, Long John Silver che, in questo caso, sarà il narratore, colui che dovrà raccontare i fatti, come “realmente” si svolsero (mentendo, ancora e sempre, e tanto più quando affermerà di mentire e quando dirà di aver mentito in precedenza e quando realizzerà che qualcuno lo potrebbe ben smentire – rimanendo nelle sue mani, sempre, la possibilità di fornire interpretazioni diverse, affastellate l’una sull’altra, da giocoliere della parole quale il personaggio è. Lui, in entrambi i libri.

Il risultato è un senso di capogiro, nell’inanellarsi dei piani di realtà, a confermare la reale esistenza del Nostro quale frutto di fantasia e verosimiglianza, così come della goletta “Hispaniola” con cui un gruppetto di entusiasti avidi sono partiti alla ricerca del tesoro del Capitano Flint, portando con sé un ragazzo, Jim Hawkins, colui che sarà il narratore nell’Isola del Tesoro, che agirà in duetto con Long John Silver, “il cuoco di bordo” – quella figura di pirata entrata ormai nell’immaginario collettivo, con la sua gamba di legno e il pappagallo sulla spalla – suo antagonista e sua guida nella vita di mare.

Diciamolo subito: nessuna sinossi, di questo libro. Per chi lo conosce sarebbe cosa inutile; per chi non lo avesse mai letto, questi hanno tutta la mia invidia per la possibilità di una lettura vergine, tesa a vedere come la storia finirà; godendo della scrittura di Stevenson, della organicità della struttura del romanzo, del ritmo con cui i fatti avvengono uniti a quello che è, senza dubbio alcuno, il pregio assoluto di questa storia: una grande immersione in paesaggi ed esperienze dei sensi, tutti, incomparabile.

Non ricordavo, mai avrei potuto, quanto fosse bello, appagante, quale esperienza totalizzante fosse leggere “L’isola del tesoro”. Ricordavo la storia, certo, chi mai, avendola letta, la potrebbe dimenticare! Ma, da ragazzi, il mondo in cui entriamo attraverso un libro, beh, è tutto là, tutto vero, nessun ragazzo mai direbbe ma che bravo l’autore, che bel libro. Se abbiamo letto questo romanzo da ragazzi ci siamo limitati ad andarci, in quell’isola, con quella compagnia; un grande viaggio, luoghi da sogno ed un’esperienza da cui tornare esperti del mondo e della gente che vi si incontra; colmi di una paura bellissima, provata e fronteggiata con grande allegria. Dopotutto, nella storia, muore chi deve morire, non si piange davvero per nessuno mentre incontreremo crudeltà a bizzeffe, efferata e fantasiosa, proprio quella delle nostre fantasie, che ci orripilerà come cosa conosciuta, che ci appartiene; che finalmente, in luogo di ossessionarci come una segreta macchia, un incompreso senso di colpa privo di oggetto che ci fa contorcere, ecco, ha ora un luogo, e una realtà, che ne definiscono i contorni: il nostro difficile mondo della crescita è là, in un luogo che possiamo sperimentare con la fantasia; dove dunque siamo liberi. Ad ogni età.

I bambini, i ragazzi, sono crudeli, lo si sa. Gli adulti pure, anche se hanno imparato a fornirsi giustificazioni e persino a chiamare dovere e ragione e cose così le loro cattiverie. Anche se hanno dimenticato come, con la propria crudeltà, ci si dovranno infine fare i conti.

Long John Silver, tuttavia, lui non è cosa da ragazzi. Lui riesce solo, da imbroglione patentato, a farsi amare dai ragazzi nonostante tutto. Sarà necessario, e niente di più facile per un ragazzo, prendere la parte per il tutto, assumere di volta in volta il suo punto di vista, seguirlo ad ogni cambiamento dello stesso, fino a poterne prevedere, cosa? I tradimenti, i voltafaccia, la furbizia, l’intelligenza – un particolare senso della giustizia, da un punto di vista pirata, ovvio, e poi che importa, è il nostro eroe pur non dovendolo essere, accidenti a quell’imbroglione di Stevenson e purtuttavia, beh, la chiusura metterà a posto tutto, e il nostro eroe, per definizione, si confermerà – come deve essere, ma sempre con un occhio di riguardo per Long John Silver, – Jim Hawkins, il ragazzo per le cui sorti abbiamo tremato, il narratore, quello che riesce a farcela, a tener testa, a fare pazzie e cavarsela alla grande.

E Long John Silver: che facciamo? Dal punto di vista di Jim, naturalmente. Lo ameremo? Impossibile evitarlo. Lo odieremo? Anche. Ci troveremo a parteggiare per lui? E come potremo parteggiare per due antagonisti?

A Stevenson l’acrobazia riesce tutta: in un romanzo da lui stesso definito “per ragazzi”. Ma quando mai! Nella sua intenzione, anche sì, nella foga di una scrittura che, in due riprese, veloci, ha creato un mondo e una storia a partire dall’aver disegnato una mappa per gioco, per un ragazzino che frequentava la sua casa e, sempre giocando (lo fanno anche gli adulti) averla dettagliata, riempita di foreste, fiumi, percorsi, cose per, infine, darle un nome, “L’isola del Tesoro“, appunto. E disegna disegna …

Mentre indugiavo sulla mia mappa, i futuri personaggi del libro cominciavano a delinearsi tra quei boschi immaginari; le loro facce scure e le armi scintillanti facevano capolino da angoli inaspettati durante i loro andirivieni, i loro combattimenti, la loro caccia al tesoro in quella pianta di pochi centimetri. So solo che mi ritrovai con dei fogli davanti ad annotare un elenco di capitoli.”

