“Come un buffone di corte che balla davanti al re e poi se ne va a piangere in cucina (…)

Donald Barthelme, “Atti innaturali, pratiche innominabili”, Minimum Fax 2005. Traduzione di Ranieri Carano. Prefazione di Aimée Bender

Donald Barthelme, “La vita in città” Minimum Fax 2013. Traduzione e Prefazione di Vincenzo Latronico

 

 Ho detto, credo, altre volte, il mio amore per i racconti, anche se di rado ne propongo la lettura.

Barthelme è, per me, un autore che sono giunta ad amare; che, come dire, è divenuto tutto e solo mio. Un autore che diverrà tale per ogni lettore che gli si affidi, lasciando parlare le sue storie nel modo unico in cui l’autore le trasmette: ad ogni singolo lettore, e a nessun altro.

Donald Barthelme (1931 – 1989) è considerato uno tra i massimi autori della narrativa postmoderna: altra cosa, forse, affermare che sia molto letto e, in Italia, la sua felice ricomparsa è dovuta alla Casa Editrice Minimum Fax che, dal 2005 al 2015, ha pubblicato cinque sue opere[i], ad oggi le sole disponibili in traduzione italiana: è lecito sperare in altre pubblicazioni, in un prossimo futuro, se il pubblico italiano dei lettori riserverà a questo autore, come sembra avvenga, l’accoglienza che merita.

Come, tuttavia, parlare di questi racconti, della loro struttura narrativa unica; di ciò che diranno al singolo lettore?

Qualcuno, forse, potrebbe uscire da una di queste letture incavolato nero. Confessando, con ciò, il proprio sforzo di negazione di un messaggio che, senza poterlo ripetere, senza poterlo decifrare – ad esempio, proponendone, a sé o ad altri, una sinossi – lo avrà tuttavia raggiunto con la forza di un pugno: dritto al cuore. Ci saranno lettori che non lo ameranno: è giusto. Perché dovrebbero. Sicuramente, non si tratta di un autore da leggere in ogni momento – ma questo, lo sappiamo, vale per qualsiasi storia che si voglia davvero ascoltare e fare nostra.

Barthelme è un autore dalla scrittura scarna, ironica, talora sprezzante: e di incomparabile dolcezza. Uno scrittore che quando non te lo aspetti, ti schianta dentro, fino ad un pianto che fa bene: su di te, su una tua storia che dovrai riscrivere, su un tuo pensiero che faceva male e non trovava parole. Ne uscirai magari dolente, ma libero.

Inutile cercare in queste storie una trama, meno che mai un vero e proprio intreccio (anche se, su questo, la critica, ampia e molto impegnata su questo autore, oggetto di studio nei corsi di scrittura creativa e poco pubblicato, potrà dire che sì, l’intreccio c’è; e proporsi di studiarne la tecnica, unica, originalissima, che – la si studi pure – non consentirà imitatori.

Ammetto, il mio parere, di lettrice, non vale. Tuttavia, nel dire questo, ho trovato un supporto: Raymond Carver che, nel suo “Il mestiere di scrivere” dirà: “Di Barthelme ce n’è uno solo, e se un altro scrittore cercasse di appropriarsi della particolare sensibilità di Barthelme o della sua tecnica di mise en scène con la scusa dell’innovazione, quello scrittore si impegolerebbe nel caos, nel disastro e, peggio ancora, nell’auto-inganno”.

Tempo, luogo, oggetti, i più disparati. O forse no. Squarci della (nostra) vita. Tutto mescolato. Perché: quando mai il nostro sentire, i ricordi, i pensieri su di noi e sul mondo in cui viviamo, le nostre relazioni, gli affetti; tutta quella strana e contorta costruzione che chiamiamo <io>; quando mai, dicevo, è organizzata secondo una sequenza di tempo e luogo, di cui sia possibile, vivendo, narrare la vicenda umana.

