Katherine Mansfield: qualcosa su di lei

Agosto è un mese particolare per la lettura; caldo, vacanza; distrazioni. Un mese che può tuttavia essere l’occasione per il grande libro, quello che richiede silenzio e un tempo lungo, e dedicato: oppure, per letture brevi che, nel contempo, richiedano una particolare dedizione. È il tempo giusto per i Racconti che, come la Poesia, uniscono alla dimensione contenuta un dilatarsi del tempo della lettura e del pensiero. Un tempo giusto, per letture insieme brevi e intense.

Talvolta, per questo tempo, c’è bisogno di sicurezza, di affidarsi alla narrazione conosciuta: da riscoprire, da riadattare alla propria emozione del momento. Senza rischi? Per la propria tranquillità?

Per scoprire poi, in corso di lettura, che il rischio ci stava tutto, che lo si è affrontato solo fintamente ignari. Ed è emozione, e bellezza che cattura. È Katherine Mansfield.

I suoi Racconti: una prosa che si è nutrita della vita della loro autrice, cui ha chiesto di tutto sperimentare, di dare tutto alla relazione con l’altro, per accedere ad una scrittura che, sicura, facile, sciolta, si farà leggere al ritmo dei nostri sensi.  Il lettore vedrà, odorerà, toccherà, ascolterà.

A lettura ultimata, si accorgerà di aver vissuto, letteralmente, un’esperienza che riconoscerà come propria, appartenente alla propria vita.

Katherine Mansfield è una delle scrittrici che più amo, cui periodicamente, dedicandole piccoli importanti momenti della mia vita di lettrice, ritorno; sulla quale ho lasciato cadere, anche in queste pagine, qua e là, un riferimento (qui, qui e qui) senza far seguire una effettiva proposta di lettura. È, forse, un’autrice che ho tenuto per me; molto privata.

Ora mi concedo ancora un piccolo rinvio, fermandomi alla sua storia di vita, breve, resa tragica della sua personalità e dalla malattia: che nulla tolgono o aggiungono alla forza della sua scrittura e tuttavia vi sono inscindibilmente legate.

La sua è stata una vita in cui personalità e malattia si sono intrecciate, si sono fatte complici nel tragico finale.

Nata a Wellington, in Nuova Zelanda, il 14 ottobre del 1888, Kathleen Beauchamp, la futura Katherine Mansfield, aveva solo quattordici anni quando, nel 1902, fu mandata a studiare a Londra. Morirà di tisi il 9 gennaio del 1923, in Francia.

Figlia di una famiglia benestante, i cui genitori erano nati in Nuova Zelanda ma avevano origini inglesi, nel suo ambiente sociale era quasi dovuto il sentire l’Inghilterra come la cultura di appartenenza e inviarvi i figli per la loro formazione. La ragazzina, che già aveva dato prova di un temperamento artistico, interessata alla pittura, alla musica, allo studio del violoncello in cui si distinse, mostrava già quel temperamento che la porterà a vivere fin dai più giovani anni, “una vita ardente[i], come dirà Nadia Fusini, titolando una interessante biografia.

Due anni in Europa, spostandosi tra Inghilterra, Francia e Belgio; tornerà in patria nel 1906, rimanendovi per poco tempo. L’Europa, o forse la libertà dalla famiglia, un accesso ad esperienze forti e precoci, l’avevano catturata. Una bambina ancora, nei suoi quattordici – diciotto anni, in cui il bisogno di esprimersi creativamente urgeva.

Rientrata in famiglia nel 1906, ripartì per Londra dopo solo due anni. E fu subito (o forse continuò, accelerò) una vita confusa e sregolata, dominata dal bisogno di fare esperienze, di vivere intensamente, di darsi alle relazioni più disparate.

Alla ricerca, chissà, di relazioni significative, fu attratta anche da relazioni omosessuali, finendo per sposare, nel 1909, un tenore, tale George Bowden, suo maestro di canto, a copertura di una gravidanza, poi interrotta, frutto di un’altra relazione: il matrimonio si sciolse il giorno stesso in cui fu celebrato mentre la madre di Katherine, precipitatasi a soccorrere, si fa per dire, la figlia, la faceva ricoverare in una stazione termale bavarese, e concludeva il proprio compito diseredandola.

Katherine non rientrerà più alla propria casa e alla propria famiglia.

Era il 1909; Katherine aveva ventun anni e aveva già bruciato, senza protezione, un apprendistato all’età adulta che confliggeva con il bisogno prorompente di conoscere la vita, il mondo, e restituirli, reinterpretati.

