Una voce solista, due voci, il coro

Toni Morrison, “Sula”, Frassinelli 1991

Traduzione di Antonio Bertolotti

Incipit:

“Un tempo, là dove hanno sradicato le macchie di dulcamara e i cespugli di more per far posto al «Campo da golf Città di Medallion», esisteva un quartiere. Sorgeva sulle colline sovrastanti la vallata di Medallion e si stendeva sino al fiume. Adesso lo chiamano sobborgo, ma quando ci viveva la gente di colore era detto Fondo. Lo collegava alla valle una strada, ombreggiata da faggi, querce, aceri e castagni. Oggi i faggi sono scomparsi (…). Presto smantelleranno anche il Circolo ricreativo del Dopolavoro, frequentato da uomini dalle lunghe scarpe nocciola poggiate sui pioli delle sedie. Un maglio di acciaio ridurrà in polvere il salone di bellezza di Irene, dove le donne si appisolavano col capo sulla tazza del lavello, mentre Irene le frizionava col Nu Nile. Alcuni uomini in tuta da lavoro color kaki sfodereranno le assi del Reba’s Grill, dove la padrona cucinava col cappello in testa, perché senza non ricordava gli ingredienti.”

Un libro che, da molto tempo, mi richiamava. Un libro che, a conferma della sua qualità, dopo tanto tempo si trova ancora. Al tempo – sono trascorsi più di venticinque anni dalla mia prima lettura, senza che mai io lo abbia riletto – mi aveva colpito molto, respingendomi, nel contempo. Lo ricordavo aspro, emotivamente difficile, e bellissimo, come una risata di gola che può tramutarsi in singhiozzi.

Nella mia biblioteca ha continuato ad esserci un libro che sentivo di dover rileggere – per conquistarlo, per entrare dentro una estraneità che mi richiamava a sé, come se contenesse qualcosa di noto, di familiare, e insieme da tenere a distanza: qualcosa di pericoloso. Che ora credo di solo intuire – è un filo di comprensione ancora tenue, che mi riporta personaggi, un quartiere, una umanità sommersa dalla fatica, ma non sopraffatta, della mia infanzia. Qualcosa che ha a che fare con un dopoguerra; con una fatica della vita; con un senso della comunità che riscalda, pur nella tensione ad uscirne; con l’allegria e con la perdita: di una identità, di un’appartenenza, per una vittoria che – non lo si era forse messo nel conto – comporta lutti. Non saputi. Di qualcosa che non potrà tornare, che era calore, un proprio posto nel mondo, casa.

Toni Morrison

Per ora c’è solo questo. Dovrò leggere ancora Toni Morrison di cui non ho letto altro. “Sula” era rimasto, fino ad oggi mai più aperto, a costituire una barriera per la lettura di altri libri di questa autrice, Premio Nobel 1993.

In questa storia il personaggio della bambina Nel, che diverrà l’amica del cuore di Sula, di ritorno da un viaggio con la madre per raggiungere la nonna ammalata – un viaggio sporco, difficile, faticoso, che sarebbe rimasto l’unica esperienza di allontanamento da Medallion della sua vita – al momento di addormentarsi in preda alle emozioni dell’esperienza, «“Io sono io” bisbigliò “Io”.

Nel non sapeva con esattezza che cosa intendeva dire, ma nello stesso tempo lo intuiva con esattezza. “Io sono io. Io non sono figlia loro. Io non sono Nel. Io sono io. Io. (…). E poi, sprofondando ancor più nelle coperte, “io voglio…io voglio essere…meravigliosa. Oh Gesù, fammi diventare meravigliosa!”»

La quarta di copertina descrive, impropriamente, il libro come la storia dell’amicizia tra Sula e Nel, da quando “dodicenni, povere e intelligenti, condividono ogni cosa: illusioni, sogni, desideri e persino un crimine” a quando, dopo che le loro strade si sono divise, Sula, dopo aver lasciato per anni Medallion, vi ritornerà, e tutto cambierà tra loro.

Una descrizione che scelgo di chiamare impropria perché non di questo parla il libro, se pure la fabula del romanzo narra di ciò, dell’amicizia e della vita di Sula e Nel che, dopo una comune adolescenza e vicissitudini fronteggiate insieme, evolveranno su percorsi diversi che le condurranno a ritrovarsi nemiche.

Protagonista, in questo libro, sarà il coro, non la voce solista; sarà una comunità di colore in cui il legame dell’appartenenza, pur in una realtà di povertà e di segregazione, consentiva un forte riconoscimento di sé, solida barriera a protezione dalla sofferenza, dalla fatica – ed era stato devastante per Helene, la madre di Nel, leader nella propria comunità, il lungo viaggio in treno, con la sua bambina: salendo in treno aveva sbagliato carrozza e attraversato lo spazio dei bianchi; aveva dovuto affrontare il rimprovero del controllore e l‘espressione del suo disprezzo; e Nel aveva veduto tutta la dignità della madre, la sua sicurezza, il suo riconoscimento di sé, andare in frantumi.

