Una piccola grande storia di un mondo ebraico scomparso, e forse no.

Yaniv Iczkovits, “Tikkun, o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny”, Neri Pozza 2018

Traduzione dall’ebraico di Ofra Bannet e Raffaella Sardi

 

“Ci sono momenti nella vita di una nazione, pensa il tenente colonnello Novak, che ne preannunciano la fine. La fine comincia sempre con una piccola cosa, una cosa irrilevante.”

Occorrerà arrivare a un punto avanzato di questa storia per leggere queste parole, espresse da un personaggio che, entrato in scena, diverrà centrale per l’evoluzione della vicenda, ma solo dopo che un piccolo fatto – una piccola storia privata, l’azione di una piccola donna ebrea, dotata di un certo carattere ma nulla di più – avrà, ci informa la quarta di copertina, “minato le fondamenta stesse dell’Impero russo” (che peraltro stava già provvedendo al compito da sé).

Sarà allora il colonnello Novak, alto funzionario della polizia segreta dello Zar –  uno che mai avrebbe dovuto avere a che fare con le vicende narrate – che, come un deus ex machina – la voce stessa dell’autore in effetti – dipanerà, all’ascolto di chi legge, il senso di tutta la vicenda, disaggrovigliando i fili che da essa partono,  intrecciandosi con i fili di altre vite, di altre storie, con la storia stessa dell’impero.

E noi lettori saremo ulteriormente travolti dalla curiosità, dalla partecipazione al compito che Novak sta affrontando; ci troveremo a parteggiare anche per lui, che pure è l’avversario, colui che incarna il potenziale destino avverso che incombe sulle vite dei nostri umili eroi, che stanno dentro la storia più grande di una piccola comunità, che appartiene a un popolo grande in quanto popolo eletto di Dio, perseguitato lungo tutta la sua storia.

Tikkun: termine che interroga il lettore “goy”, non-ebreo; il cui significato, diversamente declinato, dovrebbe indicare, se ho compreso bene, la “Riparazione” come “Compito”; tutto ciò che una persona ha il compito di realizzare, su di sé e nel mondo, per migliorare sé e il mondo: un compito in funzione riparativa – difficile, intrigante concetto.

In questo romanzo incontreremo, nella tragedia e in allegria, un mondo, un pensiero, che interrogano, incuriosiscono e permangono difficili da interpretare per le altre culture – religioni. Un mondo di significati, per qualcosa che può, potrebbe, impegnare un dovere dovendolo tuttavia conciliare con altri doveri, altrettanto impegnativi, potenzialmente conflittuali tra di loro. Un compito difficile, nel suo bisogno di coerenza, che chiede di essere decodificato come inevitabile e, nel contempo, irrisolvibile.

Ne risulterà un percorso travolgente e bellissimo che cattura e insieme respinge come solo può fare un mondo costituzionalmente altro che, dalla propria parte, chiede l’esclusione del diverso. La nostra esclusione.

La storia – una piccola storia privata – inizia a Motal, una cittadina della odierna Bielorussia, sul fiume Yaselda dove abitava la famiglia di Mende Speismann, moglie abbandonata di Zvi Meir, ridotta alla condizione di “agunot”, di donna privata del suo status di moglie, e dunque di un futuro.

Zvi Meir Speismann è una specie di venditore ambulante fallito che si ritiene un saggio, uno studioso, ingiustamente cacciato da Volozhin, illustre scuola di studi ebraici – e sarà interessante conoscere, infine, la domanda formulata da Zvi Meir ai suoi insegnanti a causa della quale, in luogo di divenire un noto studioso e rendere onore al nome dei genitori”, era stato cacciato.

Da troppo tempo, dunque, Zvi Meir ha lasciato Mende, fingendo un solo temporaneo allontanamento dalla famiglia per ricercare un miglioramento alla loro disperata povertà, senza darle almeno un ghet, il documento con il quale, ripudiandola come moglie, l’uomo, e solo lui, riprendendosi la propria libertà, poteva restituirla anche alla moglie, consentendole di accedere ad un nuovo matrimonio.

È il 1894. Il mondo in cui tutto avviene è quello di un territorio ai margini dell’impero russo, in un tempo in cui, come periodicamente accade, i pogrom riprendono vigore e, nelle comunità ebraiche, molti uomini cercano un nuovo Paese in cui costruire un futuro per la propria famiglia; e partono soli, verso l’America o la Palestina, o solo verso un’altra città; e talvolta, troppo spesso, non danno più notizia di sé.

“Dalla rivista Hammaggid, numero VI, giovedì 2 del mese di Adar, anno 5654 (8 febbraio 1894)

Supplica di una povera sventurata.

Imploro gli illustri lettori di soccorrere questa misera donna. Mio marito mi lasciò durante la festività di Pesach, dopo soli cinque anni di matrimonio, madre abbandonata di tre figli sani. Partì per Pinsk al fine di procacciarsi un lavoro con la promessa di chiamarmi a sé entro l’autunno per la festa di Suddok. Poi scomparve senza lasciare traccia. (…)

Di grazia, illustri lettori, c’è qualcuno fra voi che possa indicarmi ove si trovi ora il mio sposo? Abbiate pietà di me, cercate se non altro di procurarmi un ghet, una pergamena di divorzio firmata e convalidata secondo la nostra legge religiosa. Sarò mia cura ricompensare, con una somma in denaro pari a centocinquanta rubli, chiunque mi saprà liberare dal vincolo coniugale. Ecco la descrizione del mio consorte: il suo nome è Meir Yankele Hirshc, della città di Drohiczyn. Madre e fratello risiedono nella città di Uzlyany. L’infelice che vi scrive è Ester Hirsch, figlia di Shlomo Weiselfisch, uomo di benedetta memoria.”

