“…mentre la Vita aspetta sulla soglia e la Morte monta la guardia sul retro”

Katherine Mansfield, “Viaggio in Urewera”, Adelphi 2015; a cura di Nadia Fusini

Kathrine Mansfield, “Tutti i racconti”, Adelphi – due volumi

A cura di Nadia Fusini

 

Tutti i racconti

Si può ben dire che, nella scrittura di Katherine Mansfield, i racconti coprono, traducono, tutta la sua esperienza della vita che la circonda; tutto il suo essere nel mondo; tutto ciò che del mondo, della gente, della natura in tutte le sue forme, nutre il suo bisogno; sono vita che lei incorpora – tutti i sensi costantemente all’erta – per tutto restituire.

Nella struttura che KM imprime alla sua creazione si rivela la musicista – il violoncello, l’altro suo strumento, è, dopotutto, una voce umana: alla fine il suo mezzo, la parola scritta, sarà uno spartito, che si impone al lettore-esecutore; che potrà interpretarlo sulle proprie corde e purtuttavia senza poterne deviare.

Nessuna fuga verrà concessa; e sì, è possibile che vi si provi, soccombendo tuttavia alla potenza della visione, e dovendo rifuggire dall’ascolto. Una grande perdita, come sempre lo è il trovarsi incapaci di accogliere un’emozione.

Nella forma-racconto, a lei connaturata – in veste di interprete, di colei che, appunto, narra ciò che è – KM esalta ogni esperienza, immortala la vita in tutte le sue forme, di un albero come di una persona, inchiodati, nudi e indifesi, allo sguardo altrui.

La parola è cesellata; rispondente al compito. La lettura scorre, senza inciampi. Un fraseggio pulito, persino riposante, si offre ad un ascolto attento, catturato, che niente viene a disturbare.

I mondi di cui KM narra sono i più vari: e così la voce, che vi si adatta, che muta, adagio, piano, andante, forte, fortissimo, allegro, crescendo….

Impossibile restituire i racconti, nella loro multiformità, se non attraverso il suggerimento di qualche assaggio: quantomeno, impossibile per me.

“La stanchezza di Rosabel”

“All’angolo di Oxford Circus, Rosabel comprò un mazzo di violette, e fu praticamente per quel motivo che prese un tè così leggero – perché una brioche, un uovo sodo e una cioccolata da Lyons non sono granché dopo una dura giornata di lavoro in un negozio di modista. Mentre saltava sul predellino dell’autobus per Atlas, tenendosi la gonna con una mano e aggrappandosi all’asta di sostegno con l’altra, Rosabel pensò che avrebbe dato l’anima per una buona cena – anatra arrosto con piselli e ripieno di castagne, pudding con crema al brandy – qualcosa di caldo, forte e sostanzioso.”[i]

“Preludio”

Non c’era un palmo di spazio per Lottie e Kezia nel calesse. Vacillarono quando Pat le issò in cima ai bagagli; in grembo alla nonna non c’era posto (…)”

(Cosa sta avvenendo? Un trasloco? L’abbandono di una casa amata? È accaduto…cosa?)

“(…) Kezia dette un gran morso al suo pane e sugo e poi mise la fetta ritta sul piatto. Con quel morso sembrava proprio una bella porticina. Uffa! Non gliene importava nulla! Una lacrima le corse giù per la guancia, ma non stava piangendo. Non poteva piangere davanti (…). Sedeva a capo chino e, mentre la lacrima scivolava giù lenta, l’acchiappò con un guizzetto della lingua e se la mangiò prima che qualcuno la vedesse.”[ii]

“Il canarino”

Lo vede quel grosso chiodo a destra della porta d’ingresso? Ancora oggi quasi non riesco a guardarlo, eppure non ho mai avuto la forza di toglierlo. Mi piacerebbe credere che ci sarà sempre, anche quando io me ne sarò andata. A volte sento dire chi verrà dopo di me: «Lì dev’esserci stata appesa una gabbia». E questo mi conforta; sento che lui non è del tutto dimenticato.

…Lei non può immaginare come cantava bene. Non cantava come gli altri canarini. (…)”

Eppure, anche senza essere morbosi, e senza abbandonarsi a…ai ricordi e così via, devo confessare che nella vita mi sembra ci sia qualcosa di triste. È difficile dire cosa. Non intendo i dolori che tutti conosciamo, come le malattie e la miseria e la morte. No, è qualcosa di diverso. È qui dentro, qui dentro, fa parte di noi come il respiro (….) Spesso mi chiedo se tutti hanno la stessa sensazione. Non si può mai sapere. Ma non è straordinario che sotto quel suo piccolo canto dolce e allegro fosse proprio questa – tristezza? – Oh, che cos’è – che sentivo?[iii]

 

Viaggio in Urewera

Uun piccolo libro che permane nelle nostre mani a lungo – un piccolo libro senza fine; le frasi, da rotolare nella mente – e nella voce, ma sottovoce – i riferimenti, i luoghi, il sorgere di curiosità, di domande; il distogliere lo sguardo dalla pagina e trattenerla nel pensiero, una visione.