Donld Barthelme

Barthelme impedisce a chi legge anche lo stare dentro un tempo e uno spazio dati – che lascerà carichi tuttavia di cose, di significati, di un loro qui ed ora per noi – togliendoci l’ultimo rifugio dall’emozione che una sequenza (apparentemente) ordinata tempo-luogo-fatti-personaggi e loro relazioni consentono a chi voglia, almeno un poco, frenare – talvolta è necessario – un’emozione che rivela un sé – il nostro? – frantumato e ammaccato.

Non posso fare altro che cercare di restituire qualcosa di questi racconti –  qualche pezzo di scrittura; così come farei con una poesia, che chiede di essere accolta dall’emozione e dentro il sistema di significati di ogni singolo lettore; della quale è possibile estrapolare un verso, un gruppo di versi; e lasciar loro il dirci una parola – solo nostra.

Ho scelto tre racconti, contenuti in due Raccolte: forse quelli che mi hanno emozionato di più; forse quelli di cui mi è stato possibile scrivere.

La mia scelta non sarà la vostra, se conoscete questo autore o se – lo spero tanto – deciderete di dovergli dare il suo posto tra le vostre letture: assicuro; lo si ami o meno, quel posto non sarà mai occupabile da qualcun altro.

 

“La rivolta degli indiani”. In: “Atti innaturali, pratiche innominabili”

Difendemmo la città come si poteva. Le frecce dei comanche arrivavano a nuvole. Le clave di guerra dei comanche rimbombavano sui marciapiedi soffici e gialli. C’erano dei terrapieni lungo il Boulevard Mark Clarke e siepi erano state munite di fili elettrici luminosi. La gente cercava di farsi una ragione. Parlai con Sylvia. «Ti sembra una bella vita?» Sulla tavola c’erano mele, libri, long playing. Sollevò lo sguardo. «No»”

……………………………………

“«Com’è la situazione», chiesi. «La situazione è fluida» disse lui. «Noi teniamo la zona sud e loro tengono la zona nord. Il resto è silenzio.»

«E Kenneth?»

«Quella ragazza non è innamorata di Kenneth» disse Block in tutta franchezza. «È innamorata del cappotto di Kenneth. Quando non lo indossa gli si raggomitola dentro». (…) «Una volta ho sorpreso il cappotto di Kenneth che scendeva le scale da solo, ma era una trappola e dentro c’era un comanche che mi lanciò contro le gambe un suo corto, rozzo coltello: vacillai e caddi oltre la ringhiera sfondando una finestra e finii in un’altra situazione.»

 

“Vedute di mio padre in lacrime”. In: “La vita in città”

“Un aristocratico percorreva la strada in carrozza. Investì mio padre.

*

Dopo la cerimonia tornai in città a piedi. Cercavo di pensare alla ragione della morte di mio padre. Poi me la ricordai: era stato investito da una carrozza.

*

………………………………….

L’uomo seduto al centro del letto somiglia molto a mio padre. Sta piangendo, le lacrime gli solcano le guance. Si vede che qualcosa lo ha scosso. Guardandolo vedo che c’è qualcosa che non va. Spruzza come un idrante con la valvola spaccata. Il suo piagnisteo attraversa in un lampo ogni stanza. Mi ammorbidisco e mi porto una manina al petto e dico «Papà». (…). Mio padre ha un’estensione enorme, e un’ambizione commisurata. (…) Non so se sia il momento di scappare o se ci vorrà ancora un po’ perché sia il momento di scappare. Potrebbe interrompersi di colpo, farsi severo.” (…)

 È il padre di qualcuno. Questo è chiaro. Il grigio della testa. Il gonfiore del viso. La piega delle spalle. La ciccia dell’addome. Le lacrime che cadono. Le lacrime che cadono. Le lacrime che cadono. (…) A quanto pare è deciso a continuare su questa strada salina.” (…)

Come!…è mio padre!…lì seduto su letto!…e sta piangendo”…come se stesse per scoppiargli il cuore!…papà!…com’è possibile?…chi ti ha ferito?…dimmi il nome!…adesso vado e gli…gli…ecco, papà, tieni un fazzoletto!…e un altro fazzoletto!…e un altro fazzoletto!…corro a cercare un asciugamano…un medico…un prete…una fatina…(…)”.

