C’erano una volta le Riviste Letterarie.

Con vari cambi di direzione e non solo, attiva dal 1925 al 1927. Da 1928 al 1936 con la condirezione di Curzio Malaparte.

Proseguendo una riflessione iniziata non molto tempo addietro (qui)  vorrei parlare di qualcosa di cui conosco, a dir poco, nulla. Di un prodotto rispetto al quale mi trovo nel ruolo della consumatrice, pure irregolare, e null’altro. Mi sto documentando, ma so bene che non lo potrò fare se non in termini molto generali, utili unicamente a chiedere un confronto – e possibilmente a ricevere informazioni. Potete aiutarmi?

La domanda è questa: Che sta avvenendo nel mondo delle riviste letterarie? È possibile fermare un’immagine di quel mondo che, in movimento come tutto intorno a noi, rende difficile una sua messa a fuoco? Ha un suo posto nella vita dei libri e dei lettori?

Il riferimento, naturalmente, è alle riviste letterarie indipendenti.

Un percorso che porti a ricostruire la storia novecentesca di questa produzione, oltre che lungo e complesso, mi pare in ogni modo poco utile. Il Novecento se ne è andato, non meritando di essere rimpianto ma dovendo essere ricordato per le sue intuizioni, la sua produzione di nuovi linguaggi, la costruzione di nuove domande, le sue ipotesi di risposte. Un secolo devastante e ricco. Ma ciò che è stato è stato. E parlarne oggi significherebbe (anche) falsare (di nostalgia? di respingimento?) la messa a fuoco dell’oggi; un, se possibile, fermo immagine del presente che stenta, almeno per me, a definirsi.

Non è cosa da poco questa sfocatura. La rivista letteraria è quella cosa che, dovendo rappresentare, ai livelli alti, la cultura di un periodo, in tempi in cui il cambiamento pare costituire il nuovo assetto culturale – vogliamo dire con un ossimoro banale, che costituisce la nuova forma di stabilità in cui occorrerà imparare a vivere? –  si pone come la punta di diamante di un pensiero, lo strumento di un’avanguardia che, operando per riorganizzare dettami culturali obsoleti frena l’esito di una cultura in anomia, e il crollo connesso della solidarietà sociale. Interessa dunque, nel senso che ha ricadute sull’intero corpo sociale, svolgendo una funzione che va ben oltre l’interesse della pattuglia, da sempre fisiologicamente sparuta, dei suoi lettori.

Si apriva il XX secolo; tutto era in movimento, dal mondo del lavoro, che portava con sé grandi trasformazioni sociali, con l’avvento di nuove tecnologie che travolgevano modi consolidati del lavoro umano; guerre in corso, guerra incombente. In questo contesto, il mondo della cultura nel suo insieme, il mondo dei linguaggi, ha dato voce al cambiamento, alla nuova istanza culturale della velocità, sociale, fisica, e al contrarsi ed espandersi della spazio che ne costituiva la conseguenza. Ha fatto sì che una nuova cultura prendesse forma.

Il Futurismo non ha prodotto opere di grande rilievo in letteratura; ha tuttavia lasciato il suo segno attraverso la stampa di area e, nel bene e nel male, informato di sé la società.

Si chiudeva la seconda guerra mondiale, c’erano un intero mondo, un nuovo assetto della solidarietà, da ricostruire; c’era il bisogno di ripensare tutto del vivere comune – valori, famiglia, costumi; occorreva un linguaggio nuovo per dire un mondo.  Le Riviste hanno interpretato questo passaggio, avendo alle spalle, come promotori e nelle loro redazioni firme che rappresentavano élite intellettuali riconosciute, movimenti di ricerca e di pensiero, autori che, oltre a dare alla nostra letteratura opere di rilievo, svolgevano un compito di indirizzo riconosciuto, nell’area della politica culturale; un ruolo consapevole di orientamento della società e delle politiche che la interpretavano e, insieme, la orientavano.

Fondata nel 1953 da Alberto Carocci e Alberto Moravia, tuttora attiva. Ha ospitato e si è avvalsa delle migliori firme della letteratura italiana.

La vita – la nascita e la morte, spesso dopo una vita breve ma non insignificante – delle riviste letterarie non si è mai interrotta. Ciò che pare essersi, se non interrotto quantomeno appannato, è – solo una sensazione: forse, come spero, sbaglio – il rapporto tra questi strumenti, i lettori, le politiche delle case editrici.

Qui, in questi nostri spazi, parliamo di libri – non solo, anche se per lo più, di narrativa – e dei loro lettori, mentre il campo della lettura è molto più ampio: c’è il vasto campo della stampa periodica che comprende, anche se volessimo scegliere di lasciar da parte i quotidiani e i settimanali (senza un vero perché, con molti perché), una vasta gamma di riviste specialistiche che spaziano tra i più vari argomenti; i cui testi spaziano tra i livelli più disparati: dal prodotto usa e getta, che ha tuttavia una sua funzione non banale nella formazione della cultura diffusa, fino alle riviste i cui articoli, nei diversi campi, per l’argomento dato, costituiranno bibliografia.

