Terminata la rilettura di quel grande libro che è “La masseria delle allodole”, prima edizione Rizzoli 2004, non ne proporrò una recensione, pur invitando caldamente alla lettura chi non lo conoscesse. Mi limiterò a fornirne poche essenziali informazioni, per un motivo che dirò, pur trattandosi di un libro che, pregevole per scrittura e per la storia narrata, alla sua uscita ha avuto un immediato grande successo, tanto da venir meritatamente tradotto in ventun lingue e sempre rieditato. Ultima edizione 2015. È un libro di grande forza.
A questa prima storia, hanno fatto seguito “La strada di Smirne” e “Il rumore delle perle di legno”, a completamento della storia di una vicenda familiare e, attraverso questa, della storia del genocidio degli armeni che, tra il 1915 e il 1916 ha cancellato dalla propria terra una popolazione che la abitava da tempi immemorabili.
Vi si narra la vita di una famiglia armena dell’Anatolia, da cui proveniva Yerwant, il nonno dell’autrice, che se ne era allontanato all’età di tredici anni per venir a studiare al Collegio armeno di Venezia, senza più far ritorno.
Yerwant sfuggì dunque al massacro, da cui si salveranno in pochi, e che iniziò nel momento in cui, medico stimato e padre di famiglia, stava per far ritorno, dopo tanti anni, al proprio paese, per una visita e per riallacciare rapporti di affetto mai interrotti.
1915. La prima guerra mondiale era in corso. L’Italia era entrata in guerra nell’alleanza con la Triplice Intesa e i confini vennero chiusi. Il 24 aprile, in Turchia, ancora facente parte dell’Impero ottomano, il partito dei Giovani Turchi, al governo, nel nome di un ripristino della purezza del popolo turco aveva attuato il massacro degli uomini e la cacciata-deportazione delle donne e dei bambini della popolazione armena, condotti con una marcia forzata, destinata di fatto ad ucciderli, verso la Siria.
La scrittura di “La masseria delle allodole” è stata, per Antonia Arslan, un punto di arrivo, l’inizio di un nuovo percorso di scrittura cui l’autrice è giunta al termine di una lunga elaborazione della propria storia familiare tramandata così come si tramanda, di padre in figlio, un tesoro: il valore di una identità e di una appartenenza capaci di recuperare un’intera comunità dalla morte alla vita; che nessuna morte cancella fintantoché qualcuno ricorda e raccoglie il testimone.
“Raccontare il genocidio armeno è una missione per lei? chiederà all’autrice la giornalista Michaela Bellisario di “Io Donna”, in un’intervista del giugno 2016.
“È stato un richiamo a cui non ho potuto dire di no, che mi portavo dietro da sempre, dai racconti di mio nonno. Sono una scrittrice tardiva (La masseria delle allodole è uscito nel 2004), un’amica americana un giorno mi ha detto “basta raccontare aneddoti sulla tua famiglia, adesso scrivi tutto” e l’ho fatto.” (qui)
Antonia Arslan, padovana, nata nel 1938, docente di Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Padova, ha scelto, a un certo momento della propria vita, di usare la propria scrittura per narrare, attraverso la storia della propria famiglia, la storia di un popolo e di un genocidio che, ad oggi, non è ancora universalmente riconosciuto ma, soprattutto, non è riconosciuto come tale dalla Turchia che ne porta la responsabilità storica.
Di lei si può forse dire che non è una narratrice: il suo tema è la documentazione, dotata della forza della testimonianza, di un evento storico che, a tutt’oggi, rischia di venir cancellato dalla rimozione.
Ed ecco il punto: Antonia Arslan è una grande narratrice che, testimoniando, ha restituito vita, in forma di personaggi, ai membri di una famiglia armena estesa, benestante, perfettamente inserita nel contesto sociale del paese in cui viveva e nel quale godeva di riconoscimento, narrando i giorni e la quotidianità che hanno preceduto la morte e l’esilio dei suoi membri; narrando le vicende che ne hanno visto lo sterminio.
Ha fatto ciò con una scrittura perfetta, da una posizione esterna ai fatti, onnipotente nel suo intercalare alle vicende della quotidianità, ai caratteri, alle attese felici del prima e al percorso di dolore e lotta per la sopravvivenza del poi, una voce fuori campo che, segnalata dal corsivo, vede e anticipa ciò che sarà.
Il libro si legge dunque “come un romanzo”, dolcissimo e drammatico, narrato con grande riconoscimento e partecipazione ad ogni vita, senza alcun appesantimento di giudizio su fatti dolorosamente restituiti.
Rileggendo questo libro, ne ricordavo perfettamente la mia prima lettura; il fascino di una scrittura che dà vita a protagonisti di carne, ossa e sangue, e carattere, e bellezza, e bruttezza, speranze e progetti. Una storia di dolore e pietà, di morte e di vita, sempre, l’una e l’altra, dotate di senso.
Una grande narratrice, Antonia Arslan: nonostante lei, forse.