Piero Citati[ii] la descriverà così:

Tutti coloro che conobbero Katherine Mansfield negli anni della sua breve vita, ebbero l’impressione di scorgere un creatura più delicata degli altri esseri umani: una ceramica d’Oriente, che le onde dell’Oceano avevano trascinato sulle rive dei nostri mari. (…) Il volto – coi capelli bruni e lisci stretti a cuffia intorno alla testa, mentre la frangia era come incollata sulla fronte pallida – sembrava una maschera tranquilla, intagliata nel legno. Parlava senza muovere le labbra. (…) I gesti erano quieti, contenuti, riservati, rari. Tutta la vitalità, che aveva abbandonato quella maschera dipinta da un esperto pennello orientale, si era concentrata negli immensi occhi neri. (…) gli occhi scuri da uccello guardavano qua e là, posandosi dappertutto nello stesso momento: le pupille si dilatavano mentre guardava; lo sguardo era circospetto e indagatore, impositivo, possessivo, impavido, divorante; e alla fine, quando tutto era stato riflesso e assorbito, quando tutto era ormai perduto, si smarriva lontano”

Strana cosa: ambedue le biografie italiane che provano a restituirci questa donna, faticano a seguire, vogliamo dire cronologicamente, i fatti della sua vita, come si trattasse di accidenti che nulla avrebbero cambiato nella sua storia.

La prima, è una biografia al modo di Citati, anomala; un racconto dal di dentro della donna e della scrittrice. Il racconto di una incompatibilità-necessità tra la forza vitale della Mansfield e la malattia che alla fine la vincerà.

Una diversa biografia, di Nadia Fusini, per parlare di Katherine e della sua vita, sceglierà di costruire una forma-romanzo, creando la storia di un fratello che commenta, più che narrare, alla sorella la vita della scrittrice.

I fatti della sua vita: importanti, certo. Pure: non determinanti. Nonostante tutto, non la descrivono.

La morte in guerra dell’amatissimo fratello, Leslie, in Belgio, nell’ottobre del 1915 (“È una morte ridicola: sta dimostrando ai giovani soldati come funziona la granata e quelli se lo vedono saltare in aria sotto gli occhi[iii]).

La diagnosi di tubercolosi, già preconizzata e ignorata nel 1911, confermata nel 1917 e l’inizio di un calvario di cure sbagliate, di negazione del problema, di disperati ricorsi a guaritori improbabili che affretteranno la sua morte: con il suo aiuto, indubbiamente, pure se, al tempo, la prognosi della malattia era infausta di per sé.

Una sequela di storie sentimentali improduttive e devastanti.

La relazione, questa sì, importante, con John Middleton Murray, che infine sposerà quando ormai la malattia si era manifestata. Fu un legame strettissimo e infelice, interpuntato da allontanamenti (di lei) presa da altri amori (ancora omo e etero), e ritorni da un uomo che era giunto a costituire un punto fermo nella sua vita ma non era in grado di darle il necessario sostegno. Una strana coppia, in effetti, ma, a ben vedere, sono spesso le coppie strane che, a modo loro, funzionano e Murray, dopotutto, le è stato vicino, cosa non facile. A lui si deve la fortuna editoriale, postuma, delle opere di Katherine. Gliene dobbiamo essere grati.

Virginia al lavoro tipografico. Disegno di R. Kennedy**

Il rapporto con Virginia e Leonard Woolf e con il Circolo di Bloomsbury – e sarà la Hogarth Press a pubblicare “Preludio”, uno dei suoi racconti considerato tra i migliori.

A quattro anni di distanza dalla pubblicazione il libro aveva venduto 236 copie. Le successive storie scritte da Katherine non furono pubblicate da Hogarth Press, perché Murry, marito di Katherine, preferì affidarle a Constable, un editore più grande.”[iv]

Dopo aver molto faticato, in vita, a venir pubblicata, le edizioni dei suoi libri, anche nella periferia della nostra editoria italiana, non hanno mai cessato di trovarsi sugli scaffali. Prova provata che le vendite, magari non altissime ma regolari, ci sono. E felicemente perdurano.

Negli anni dal 1931 al 2018 vi sono state almeno 26 edizioni di sue opere in italiano, proposte da diverse case editrici.

La raccolta completa dei suoi Racconti è stata pubblicata da Adelphi, da Newton Compton, da Rizzoli; sono diverse, di diversi editori, le pubblicazioni di opere singole, poesie, altro. Nella traduzione delle opere si sono cimentati molti traduttori.

E se, indubbiamente, c’è qualcosa di molto triste nel successo postumo, nel corso della sua breve vita lei non ha mai mostrato alcuna incertezza sul proprio destino, sul posto che occupava nel mondo – essere una scrittrice.

 

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[i] Nadia Fusini, “La figlia del sole. Vita ardente di Katherine Mansfield”, Mondadori 2012

[ii] Pietro Citati, “Vita breve di Katherine Mansfield”, BUR 1982; Adelphi 2014

[iii] Nadia Fusini, idem

[iv] In: “Hogarth Press: qualche curiosità sulla casa editrice di Leonard e Virginia Woolf”: https://lettureinviaggio.it/hogarth-press-virginia-woolf/

** In: https://readinghogarth.com/2016/05/04/handprinted-books/