 

Relazioni”, in “Atti innaturali, pratiche innominabili”.

Il nostro gruppo è contro la guerra. Ma la guerra continua. Mi mandarono a Cleveland a parlare con i tecnici. C’era un meeting di tecnici a Cleveland. Avrei dovuto convincerli a non fare quel che stanno per fare.”

“«E ci dica cosa possiamo fare per lei. Qual è la sua professione illustre ospite?»

«Sono nell’industria leggera», dissi, «In tutti i sensi. Rappresento qui un piccolo gruppo di parti in causa. Ci interessa la vostra attività che sembra proprio funzionare (…) Tutto ciò che fa il resto della gente sembra proprio che non funzioni. Le attività del Dipartimento di Stato non vanno. Le attività dell’O.N.U. sembra che non funzionino neppure loro. Come le attività della sinistra democratica. Come le attività dei buddisti…»

«Ci chieda pure quello che vuole sulle nostre attività che pare proprio funzionino.», disse il tecnico-capo. «Le apriremo il nostro cuore, o Uomo dell’industria Leggera, poiché noi vogliamo essere capiti e amati dal grande pubblico dei profani (…)» (…)

“A questo punto gli parlai della guerra. Gli dissi le solite cose che la gente dice quando parla contro la guerra. Dissi che la guerra era ingiusta.”

“«Sì, sì,» disse il tecnico-capo, «senza dubbio c’è una certa dose di verità in quello che lei dice, ma noi non possiamo proprio permetterci di perdere la guerra, no? (…) Noi non la sappiamo perdere. Ciò non rientra nelle nostre capacità. (…) Ma lasciamo perdere questi discorsi deprimenti e in fondo controproducenti. Ho qui alcune autentiche meraviglie di cui mi piacerebbe discutere con lei sia pure in forma succinta.»

(…)

«Il funzionamento è tutto, e la nostra attività funziona da dio. È potremmo arrivare a fare cose che finora non abbiamo mai fatto (…)»

«Potremmo, ovviamente, irritarci. Potremmo, ovviamene, perdere la pazienza

«Intuisco il suo odio e la sua invidia per le nostre attività», disse. «La persona inutile e inetta odia sempre le nostre attività e ne parla come di cosa inumana, che non è affatto un modo appropriato di parlare delle nostre attività. (…) poiché io sono umano, in un certo senso e, se invento una cosa, quella cosa è umana, qualsiasi cosa essa sia. (…)»

«Sì, mi rendo conto che qui c’è un compiacimento forse eccessivo, ma lei deve capire  come (…). I nostri ragazzi hanno speso migliaia e migliaia di ore di duro lavoro e tesori di ingegno. E come gli effetti di tutto ciò vengano spesso scioccamente esagerati da certe vittime irresponsabili»

 

SuRelazioni”, Aimée Bender scriverà, nella Prefazione: Barthelme lascia aperto il finale di questo racconto (io mi permetto di aggiungere che Barthelme, qui come in ogni sua narrazione, lascia aperto tutto, sempre, in ogni punto del racconto), ma c’è una speranza che non muore, una speranza disperata nella capacità degli esseri umani di sconfiggere i loro istinti più bassi e prendere decisioni più sagge. Una speranza che alla fine la nostra moralità ci salverà. Davvero ci salverà?  Barthelme pone questa domanda. Non fa altro che porre domande, lui, scrupolosamente, come un buffone di corte che balla davanti al re e poi se ne va a piangere in cucina (…)”

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[i] Ritorna, dottor Caligari – Racconti – 2003; Atti innaturali, pratiche innominabili – Racconti – 2005; Biancaneve – Romanzo – 2007; La vita in città – Racconti – 2013; Dilettanti – Racconti – 2015