Tra le sue pubblicazioni, importante la traduzione delle raccolte “Il canto del pane” e “Mari di grano“, del poeta armeno Daniel Varujan.
Una studiosa. Al momento in cui ha dato alle stampe “La masseria delle allodole” aveva al suo attivo, come scrittrice, due interessanti opere di saggistica: “Dame, droga e galline. Romanzo popolare e romanzo di consumo fra Ottocento e Novecento” di cui, a una prima edizione, Cleup, Padova 1977, ha fatto seguito un’edizione Unicopli, 1986, oggi fuori catalogo; e “Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ‘800 e ‘900”, Milano, Guerini e Associati, 1999.
Nel 2001 aveva pubblicato “Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni”, Milano, Guerini e Associati, 2001
Di questo libro val la pena di leggere la quarta di copertina:
“Questa prima raccolta a stampa di alcune testimonianze di sopravvissuti al genocidio armeno che trovarono asilo in Italia, dopo la prima guerra mondiale, deve molto al video Hushèr, realizzato da Avedis Ohanian in occasione della mostra delle fotografie di Armin T. Wegner, che dal 1995 continua a girare per l’Europa e sta per approdare negli Stati Uniti. Sono voci difformi l’una dall’altra, alcune trasmesse attraverso la pagina scritta, altre raccolte oralmente, che ci portano l’eco diretta della prima grande tragedia genocidaria del ventesimo secolo. Ma è un eco molto speciale, perché questi sono bambini che parlano: cioè adulti che danno espressione al terrore infantile che è rimasto da sempre chiuso dentro di loro. Sono racconti frammentari, a volte discontinui, bloccati da un pianto che non ha mai trovato sfogo, e riflettono orrori inimmaginabili visti dagli occhi di un bambino. Divise fra orfanotrofi miserabili e un’onnipresente penuria materiale, private quasi sempre delle famiglie, sole sotto l’angoscia di un minaccia incombente, queste esili voci aiutano a tracciare l’immagine nostalgica, la sinopia di quella tollerante, multietnica civiltà anatolica che è perduta per sempre, ma che oggi anche i giovani intellettuali di Turchia cominciano a rimpiangere.”
Non so, oggi, quanto ancora le conclusioni di questa Presentazione possano essere attuali, a distanza di oltre quindici anni, e con tutto ciò che in questi anni è accaduto; per i cambiamenti avvenuti nel mondo, nella nostra Europa, e in Turchia, Resta, credo, un documento importante.
Ed ecco il motivo di una mia solo parziale recensione: il libro non ne ha certamente alcun bisogno. È bellissimo, è noto, merita assolutamente più di una lettura. La mia, di questo oggi, è condizionata dall’attualità – ad esempio so di non aver notato, al tempo della mia prima lettura, di non aver colto come significante la partecipazione curda al massacro degli armeni: che nel libro emerge, senza venir particolarmente tematizzata, senza giudizio di merito.
È la vigilia. Domani tutto accadrà. “Di casa in casa si è tessuta una rete precisa. Tutti i nodi sono a posto, i capi delle tribù curde sono stati avvertiti, ma con l’ordine tassativo di non farsi vedere per il momento in città, se vogliono poi avere il promesso diritto di saccheggio e la scelta delle ragazze. (…). Il mattino del 25 l’uomo del latte ritarda. (…). “Il pastore racconta che ha visto un curdo che conosce, che oggi non ha voluto comprargli il latte perché “Da domani le tue bestie saranno mie””.
È tutto molto difficile. Tutto molto intrecciato. La fatica, per tutti, popoli e singoli, di essere semplicemente persone per bene, capaci di vivere in pace, capaci di rispettare e onorare la vita di altri uomini non per loro particolari meriti, semplicemente perché titolari di una comune appartenenza al genere umano. Tutti ugualmente e comunemente cattivi, e ugualmente titolari del diritto-dovere di vivere e far vivere.
Antonia Arslan non tematizza il problema. Salva una verità storica e la realtà, la consistenza, la vita, la ricchezza, di un popolo – poteva essere, è stato, molte, troppe volte, un altro popolo; a sua volta, altre volte, persecutore. Tematizza la perdita, irreparabile. Il dolore. Di tutti. Anche dei carnefici di turno. Perché purtroppo – ma questo è solo il mio pensiero di questo momento – il turno di ogni altro verrà, è venuto, tornerà: ognuno sarà – è stato – carnefice e vittima.
Per ora, ho trovato in e-book (sempre la mia insofferenza all’attesa: poi sarà necessario recuperare il cartaceo) “Dame, galline e regine”. Scelgo di farmi attrarre da questo suo lavoro tralasciando, ora, altre opere sulla storia armena.
Ho aspettative su questo nuovo libro. Quanto valga la scrittura di Antonia Arslan lo so già bene. Ora desidero rientrare nel mio mondo di buoni libri, che non fanno perdere di vista la realtà. Anzi.
Magari ne racconterò.