Beat generation: una (non) lettura su di un tempo da esplorare

Thomas Pynchon, “L’incanto del lotto 49”, Einaudi 2005. Traduzione di Massimo Bocchiola

Mi ero pregustata la lettura di questo libro, unitamente al piacere di una riflessione da condividere, qui, con altri lettori. Non è andata così.

Si tratta di un piccolo libro di grande importanza, del quale scelgo tuttavia, superata la metà del testo, di non terminare la lettura. Non ora. Sarebbe improduttivo. La sprecherei.

Non è stata, tuttavia, una parziale lettura inutile: ha consentito un inizio di pensiero sul periodo, sul genere, su ciò che necessita perché questo libro possa essere letto come merita. Insieme a una domanda sul libro stesso, sul suo essere forse prigioniero di un tempo, per linguaggio, sensibilità, contesto storico.

Oso molto, lo so. Ma questo è il luogo, anche, per riflessioni la cui utilità potrebbe consistere nel produrle per poterle disconfermare. Perché no, dunque.

Tutto parte da una domanda a me stessa: che cosa mi ha precluso, in altri anni, questa lettura?

La prima edizione italiana di questo romanzo credo sia stata la Bompiani del 1968, con la traduzione di Liana Burgess.  All’edizione Bompiani sono seguite, l’edizione Mondadori 1988 e l’edizione e/o 1996.

Nel 2005 Einaudi ripresenta l’opera, nella Collana Stile Libero, in una nuova traduzione di Massimo Bocchiola.

Nessuna di queste edizioni (forse la prima?) mi pare abbia avuto un particolare successo editoriale.

Una cosa, tuttavia, va detta, sull’edizione Einaudi che ho tra le mani, datata 2005 e che, a sua volta, non mi pare abbia avuto ristampe.

Si tratta dell’opera di un autore vivente, e ancora attivo pur nella sua invisibilità – Thomas Pynchon ha, da sempre, scelto di lasciar parlare i propri libri, di non concedersi a fotografie, di non rilasciare interviste, pur vivendo, senza particolari difese della propria privacy, una vita normalmente “pubblica” come quella di chiunque altro.

Nondimeno questo libro è un “classico”, una pietra miliare della letteratura postmoderna americana. Non sarebbe stato utile corredarlo di un apparato di note, di un apparato critico, che ne aiutasse la comprensione, che decrittasse riferimenti culturali forse chiari, al tempo, al lettore, ma oggi incomprensibili ai più? Tanto più avendone prodotto una nuova traduzione.

La collana “Stile libero” è davvero la sua collocazione? Peraltro, in questi anni, Pynchon viene pubblicato, sia da Rizzoli sia da Einaudi che, sempre nella stessa Collana, ne ha pubblicato, nel 2014, anche l’ultimo libro, “La cresta dell’onda“, oltre quattrocento pagine, ambientato nel periodo dell’11 settembre 2001, assegnato al genere cyberpunk. E dunque sì, la collana è giusta, si tratta di un autore che, senza cambiare genere, adeguando le sue storie al tempo, è al suo ottavo romanzo.  Non un “classico” dunque, anche se potremmo considerare tali le sue prime opere, e forse “L’incanto del lotto 49” in particolare.

Domande senza costrutto da inesperta di cose editoriali, e tuttavia da lettrice che, dalla pubblicazione in una o in un’altra collana, si crea aspettative.

Personalmente, in ogni modo, non avanzo scusanti. Prendo solo nota del fatto di trovarmi, temo, in triste buona compagnia nel non dare facilmente un grande riscontro a questo sforzo editoriale.

Il problema di questa lettura sta tutto, mi pare, nella sua forte collocazione all’interno di un tempo e di un mondo, che hanno avuto il loro fulcro negli U.S.A dell’immediato secondo dopoguerra, e in una ricerca di valori, di nuove frontiere della coscienza, e di codici linguistici che li esprimessero.

Jak Kerouac

La “Beat generation”, (definizione che necessita di grandi distinguo, che ha al suo interno linguaggi e sensibilità diversi) dentro il cui sviluppo questo romanzo si colloca, ha avuto i suoi interpreti in più ambiti, dalla poesia alla musica, alle arti figurative – Lawrence Ferlinghetti, una delle voci della poesia di quegli anni, è anche pittore, così come lo è stato Jack Kerouac –  ma si è espressa, in una sua prima fase, soprattutto in letteratura e nella musica jazz.

Nel primo dopoguerra del secolo, centro del mondo letterario del tempo era Parigi, si era avuto un fenomeno per alcuni aspetti analogo di rinnovamento, con autori quali Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck, Dos Passos, che Gertrude Stein definì, in una conversazione “generazione perduta”, (credo riferendosi all’abuso di alcol e alla vita sregolata di giovani artisti che avevano vissuto la guerra) fissando con ciò il nome con cui rimarranno indicati i massimi autori del ‘900 U.S.A.