In campo letterario questo tipo di periodici ha contribuito a fare la storia, anche, del successo – quantomeno di critica, con conseguenze sullo sviluppo di nuovi stili narrativi, – di una corrente letteraria, di un autore, di un gruppo di autori.

Qui, parliamo di lettori: che, in quanto tali, ci si aspetterebbe costituissero il target di riferimento a sostegno di riviste letterarie che invece, con poche eccezioni, nascono e muoiono nel giro di pochi anni.

Le eccezioni, sono rappresentate dalle riviste organiche a una casa editrice, a un raggruppamento.

“Mettere in piedi una rivista letteraria è un lavoro da pazzi. Bisogna sviluppare una certa attenzione ai dettagli e sperare col tempo di acuire il proprio istinto per diventare dei buoni scout. Bisogna dedicare notti intere alla scelta dei contenuti, all’editing, alla confezione. Farsi un occhio da grafico, da traduttore e affinare il fiuto per la qualità — che non è niente di oggettivo ma tutto di personale. Farsi degli amici e perderne altri. Partecipare agli eventi, seguire gli esordienti, viaggiare per quanto si può. Essere presenti, perché senza essere riconosciuti è difficile essere presi sul serio. Inventare un buon nome, saper dare i titoli, sapersi fare pubblicità. Stare seduti ore a un banchetto defilato ai saloni e alle feste senza che nessuno si avvicini mai per dare un’occhiata al materiale. Bisogna avere pazienza e determinazione, e quando finalmente si è arrivati ad avere una rivista letteraria indipendente per le mani, incarnata in un numero sufficiente di copie stampate decentemente, bisogna avere l’oggettività di considerare tutto un mezzo fallimento: di aver buttato il proprio tempo e il proprio talento in mezzo a un mare fitto di riviste, pamphlet, fogli, autoproduzioni e fanzine che si fa fatica a contarle. Per fortuna, si direbbe, sul Web c’è spazio per tutti e tutto può ricominciare da capo.” (qui).

Parliamo di libri e di lettori, dando per assodato che la realtà del libro è la forma cartacea, di cui il formato elettronico è un succedaneo che lascia tutto il suo valore alla forma originale del bene, costituendone un sostituto che non aspira al proscenio. Ed è così. Un libro è un libro: cartaceo.

Forse non è più così per il mondo della critica, della produzione di idee, per gli strumenti del confronto quali sono le riviste letterarie il cui mondo cartaceo è tuttora vivente ma quasi fantasmatico, pur essendo nella natura di questi prodotti l’avere vita breve.

Si passa all’on line; e non è un passaggio indolore mentre il non passaggio equivarrebbe – sarebbe equivalso –  alla morte.

Oggi, la realtà delle riviste letterarie di maggior peso e durata è on line. Il panorama resta, anzi è sempre più, affollato. Nel mondo delle riviste, oggi, la versione on line spesso si affianca al cartaceo: e va bene, ma il problema sta nel fatto che le due versioni non sono prodotti equivalenti. Non che uno sia peggiore o migliore dell’altro: sono semplicemente diversi; rispondono ad un pubblico di lettori diverso. Meglio: parlano con un diverso linguaggio.

La maggior diffusione credo si debba assegnare alla versione on line; dovendo tener conto del fatto che Carmilla è qualcosa di più e di diverso da una rivista.

Antica lettrice di “Alfabeta”, la rivista pubblicato dal 1979 al 1988, di cui, al tempo, ho vissuto come un lutto la scomparsa dalle edicole, quando, nel 2000, è apparso “Alfabeta 2” (e oggi, interrotta la pubblicazione cartacea nel 2004, la versione online: in attesa di un ritorno del cartaceo), dopo un immediato moto di interesse e, credo, l’acquisto di un paio di numeri, non ne ho fatto più nulla. È dipeso dalla qualità della rivista? Dai miei interessi nel campo? Qualcosa risultava, non so bene, fuori tempo massimo. Certo. Il vecchio Alfabeta era appartenuto agli anni in cui era normale – c’era il tempo per? – leggere due quotidiani al giorno e un paio di settimanali.  Oggi, grasso che cola se viene letto un quotidiano e un settimanale. Alla lettura dei quotidiani si è sostituita la lettura online – veloce, sbrigativa, centrata più sul confronto tra notizie che sulle notizie, già pervenute, e sul loro approfondimento.

Resiste, benemerita, “Anterem”, semestrale, Rivista di Ricerca Letteraria dell’omonima Associazione, che dal 1985 esplora il campo, e la vastità di pensiero, della poesia.

Non so. “Giap”, il Blog di Wu Ming, che, ancora una volta non so se definire una “Rivista” (ma, ecco un punto rilevante: nella realtà delle riviste on line occorreranno nuovi vocaboli per riferirsi a nuove, diverse, realtà; e forse “webzine” non è un semplice sinonimo dell’oggetto misterioso “Rivista on line”) tra i cui interessi ci sono anche, fondanti, gli scritti di J. R. R.Tolkien, indirettamente suggerisce portando il pensiero al grande autore.

Questo transito tra il cartaceo e l’online comporta, come ”la fine della Terza Era, perdita e guadagno. Comporta anche che qualcuno – una generazione? – debba scegliere di lasciare. Qualcosa del genere. Ci devo pensare.