Una storia italiana

Pina Bertoli, “Infondate ragioni per credere all’amore”, edizioni Io scrittore 2018

 C’è ora questo libro: da cui sono stata profondamente catturata e di cui potrò parlare solo riuscendo a separare la mia emozione dalla riflessione su di una storia che racchiude una proposta: una chiave di lettura per una filosofia di vita. Da condividere, in tutto, in parte; con cui misurarsi.

Prima di poterne parlare, ho dunque riletto il libro – ne ho sentito l’esigenza immediata: per prenderne le distanze, per pormelo dinnanzi e vederlo?

Nel corso della prima lettura, è certo, vi ero finita immersa, vittima di una partecipazione totale: mi ero ritrovata personaggio tra i personaggi, a prender parte, a vivere dentro quel mondo.

Nel corso della seconda lettura ho pienamente goduto la struttura, originale e sommamente efficace, della narrazione; riuscendo, in parte, a patteggiare con la mia emozione e accogliere, al di fuori di un atteggiamento giudicante, i personaggi, le loro ragioni, gli errori compiuti; il loro impegno a vivere, a trovare voce e modi per amare, meglio, per voler bene, per proteggere e salvare ciò che con fatica avevano costruito; dentro la fatica del fronteggiare le prove che la vita pone dinnanzi a ognuno.

Uno, più percorsi, del diventare adulti? Anche. Pure se non si tratta di un romanzo di formazione. Dentro uno scenario, tempi e luoghi dove il corso della storia è parte essenziale del contratto che ognuno stipula con la vita.

La vicenda e i suoi protagonisti.

Un territorio, la Lucchesia, la città e i paesi, il mare e le estati viareggine.

Un tempo, nel quale un’Italia uscita in qualche modo dalla catastrofe sta rinascendo, dove le distinzioni di classe sociale mostrano confini precisi e, insieme, la capacità di cooperare alla costruzione di un futuro da condividere.

L’apertura della storia – quando tutto sarà già concluso – avrà la voce, in prima persona, di Diletta, la figlia dei nostri protagonisti.

È il 1999, e mentre il secolo sta finendo la voce di Diletta ci dirà di una vita adulta, di una giovane donna divenuta a sua volta madre, che ha già salutato i propri genitori; che sta celebrando, per sé, un addio e, attraverso tale cerimonia, guarda al futuro. E apre il sipario sul passato.

“Non è stato semplice essere tua figlia: non lo è stato da piccola, né da grande; non perché tu non fossi un buon padre, non saprei neanche come definire “un buon padre”. Eri mio padre e basta; non ti ho scelto, mi sei capitato.”

Ed ancora:

“Spesso mi sono accanita nel voler giudicare i comportamenti degli adulti con cui sono cresciuta: ora ho capito che giudicare serve a ben poco, meglio provare a capire.”

La voce di Diletta ci offrirà, con queste parole, una chiave di accesso alla storia che ha portato un mondo fino a lei: fino a una vita che continua, in suo figlio, verso un futuro che la supererà, che ci supererà.

Questa chiave aprirà la serratura del tempo: la storia può ora avere inizio, ed aprirsi con le voci di Francesco e di Maria, che si alterneranno; due voci appartenenti a mondi separati in via di confluire nella costruzione di un mondo nuovo, di nuovi modi dei legami, modificando confini e appartenenze.

La storia si va facendo, la piccola storia delle singole vite dentro la Storia più grande, l’una prendendo forma dall’altra.

Francesco e Maria: due punti di vista sul mondo, due appartenenze, due diverse lealtà – anche dove parrebbe di doverne solo rompere obblighi dolorosi..

1955: la voce di Francesco, giovane figlio dell’alta borghesia italiana, in cui antiche nobiltà si sposano con l’impegno nelle professioni liberali e con l’impegno nella politica, il cui esercizio si lega a, e viene obbligato da, un diritto/dovere connesso all’appartenenza di classe.

Francesco. Il figlio “venuto male” dell’avvocato. Il figlio in conflitto con un padre sempre assente. Il figlio che non saprà assumere gli obblighi della propria classe, incapace tuttavia di un’altra appartenenza. Una voce che parla di sé, che si accusa, che avanza alibi, che cerca una propria incerta strada. Una voce che incontra, anche, come evitarlo, la tragedia del vivere.

Francesco ama il dolce ozio della casa di Viareggio; che il padre detesta: “(…): troppo pomposa, frivola, femminile. Una casa oziosa, l’ha definita una volta.”