Protagonista sarà dunque, non diversamente da Sula e Nel, Shadrack, il matto di guerra che, è il 1919, rimpatriato dalle trincee francesi ormai incapace di ritornare a una propria vita, ai progetti di un prima, verrà accolto e contenuto, nel suo comportamento agitato e nella sua innocuità, con tutto il suo bisogno di esorcizzare il terrore della morte.

“(…) gli balenò l’idea che, se qualcuno avesse consacrato alla morte un giorno all’anno, tutti se la sarebbero potuta togliere di torno e per il resto dell’anno sarebbero stati completamente liberi. Fu così che istituì la Giornata del Suicidio!”

Shadrack, il tre gennaio di ogni anno, marciava attraverso la via principale suonando un campanaccio e con in mano una corda da carnefice, invitando tutti ad utilizzare, in quel giorno, la sola ed unica possibilità di ammazzarsi tra di loro o suicidarsi. Questo avrebbe permesso loro di vivere tranquilli e non pensarci più per i restanti giorni dell’anno. Molti anni dopo, un giorno, terribile ma foriero di cambiamento, la comunità intera marcerà con lui nel “Giorno del Suicidio” – e nulla sarà più come prima.

Protagonisti saranno “I dewey”, i tre bambini cui Eva, la nonna di Sula, che li aveva raccolti da genitori che li abbandonavano, aveva assegnato lo stesso nome – Dewey – per farne un nome generico con cui chiamarli, indicarli: “Dì a quei dewey di smettere di fare chiasso

Protagonista sarà Eva, che regalava noccioline o leggeva i sogni; che aveva una sola gamba, bellissima, sempre calzata a perfezione, e che sulla sua gamba perduta raccontava le storie più strambe, del genere che se n’era andata via da sola, che lei l‘aveva inseguita ma quella correva troppo forte, mentre “qualche malalingua insinuava che l’aveva cacciata sotto un treno per incassare l’indennizzo” e “altri dicevano che l’avesse venduta a un ospedale per 10.000 dollari – al che il sig. Reed fece tanto d’occhi e chiese: «Le gambe delle ragazze negre a 10.000 dollari L’UNA?» come se 10.000 dollari la coppia fosse normale.”

E poi Tar baby, il bianco sempre ubriaco che cantava, alla preghiera del mercoledì, “In the Sweet by-and-by con la voce più dolce che si fosse mai sentita su quelle colline” e Plum, il bambino di Eva che era ritornato dalla guerra – e fu Hannah, sua sorella, la madre di Sula “a scoprire il cucchiaio col retro annerito dalla fiamma” – e tutte le molte storie di vita che, insieme, nella loro estrema soggettività, finiranno stemperate dentro quel noi identitario che accoglieva facendo spazio, dentro i propri confini, all’altro e a tutto ciò che la vita gli avrebbe portato. Anche, anzi principalmente, al dolore.

Sula: protagonista, certo; come fattore di cambiamento. Sula che perderà l’affetto di Nel, che scatenerà il respingimento della sua comunità d’origine – e improvvisamente Medallion si ricorderà che (…) il suo ritorno “ha coinciso con un’invasione di pettirossi”.

Ed ecco, la comunità coesa, che si riconosce, che accoglie, ha propri confini e la necessità che vi sia, dentro tali confini, chi li conferma per opposizione; ha bisogno che qualcuno dica <voi> per poter continuare a dire <noi>. La comunità coesa nel dolore, nella fatica, nello sforzo di sperare dove speranza non esiste, ha bisogno, per fronteggiare il cambiamento, di un innesco, di qualcuno che operi come specchio: nella funzione di nemico? Non necessariamente. Non solo. Per poi scoprire che il cambiamento, la vita buona, ha portato con sé anche grandi perdite.

Le cose andavano decisamente meglio nel 1965. O così sembrava. In centro si poteva vedere gente di colore impiegata ai registratori di cassa del Grande Magazzino, che maneggiava i soldi con le chiavi della cassa attorno al collo. E un uomo di colore insegnava matematica al liceo. I giovani avevano un aspetto che a tutti sembrava nuovo ma a Nel ricordava i dewey – che nessuno aveva mai più ritrovato.

“Gesù che bei ragazzi nel 1921! Sembrava che il mondo ne fosse pieno zeppo. (…) Niente di simile a questi giovanotti. Tutto era cambiato, Persino le puttane erano meglio allora: donne sane, grasse, sorridenti, col fuoco sulle guance e intelligenti nella loro miseria; oppure vedove rintanate in casette tra gli alberi con otto bambini da nutrire e nemmeno un uomo.  Queste puttane moderne erano pallide e stupide in confronto. Queste donnette vestite in modo stravagante erano sempre imbarazzate. Sporche ma vergognose. Non sapevano cosa fosse la mancanza di vergogna.”