Mende legge la lettera dell’altra donna, e il suo giudizio su di lei è perentorio.

 “Perché svergognare pubblicamente la famiglia? Con lo stesso denaro potrebbe ingaggiare un investigatore privato goy, non ebreo, un ceffo spietato che insegua il suo Yankele anche dentro ai sogni e gli spacchi tutti i denti, lasciandone giusto uno soltanto, per il mal di denti.”

Mende Speismann resiste, con i suoi due figli, nella casa dei suoceri, “che Dio glieli conservi in salute” (la frase rituale non può mancare neppure nel pensiero), maltrattata dalla suocera, affamata, stremata dal lavoro di domestica a ore che le consente appena di sfamare i suoi bambini. Fino al giorno in cui, travolta dalla fame, dalla fatica, dalla rabbia, cede al desiderio di un pasto di carne, di un vestito, di una paio di scarpe; e spreca i pochi denari risparmiati in un’orgia di acquisti inconsulti, finendo per gettarsi, disperata, nel fiume.

Fortunatamente è difficile affogare nel fiume Yaselda, basso, fangoso. Per Mende, sarà tuttavia ancora più difficile sopravvivere dopo un tale gesto, e sua sorella, Fanny Keismann, decide che deve fare qualcosa per lei, per restituirle un futuro e la dignità che le spettano.

Fanny è la sorella minore di Mende e, a differenza di quest’ultima, ha fatto un matrimonio socialmente inferiore ma felice, andando a vivere in campagna, in un paesino dove la popolazione ebraica convive con la popolazione russa ortodossa. Ha un marito che ama e la ama; ha una buona situazione economica. Ha, ovviamente, una suocera con la quale i rapporti – secondo tradizione – sono difficili: tuttavia, nel suo caso, a danno della suocera, e non è poco.

Fanny è anche una donna in qualche modo diversa. È infatti una “shochetet”, una macellala rituale, come il padre che ha trovato in lei, pure se donna, un degno successore per quella che è considerata un’arte e che la sua famiglia esercita da generazioni.

All’età di dodici anni il padre le aveva regalato il suo primo coltello da macellazione e Fanny, pur avendo lasciato la sua professione con il matrimonio, lo ha sempre portato con sé, su di sé, legato alla coscia.

Fanny decide dunque che è suo compito ritrovare il cognato, e riportarlo a casa o, meglio ancora, ottenere da lui il ghet che restituirà la libertà alla moglie. E parte, una notte, lasciando i cinque figli e il marito. Ha con sé il suo coltello, ed è decisa a raggiungere la città dove le voci dicono si trovi il cognato, Zvi Meir.

Inizia così per Fanny, e per una serie di personaggi che le si affiancheranno lungo il cammino, amici e nemici, un viaggio che ci trascinerà di avventura in avventura. In una corsa a perdifiato, mentre a personaggio si aggiunge personaggio, a storia si aggiunge storia.

Finiranno per essere molti i nostri eroi, piccoli e grandi, ognuno dei quali aprirà altre storie, che apriranno il piccolo mondo di Motal ad un mondo più grande e complesso, finendo, come detto, per coinvolgere assetti importanti della politica imperiale.

Che dire: un romanzo eccezionale, che ringrazio di aver letto, che non riesco a restituire come merita, di cui mi piacerebbe parlare ancora; su cui mi piacerebbe potermi confrontare con altri lettori, per i tanti aspetti che – in una storia di ieri, su di un mondo ormai perduto, da cui anche sono tuttavia nate e sembrano non finire, le grandi tragedie che hanno attraversato tutto il secolo corso – sottilmente ci parlano dell’oggi del popolo ebraico. Ci parlano di Israele? La nazione cui appartiene Yaniv Iczkovits, l’autore, di cui è anche interessante il percorso di studi e di scrittura, e di cui vorrei conoscere altri lavori.

Dovrò, inoltre, come sempre, rileggere ma anche cercare risposte a molti interrogativi. Sono certa che la stessa cosa accadrà, con interrogativi diversi, a ogni lettore di questo bellissimo romanzo.

Dimenticavo: lasciando perdere ciò che accadrà nel mondo di San Pietroburgo, tutto finirà bene per i nostri eroi. come in ogni buon romanzo che si rispetti  Non banalmente bene. Non senza dolore. Solo bene. Come dire:

“Le distese della Polesia sono limpide, le betulle si levano dritte verso il cielo e le cicogne volano al di sopra dei campi. Sotto, ribollono le paludi nere, le cui acque putride si riversano nei fiumi. Nubi lontane annunciano le piogge autunnali (…). Il diluvio è cominciato già da tanto, tanto tempo, Fanny lo sa bene. E continua. Sui tetti cadono piccole gocce, nessuno capisce che sono lacrime. Il mondo è sull’orlo della catastrofe, quello che è accaduto nelle ultime settimane non è nulla in confronto a ciò che sta per succedere. Eppure, gli uomini non si precipitano a entrare nell’arca, perché la terra ancora non è sommersa, si affonda lentamente, senza quasi accorgersene. E comunque, un miracolo è sempre possibile. Non è vero?”