«Se ne uscissimo vivi, mi porterai a Ithaca?»

William Saroyan, “La commedia umana”, Marcos y Marcos 2010

Traduzione di Cludia Tarolo e Marco Zapparoli

 

Un’emozione profonda, la lettura di questo romanzo, che può essere considerato la summa dell’opera di Saroyan. Non lungo, eppure sufficiente per una lettura senza fine.

Ogni breve capitolo un’esperienza, un’intera storia di vita in un bozzetto che si apre ad ogni personaggio che incontreremo seguendo Homer, quattordici anni, e Ulysses, quattro anni, i due figli minori della famiglia Mcauley, che abita ad Ithaca, Stato di New York.

Homer, giovane “capofamiglia”, dopo la morte del padre e la partenza per la guerra (la seconda guerra mondiale, siamo nel 1943) di Marcus, il fratello maggiore, troverà lavoro, nelle ore dopo scuola, come fattorino dell’ufficio postale. Il suo lavoro sarà recapitare telegrammi.

Occorrevano sedici anni per poter svolgere questo lavoro ma il signor Spangler, il Direttore dell’Ufficio postale, aveva ritenuto che, dopotutto, entro due anni li avrebbe ben compiuti.

“Il sig. Spangler lo squadrò per un istante e poi chiese: «Ti piace questo mestiere?»

«Se mi piace?» rispose Homer. «Mi piace più di qualsiasi altra cosa. Come minimo si conosce gente di ogni genere. E un mucchio di nuovi posti». (…)»

Tempo di guerra. In Europa. A Ithaca giungono solo i telegrammi, che Homer consegna alle madri, i cui figli sono caduti in una guerra che non si vede. Madri che invitano a entrare in casa; che offrono un dolcetto; che abbracciano.

«Vieni» diceva lei «siediti qui». (…) «Lasciati guardare». (…)

«Non provava né amore né odio, piuttosto qualcosa di molto simile al disgusto. Nello stesso tempo sentiva un’enorme compassione, non soltanto per quella povera donna, ma per tutte le cose, per il loro modo atroce di consumarsi e di morire.»

«Di colpo era sulla bicicletta, pedalava energicamente lungo la strada buia con le lacrime agli occhi, imprecando sommessamente. Una volta all’ufficio postale le lacrime erano finite, ma tante altre cose si erano messe in moto, e certamente non si sarebbero fermate.»

Il piccolo Ulysses, come da nome, vaga in costante esplorazione, curioso di tutto, di un animaletto o di una persona mai veduti prima; o del treno che passa, del macchinista cui rivolge un saluto senza ricevere risposta (delusione!). Incantato sbalordito, vede un nero che…

«…si sporgeva sul fianco di un carro merci. In mezzo al frastuono del treno. (…). Ulysses provò a salutare anche lui, e a quel saluto accadde un fatto inatteso e sorprendente. Quell’uomo nero, diverso da tutti gli altri, rispose al saluto di Ulysses: «Torno a casaa, proprio a caasaa mia!»

Nessuno si preoccupa del girovagare di Ulysses, in esplorazione di un mondo che lo protegge; c’è sempre qualcuno che si prender cura di lui e lo riporta alla sicurezza – a casa dalla mamma; da Homer, all’Ufficio Postale.  Ulysses non ha mai paura, nessuno lo ha mai visto piangere, salvo una volta. Ulysses vive incantato e curioso. Ulysses domanda.

«Dov’è Marcus?»

«Marcus è con l’esercito» disse la signora Mcauley. (…)

«Quando torna a casa?»

«Non lo sappiamo. Bisogna aspettare».

«E allora dov’è mio padre?» chiese Ulysses. «Se aspettiamo, tornerà pure lui come Marcus, no?»

«No, non è così. Non camminerà lungo la strada per entrare in casa dalla veranda, come un tempo.»

Era troppo per il bambino, e avendo a disposizione una sola parola per chiedere conforto o speranza, la disse:

«Perché?»

«Due anni fa tuo padre è morto Ulysses. Ma finché siamo vivi, finché siamo tutti insieme, finché rimarremo almeno in due, e lo ricorderemo, nessuno può portarcelo via.»

Il ragazzo rimase a pensarci su un po’, poi gli venne in mente quel che aveva visto poco prima, quel giorno.

«Che cosa sono le talpe?» (…)

La signora Mcauley, la madre, lavora allo scatolificio. Quattro figli. Marcus alla guerra, Bess all’università. Homer è un ragazzo responsabile, Ulysses è piccolo, ma bada a sé e tutti se ne prendono cura. Osserva Homer che, nella sua nuova esperienza di lavoro, scopre il mondo. Ne è sconvolto, disorientato.

«Pensavo che un ragazzo non dovrebbe piangere più, una volta cresciuto, mentre sembra che sia proprio quello il momento di cominciare, perché è allora che apre gli occhi».

