Rovelli Carlo, “L’ordine del tempo”, Adelphi 2017
(Orazio, “Odi ed Epodi”, Feltrinelli, zoom Poesia)
È stato un po’ di tempo fa, era il febbraio dello scorso anno, quando ho proposto un piccolo Adelphi di Carlo Rovelli, “Sette brevi lezioni di fisica”, (qui) e ora ho atteso prima di proporre questo suo nuovo lavoro. Ci sono libri che richiedono riposo, dopo averli letti, e tempi lunghi per affrontarne un seguito: ed è questo il caso.
Non so se questo “L’ordine del tempo” si possa considerare un seguito; forse varrebbe meglio dire che “Sette brevi lezioni di fisica” ne è stato la premessa, e non solo in quanto testo di divulgazione scientifica non separata da uno sguardo olistico sull’uomo, e (per ognuno) su di sé. Con questo nuovo lavoro l’autore, a modo suo, ci mette tra le mani, con un tono colloquiale che stempera la fatica del confronto con un tema ostico, una domanda, in prosecuzione di un discorso iniziato, ad alto impatto per la vita di ognuno; una domanda sul nostro vivere nel tempo e sul nostro pensiero del tempo.
Un tema difficile, anche per chi è in grado di affrontare con la dovuta preparazione una materia che, inutile negarlo, se pure viene qui proposta dal punto di vista delle conoscenze, allo stato attuale, del mondo fisico, dispiega le sue domande su molti fronti, primo tra tutti il piano filosofico, che incontra, comunque espresso, la vita di ognuno – ed incontra una domanda sulla morte, la nostra, individuale; e sul vivere, sul cambiamento, sulla memoria; e il nostro eterno interrogativo, e la illusoria ricerca di certezza, sul futuro.
Una domanda affascinante, dai cui lacci, iniziata la lettura, risulterà impossibile districarsi. Dopo che gli si è porto orecchio, questo non è un libro che si fa lasciare.
Tredici brevi, intensi capitoli, e un breve paragrafo di chiusura, su cui misurarsi con lentezza (sempre il tempo! Che, in queste pagine, diverrà possibile, per noi, per la nostra esperienza, persino rallentare; da cui sembrerà possibile addirittura prescindere!) – e da maneggiare, in una veste tipografica di piccolo volumetto, decisamente tascabile, da riporre e riprendere con agio, grande pregio della piccola Adelphi, che darà un qualche sollievo alla difficoltà del contenuto – introdotti magistralmente da alcuni versi in esergo, che costituiscono un preziosissimo controcanto al testo; che lo decriptano; che invitano a rimanervi, a confidare in ciò che si legge e che, spesso, richiede rilettura e ancora rilettura del periodo, riflessione, pensiero e, anche, sì, fatica.
L’autore “dialoga” con Orazio, in quest’opera. Ci sono i suoi versi che – a rischio, come spesso accade agli esergo, di venir trascurati – ci dicono: rimani, ecco di cosa si tratta, non sto parlando d’altro, confida. Che sono bellissimi, per sé. Che, di loro, basterebbero a se stessi.
Ho dedicato – ho dovuto dedicare – un certo tempo a questo libro; con il piacere di leggere Orazio come in un controcanto attraverso cui sentire che anch’io, dal mio punto di vista particolare, posso attualizzare, e vivere, la relatività del tempo, il suo costituirsi in altro, come ciò avvenisse per opera mia, come “un insieme di eventi”, tra cui questa lettura, che ritaglia un diverso ritmo alle ore del giorno.
Così, per ulteriormente giocare una modulazione del tempo, là dove le spiegazioni, pur chiare, del professor Rovelli, affaticano (me, naturalmente, adeguatamente ignorante, pur se sempre affascinata, della materia) ecco una Premessa, in cui cercare – io non sono certa di averne trovata una sola, o neppure una, sicuramente non una certa – una chiave di lettura, costruita attraverso gli esergo – che compongono un discorso; tratti, scrive Rovelli “dalle Odi di Orazio, nella traduzione di Giulio Galetto pubblicata dalle edizioni del Paniere in un incantevole minuscolo volumetto intitolato “In questo breve cerchio” – Verona 1980 (introvabile: un dispiacere).
Un titolo di capitolo, un argomento; e i versi che indicano la strada, e restituiscono, ostendono, uno, tanti, modi del tempo, e del pensiero sul tempo; e tempi, e spazi, e modi delle relazioni.