La generazione di artisti che ha iniziato a operare nell’immediato secondo dopoguerra e che avrà i suoi “profeti” in Allen Ginsberg e Jack Kerouac, con Lawrence Ferlinghetti, ha dato luogo a una rivoluzione nel linguaggio, quale espressione di una rivoluzione dei valori, degli stili di vita, alla ricerca di una nuova spiritualità da realizzare nella sperimentazione di stati di coscienza alterati dall’uso di marjuana, e naturalmente – è una costante – dall’abuso di alcol; nella ricerca di un diverso approccio alla sessualità, di una sua liberazione dalle regole della società borghese.

Quella “ricerca” ha investito i campi della musica, del linguaggio, delle arti figurative, degli stili di vita, della moda (abiti neri, trasandati, inizia a sbiadire la differenza tra vestiario femminile e maschile – vogliamo dire un fenomeno ancora in corso? Come molti degli input di quegli anni).

Beat”: una parola che, per la verità, non ha mai avuto un’accezione chiara, ripresa da un articolo di un autore, John Clellon Holmes, apparso sul NYT con il titolo “Questa è la beat generation”. Holmes è stato l’autore di “Go”, il romanzo antesignano di “Sulla strada” di Kerouac.

In una prima fase centrata sulla ricerca di una nuova spiritualità, sull’aspetto di ricerca di un senso da dare alla propria vita, ha assunto in seguito aspetti di impegno politico, in particolare contro la guerra del Vietnam (cui Kerouac era favorevole!) dando vita ad esiti quali il movimento hippie ma anche ai movimenti contro la guerra, all’impegno contro le discriminazioni razziali, per i diritti civili.

Oggi, gli autori di quegli anni costituiscono un patrimonio per la comprensione degli sviluppi del linguaggio letterario, dei linguaggio musicali e nelle arti figurative. Osando, potremmo fare un parallelo con le esperienze del futurismo di inizio ‘900 che hanno profondamente segnato il cambiamento dei linguaggi, con esiti di grande livello nelle arti figurative  mentre in letteratura, salvo eccezioni, non hanno prodotto opere di particolare valore se non per la formazione di un cambiamento cui hanno dato voce e rappresentanza.

Tornando a Pynchon, devo una risposta alla mia domanda: perché non avevo mai letto questo romanzo?

Ecco la risposta: c’è spesso qualcosa che non quaglia, e io avrei dovuto saperlo, tra il mio piacere di leggere e gli autori del postmodernismo americano.

Per un lungo periodo ho molto amato Jack Kerouac: “La strada”, con svariate riletture, mi ha accompagnato a lungo. È stato riletto più di una volta, eppure: potrei, oggi, dire di una certa qual fatica, di un sottile disagio, che permaneva tra me e quelle pagine? Cosa che conduceva, per l’appunto, alla rilettura.

Era il libro di moda, temo; c’è per tutti un’età in cui l’influenza del gruppo prevale sul proprio personale diritto/dovere di rispettare il proprio parere, e perché no, i propri gusti accogliendone la eventuale discordanza con il giudizio di critica.

Credo tuttavia ci sia anche un aspetto che ha a che fare con la leggibilità attuale delle opere (non solo di Pynchon) del periodo beat d’oltreoceano: appartengono, forse, ad un tempo di passaggio che non ha parole per il nostro oggi? Chiedo, e allo stesso tempo mi coglie il pensiero di un libro le cui parole, più attuali che mai, oggi non desideriamo, non vogliamo, ascoltare. A partire da me.

Perché so, riconosco, che si tratta di opere produttive per il lettore capace di entrarvi in risonanza; pur non essendo io quel lettore; pur rimanendo aperta la possibilità che, dopo un qualche giro nei dintorni, io possa rientrare sulla strada principale, quasi certamente ritrovando Pynchon, pur senza poter fare affidamento alcuno sull’esito del percorso.

Lawrence Ferlinghetti

Un sentiero. Un nome. Fernanda Pivano. Fu lei che,  fin dal tempo in cui il regime fascista e la guerra chiudevano ancora i nostri orizzonti, giovane ed entusiasta, sulla spinta e con l’aiuto iniziale di Cesare Pavese, portò alla nostra editoria i grandi autori del ‘900 statunitense, per giungere infine agli autori della beat generation. ed eccoci. Al punto. Una storia da esplorare.

Ma quegli autori? Vogliamo dire Thomas Pynchon, dato che, nella mia incompetenza critica ci è finito (sopravvivendo benissimo, scrivo tutto questo proprio perché posso permettermelo, dal mio piccolo sgabellino di lettrice).

Non posso far altro che lasciare la scheda dell’editore, corredata di commenti: qui.

E riporre naturalmente Pynchon in un posto d’onore sui miei scaffali, in attesa di lettori (non è necessario sia io) perché ne ha pieno diritto. Mentre cercherò – colta dalla curiosità di dare uno sguardo ad un passato che, anche, mi appartiene – di fare una passeggiata in quel tempo: direi nella poesia. Sono in attesa di una raccolta di poesie di Lawrence Ferlinghetti, “Il lume non spento”. Dovrebbe arrivare oggi.