Così scrive Stevenson in “Il mio primo libro: L’isola del Tesoro”, commento pubblicato in appendice al suo primo romanzo.

Ed ecco che, contro ogni sua intenzione di gioco, il romanzo non sarà (quantomeno non solo) per ragazzi – e il personaggio di invenzione Long John Silver, detto Barbecue (e il perché del soprannome è da brivido!), diverrà un immortale nella sua complessa personalità, nel suo essere allo stesso tempo capace di infinito coraggio, di intelligenza, di saggezza, di profonda conoscenza degli uomini, delle loro miserie e fragilità, e un indecoroso voltagabbana, mentitore, affabulatore incomparabile, infido e inaffidabile, capace di attrarre a sé la fedeltà assoluta di un equipaggio che tradirà, se del caso; tutta una vita da pirata immune dai difetti tipici dei pirati: niente rum, cura per il proprio denaro, niente sperperi inconsulti. Soprattutto, niente titolo di capitano di una nave, è un posizione che pone a rischio di venir destituiti e che impedirebbe di decidere, in ogni momento, solo per sé, per gli interessi della sola persona di cui egli ritiene opportuno occuparsi.

E il suo figlio d’affezione, il narratore Jim Hawkins, il ragazzo per il quale il pirata era una saggia figura paterna che lo proteggeva e sosteneva, dovrà prendere posizione. Dovrà salvarsi, salvare i suoi compagni. Inevitabilmente lacerato.

C’è poi, e non è secondario, che il libro si sostiene, romanzescamente, certo, sulla Storia, su personaggi reali, su avventure reali, tesori dei pirati compresi – non quello di cui il libro parla, naturalmente, non in quell’Isola che non c’è, persino i tempi sono, credo, errati, ma sarà impossibile dimenticare la verosimiglianza dei personaggi con storiche figure di pirati e corsari che hanno, anche, fatto la grandezza della marina commerciale inglese; e per i contemporanei di Stevenson (1850 – 1894) tutto ciò doveva appartenere ancora alla memoria della cronaca – dopotutto la guerra di corsa, e il genere di pirateria che vi era connessa, pur dichiarata illegale da tempo, è stata bandita definitivamente solo con il Trattato di Parigi del 1856, che mise fine alla Guerra di Crimea.[i]

 

E quale sarà stata, dunque, la vera storia del pirata Long John Silver”? Anche in questo caso: non c’è alternativa, tocca leggerla. E certamente non crederci, dato che il narratore è Long John Silver, neppure per un minuto, deliziati e confusi dal fatto che: come è possibile credere o non credere a una fantasia? Sarebbe come affrontare la dimostrazione, basata su documenti inoppugnabili, del fatto che Babbo Natale non abita al Polo Nord ma ai Caraibi. E quando mai, leggendo una storia sui pirati dei Caraibi, a qualcuno è potuto interessare il fatto che i Caraibi siano un preciso luogo geografico e non un luogo della mente? O la distinzione tra una goletta e un brigantino? O sapere quale sia “l’albero di bompresso”?

La lettura del romanzo di Björn Larsson non necessita che si sia letto “L’isola del tesoro”. E Long John Silver è lui, proprio lui. Non serviva che ci esponesse le sue ragioni, che correggesse, o integrasse, i “fatti noti” che lo riguardano se non per il piacere di leggere ancora di lui; per trovarsi ancora da quelle parti, per sentirlo ancora parlare, per saperne ancora qualcosa.

Il libro è tuttavia, di per sé, molto interessante, si legge d’un fiato, pure se, in chiusura, un po’ si ingarbuglia (provatevi voi a districarvi tra le chiacchiere e i resoconti pro domo sua di un John Silver!). E ha un pregio non accessorio: in questo caso, vedremo davvero entrare in gioco la Storia; conosceremo per via romanzesca l’Inghilterra e i suoi commerci del tempo; il traffico degli schiavi; le logiche di un mondo in cui, come oggi, come sempre, ogni John Silver che sappia, come il nostro, parlare a proprio vantaggio, non farà fatica alcuna a dimostrare che, dopotutto, lui è – e lo sarà veramente – persona assolutamente per bene.

“Siamo nel 1742. Ho vissuto a lungo. Questo non me lo può togliere nessuno. Tutti quelli che ho conosciuto sono morti. Alcuni li ho mandati io stesso  all’altro mondo, se poi esiste. Ma perché dovrebbe?

In ogni caso, spero con tutto il cuore che non esista, perché all’inferno ce li ritroverei tutti.”

Questo libro è un bellissimo viaggio nel mondo dei pirati, e un viaggio in una realtà sociale che, come dice l’autore, supera la fantasia.

Incontreremo pirati e corsari, di fantasia e non che, come detto, hanno fatto la storia della preminenza del commercio inglese sui mari; ci troveremo a Londra, a conversare, nei panni di John Silver, con Daniel Defoe, autore di grande successo e cittadino in conflitto con il suo mondo, una vita difficile tra prese di posizione politiche perdenti, arresti per diffamazione della Chiesa d’Inghilterra e condanna per bancarotta. Ci ritroveremo nella piazza del patibolo, ad assistere alle impiccagioni dei pirati; conosceremo la vita disperata dei marinai, l’abominio della tratta degli schiavi. Un piccolo grande mondo in cui sopravvivere, non importa come, diventerà il solo valore per cui vivere. E la “storia” di Long John Silver, diventerà tutta vera, e pregevole.

___________________________

[i] Nota curiosa: ad oggi, la Costituzione degli Stati Uniti d’America, che non erano tra i firmatari del Trattato di Parigi, prevede tra i poteri del Congresso quello di concedere “lettere di corsa” (https://it.wikipedia.org/wiki/Lettera_di_corsa)