Parte Prima
Lo sfaldarsi del tempo
Cap. 1 – La perdita dell’unicità
Anche le parole che ora diciamo / Il tempo nella sua rapina / Ha già portato via / E nulla torna (I, II)
Cap. 2 – La perdita della direzione
Se più dolcemente di Orfeo, / che gli alberi anche commosse, / tu modulassi la cetra, / Il sangue non tornerebbe / all’ombra vana… / Duro destino, / ma meno grave si fa, / col sopportare, / tutto ciò che far tornare a ritroso / è impossibile (I,24)
Cap. 3 – La fine del presente
Si apre / A questo vento dolce / di primavera / Il chiuso gelo dell’immobile / stagione / e le barche tornano / al mare…/ Adesso dobbiamo intrecciare / corone / e ornarcene il capo (I, 4)
Cap. 4 – La perdita dell’indipendenza
E quell’onda / navigheremo tutti / quanti ci nutriamo / dei frutti della terra (II, 14)
Cap. 5 – Quanti di tempo
C’è in casa / un orcio di vino vecchio, / di nove anni passati. / C’è, Fillide, nel giardino / l’appio per intrecciare corone / e tanta edera… / Ti invito a festeggiare / questo giorno di mezzo aprile, / giorno per me di festa / più caro quasi del mio natale (IV, 11)
Parte seconda
Il mondo senza tempo
Cap. 6 – Il mondo è fatto di eventi, non di cose
Signori, il tempo della vita è breve… / se viviamo / viviamo per calpestare i re (Shakespeare, Enrico IV)
Cap. 7 – L’inadeguatezza della grammatica
Se ne è andato il bianco / delle nevi. / Il vento torna / nell’erba dei campi, / nelle chiome degli alberi; / e la grazia lieve della primavera / è ancora con noi. / Così il giro del tempo, / l’ora che passa e ci rapisce / la luce / sono il messaggio / dell’impossibile nostra immortalità. / Il gelo allentano questi tiepidi venti. (IV, 7)
Cap. 8 – Dinamica come relazioni
E prima o poi tornerà / il calcolo esatto del nostro tempo / e saremo sulla barca / che naviga all’approdo / più amaro (II, 9)
Parte terza
Le sorgenti del tempo
Cap. 9 – Il tempo è ignoranza
Tu non chiedere / l’esito dei miei, dei tuoi giorni, / Leuconoe / – è un segreto sopra di noi – / e non tentare calcoli astrusi (I, II)
Cap. 10 – Prospettiva
Nella notte impenetrabile / della sua saggezza / un dio chiude / la striscia dei giorni / che verranno / e ride / del nostro umano trepidare (III, 29)
Cap. 11 – Cosa emerge da una peculiarità
Perché il pino alto / e il pallido pioppo / intrecciano i rami / a darci quest’ombra dolcissima? / Perché l’acqua fuggente / inventa lucide spire / nel tortuoso ruscello? (II, 9)
Cap. 12 – Il profumo della madeleine
Felice, / e di se stesso padrone / l’uomo che / per ogni giorno del suo tempo / può dire: / «Oggi ho vissuto; / domani il dio stenda per noi / un orizzonte di cupe nubi / o inventi un mattino limpido / di luce, / non muterà il nostro povero / passato, / non farà un nulla senza memoria / delle vicende che l’ora fuggente / ci avrà assegnato» (III, 29)
Cap. tredici – Le sorgenti del tempo
Forse il dio ci serba molte stagioni / ancora, / o forse l’ultima è questo / inverno / che ora le onde del Tirreno / riconduce a battere contro / scogli di corrosa pomice: / tu sii saggia. Versa il vino / e chiudi in questo breve cerchio / la lunga tua speranza (I, II)
(E risuonano, ancor più forti nell’essere taciuti, i versi che seguono, a chiusura dell’ode – “Parliamo, e sarà intanto / fuggito / l’invido tempo. Carpe diem, del domani fidandoti meno che puoi”.
In loro vece, un breve paragrafo di chiusura:
La sorella del sonno
L’arco breve dei giorni, / o Sestio, / ci vieta di avviare / lunghe speranze (I, 4)
A domani, più o meno – ci riuscirò? – il tentativo di restituire uno sguardo, inesperto, sul contenuto di questo “L’ordine del tempo”, dal cui fascino, e dai cui interrogativi irrisolti (e in buona parte incompresi) fatico a liberarmi.