Ama il giro di amici a Viareggio; e sarà lui la voce narrante dei personaggi di Attilio, Oreste, Simonetta.

Maria, in quella stessa estate 1955, è una giovane figlia della classe operaia. Una giovane donna che avrebbe voluto poter studiare.

“Quindici chilometri e sono alla Cantoni Cucirini Coats, all’Acquacalda, appena fuori le mura di Lucca. (…) Suona la sirena: inizia il turno.”

La Lambretta. Il freddo invernale.

Bastano i nomi: una storica fabbrica di filati, una due ruote da Museo: due tratti di penna e tutta una storia sociale dell’Italia del dopoguerra è disegnata; e insieme una storia, talora incoerente, di una nuova vita al femminile, di una iniziale storia di lotte sindacali; di una faticosa risalita al futuro, per una nuova generazione.

Uscire di casa e rimanerne lontana per alcune ore è una boccata d’ossigeno. Significa, per tutto quel tempo, lasciarsi alle spalle i fratelli e le sorelle più piccoli, in tutto otto, tra i tre e i dodici anni: ci penseranno le mie due sorelle grandi a prendersene cura.”

Un fratello Giovanni, già partito per l’Australia: “Lui ha studiato e l’ha preso una ditta di Roma che cercava geometri per la costruzione di ponti e strade. Hanno detto che là c’è tanto lavoro e pagano il triplo che in Italia; uno magari ci sta qualche anno (…)”

Francesco e Maria sono due storie di vita nate per essere separate, che si incontreranno in una loro storia lunga una vita. Una storia, faticosa, difficile, e forte, tesa al futuro si legherà a una storia sofferente, bisognosa di sostegno, confusa su di sé.

La vicenda: dovrete leggervela, ovviamente; anche perché si tratta di una storia carica di tutta la ricchezza della vita reale.

Di questo libro possiamo dire che sarà più storie, sarà tante voci, tra le mani di lettori diversi, per età, per appartenenza sociale, per esperienze; di cui ognuno scoprirà o ritroverà pezzi, insieme a luoghi – del vissuto, della cronaca politico sociale di un dopoguerra di rinascita dell’Italia, in un grande affresco dove la storia della società italiana si sposa con, e anche determina, le singole storie di vita: da accostare, ascoltare, senza giudicare, provando a capire: ed ecco il punto.

L’autrice ci regala due singole voci, due diversi sguardi sul mondo, e su di sé, lasciando a loro il narrare di altre storie e il giudizio; quel giudizio che infine, una figlia, ci proporrà di sospendere, sostituendolo con il comprendere.

C’è dunque questo libro che deve essere letto; di cui, dopo averlo letto, si dovrà parlare ancora: perché è un bel libro; perché, costruito su di una storia, e su più storie che ci conducono dentro epoche e personaggi di un genere conosciuto e a noi vicino, ci porrà in relazione in un modo del tutto originale con personaggi, e con tempi, per molti, e in parte per tutti, vissuti. Ci consentirà, superata l’emozione di una lettura che ci avrà catturato, di fare qualche conto con il tempo che stiamo vivendo; e con la possibilità di lasciare un atteggiamento giudicante. E tuttavia: davvero?

Dopo averlo letto, ci si troverà a provare l’urgenza di discuterne non tanto, come solitamente avviene, per condividerne un’interpretazione, condividerne una lettura, quanto per parlarne esattamente nei termini con cui parleremmo di un fatto di cronaca, di qualcosa che appartiene alla realtà e, in conseguenza, può, deve, essere giudicato, approvato, deprecato, condannato, elogiato e quant’altro: in relazione al suo essere nel mondo ed esserci-esserci stato in un modo piuttosto che in un altro.

Confuso, vero? E invece no. Il fatto è che la storia, le storie che Pina Bertoli ci racconta, qui, in questa sua incredibile opera prima risulteranno un modo del raccontare molto particolare, che potremmo accostare al linguaggio teatrale dove la narrazione in prima persona ci porta, per l’appunto, a udire la voce precisa del narratore, dove autore e narratore si identificano, e l’uno condivide – deve farlo – le ragioni dell’altro.

Il fatto è che reagiremo come se avessimo ascoltato, di tempo in tempo, le vere voci dei protagonisti, provando in conseguenza, nell’ascoltarli, tutte le emozioni conseguenti, a nostro giudizio (su di noi? Sulle nostre storie, simili, magari per opposizione?)

Non posso dire di aver ancora fatto pace con questa storia. Dovrò riprenderla. Per poterne parlare con (molti) altri che l’avranno letta.