«Sai dirmi perché?»

«Lo capirai da solo. Nessuno te lo può dire. Ogni uomo lo capisce per se stesso. Ciascuno a suo modo, perché ogni uomo è il mondo.»

Conosceremo il signor Grogan, il vecchio telegrafista che non vuole lasciare il lavoro; che beve troppo, si addormenta sul lavoro e ha bisogno che qualcuno lo svegli, con un bel bicchiere di acqua in faccia e un caffè quando il telegrafo ticchetta (compito di Homer).

Incontreremo la professoressa Hicks. Severa. Quando occorre. Ha insegnato la Storia, vale a dire il percorso per diventare persone civili, a intere generazioni, e continuerà a farlo. Vuole «(…) che ciascuno sia com’è.»

«(…). Voglio che i miei ragazzi siano persone originali, felicemente diversi».

«Quando avrai lasciato questa scuola – e mi avrai dimenticata da un bel pezzo – io ti cercherò nel mondo».

Ci sono momenti di allegria. Tipi curiosi. Musica. La signora Mcauley suona l’arpa, sua figlia Bess il pianoforte. C’è Mary Arena, la ragazza vicina di casa, fidanzata di Marcus. Tutti cantano.

Seguiremo Marcus, in treno, con Tobey, l’amico commilitone, un ragazzo senza famiglia, cresciuto in orfanatrofio, che ascolta il nuovo amico parlare della propria vita, di Ithaca, della famiglia.

Tobey: «Se ne uscissimo vivi, mi porterai a Ithaca?»

Marcus: «Certo. (…). Voglio presentarti la mia famiglia. Credo che mio padre fosse un grand’uomo. Non voglio dire importante o di successo. Niente del genere. Non aveva neppure una professione, un’attività. Si guadagnava da vivere. Non ha mai guadagnato più del necessario.  Ma sono convinto che fosse grande lo stesso. (…). Incontrandolo per la strada, l’avresti preso per uno qualsiasi, ma era mio padre, per me è diverso. (…). Pensavo che tutti fossero come mio padre, prima di incontrare altre persone.»

C’è la serenità di un sogno capace di dare forma alla quotidianità. Il sogno americano, di una possibile convivenza, tra uguali arricchiti dalle diversità, eredi di storie dalla cui fusione sarebbe nato un mondo nuovo, magari non in pace, non sempre, ma capace di dare un senso alla lotta.

C’è il dolore, devastante, che appartiene alla vita. E la ribellione da ricomporre, insieme e individualmente. Con fede, totale, concreta, nell’uomo.

Ci sono l’America e il suo sogno; l’America di allora, quando questo libro è stato scritto e che noi leggeremo ancora oggi, dopo che tutto è accaduto. Come un richiamo. Di un autore che, dopo aver dato alle stampe questo suo libro, sarebbe stato soldato semplice nella seconda guerra mondiale, in Europa.

Scrittore soprattutto di racconti, William Saroyan. Nello stile di scrittura, prima ancora che nella sua produzione. Uno tra i massimi scrittori statunitensi del ‘900.

Sceneggiatore, autore di teatro. Uno che, figlio di emigrati armeni, scampati alla persecuzione in terra turca, è vissuto in orfanatrofio, avendo perduto il padre quand’era molto piccolo; che ha dovuto lavorare fin da ragazzo, facendo i più diversi mestieri; uno che è diventato ricco, scrivendo; che ha viaggiato: l’incarnazione stessa del sogno americano. Senza illudersi, credo. Con la cocciutaggine e la forza di una fede e di una storia, di un profondo legame alle sue origini.

Un narratore dell’uomo, che non ha necessità di una trama, per raccontare, essendogli sufficiente lo sguardo, sempre ottimista, sulla natura umana, di cui pare in perenne ascolto. Sempre capace di non allontanare lo sguardo dalla bellezza: di una canzone, di una relazione umana, di un nuovo incontro, di un ricordo; di un accadimento buffo, o allegro.

Morto nel 1981, a settantatré anni, in quarta di copertina di questo libro si legge, di lui:

Giocatore impenitente, riuscirà a vincere e perdere una fortuna con la stessa disinvoltura, a sposarsi, divorziare e risposare la stessa donna. Poco prima di morire, invia personalmente ai giornali il proprio necrologio:

«Naturalmente sapevo che gli uomini muoiono, ma pensavo che per me avrebbero fatto un’eccezione. E adesso?»

Si può essere critici, verso questo libro, verso questo sogno. Oggi, ma anche allora, non mancano gli argomenti. Resta tuttavia certo: dalla lettura di queste pagine si esce provati e felici; diversi; diciamo meglio: rivelati a noi stessi, a fronte di un poter essere che sta in ognuno di noi. In ognuno a suo modo, come direbbe la professoressa Hicks.