“Viaggio in Urewera” è materia prima per la scrittura che seguirà; una materia grezza? Come dirlo! Se non in quanto, forse, nato non per la pubblicazione; nato come materiale per la memoria, taccuino nero del viaggiatore; come bisogno che ha assunto la propria forma: trasporre in parole ciò che, accolto in lei, premeva per uscire.

Ha diciannove anni, KM; è rientrata in patria – non vi rimarrà a lungo – e con l’amica Millie Parker parteciperà ad una lunga escursione: da Wellington, in treno, raggiungerà la famiglia degli Ebbett, parenti di Millie, ad Hastings da dove sarebbero partiti, con altri, per i monti dell’Urewera, terra Maori. Viaggeranno su due carri a cavalli, per persone e bagaglio; e a piedi. È il novembre – dicembre del 1907.

KM scrive. Annota. Scrive lettere ai familiari. Scrive nel suo taccuino la bellezza dei luoghi, della gente, delle case, delle relazioni: e bellezza, nel suo caso, non è soltanto valore estetico, piacere della vista, è qualcosa che ha a che fare con la Vita, con un guardare dentro ogni cosa come se non si fosse mai veduta e vedere le relazioni di tutto con tutto; è accogliere dentro di sé colori, suoni, sapori, incontri, relazioni, movimento, quando “una massa ondeggiante di fiori bianchi indigeni – un alberello con un tocco scarlatto – ciuffi di toitoi tremano al vento – una famiglia di bambine che si asciugano i capelli – Il pomeriggio tardi ci siamo fermati a Jakesville – Ce ne stiamo a giocare dentro casa – mentre la Vita aspetta sulla soglia e la Morte monta la guardia sul retro.”

Nadia Fusini, nel curare la costruzione di queste pagine, vi intercala, come inserti, brevi linee di trama che consentiranno al lettore di seguire il viaggio come una storia: i percorsi, i luoghi, la cronaca che KM ometteva. Lei stava scrivendo per sé, fissando emozioni, percezioni, vissuti, pensieri.

Del paesaggio fanno parte anche gli incontri? Sono tutti quadri: gli abitanti maori, i bambini, le donne, le ragazze che sgranano piselli sedute sulla porta della loro whare, le case maori – e già il finestrino del treno che aveva portato KM e l’amica Millie Parker da Wellington ad Hastings – ancora solo attesa dell’esperienza nella terra dei Maori e dentro una natura ancora (illusoriamente) non contaminata – aveva allertato tutti i sensi.

KM disegnerà l’esperienza con parole – schizzi, bozzetti, macchie di colore, uomini e donne, pecore in fuga spaventate da arrivi estranei – e armenti, case, sole, pioggia, foschia; incontri dentro i grandi spazi pieni di – acque – che scorrono, laghi, cascate – fiori, verde, vegetazioni – tempi atmosferici: e, oltre l’immobilità del lago Waikaremoana, le cime dell’Urewera.

C’è la visita a una famiglia maori di amici, i Warbrick, dove KM conosce Johanna, una ragazzina “appena tornata da scuola”, che “innaffia il giardino con una teiera di smalto bianca (…) poi munge la mucca (…) è piuttosto silenziosa – legge Byron e Shakespeare e vuole tornare a scuola”.

Il giorno seguente ci sarà la partenza. KM scrive; in terza persona; occorre distanziare l’esperienza per vederla? 

“Il cavallo della guida nella notte – KM si è vegliata molto presto – J (Johanna) è ancora più timida oggi – KM parla con il bambino dall’altra parte della strada – Arriva la madre del bambino – una donna sciupata ma piuttosto bella con un sorriso delizioso – Sì, ha cinque figli anche se ha l’aria tanto giovane – ora la ragazza sta tosando – È in inverno che fa tanto freddo – è pieno di neve – stanno sempre accanto al fuoco – restano lì seduti con addosso molti vestiti e fumano – Addio – Johanna si rimette ad annaffiare i fiori – tra poco tornerà a mungere la mucca – tutto daccapo – suppongo –

La visita ad un vulcano che erutta fanghi – le terme, odore di uova marce che la fa sentir male; giorni spiacevoli, frammisti a qualche sprazzo di bellezza.

Partenza. Sul carro, KM scrive, ancora in terza persona.

“Per tutta la domenica, più lei si allontanava da Rotorua più era felice – Verso sera sono arrivati a una grande montagna, Pohataroa – rugosa e vecchia e tetra – un antico pah ribelle – Qui i Maori avevano combattuto – sulla sommità del picco gorgogliava una sorgente (…)

(…) Ecco il fiume –  selvaggio, grigio, feroce, scrosciante, prorompente (…)

Il tramonto muta – si fa viola – e nella luce calante l’intera distesa di manuka bruciata è come una sottile nebbiolina che le avvolge – Un uccello, grande e molto silenzioso – si alza dal fiume dritto nel cielo fiorito – Non c’è altro suono che la voce del fiume appassionato (…).

(…) Lentamente sono tornate indietro – hanno perso la strada – e ritrovata – hanno raccolto una manciata di aghi di pino e li hanno annusati avidamente – (…)

(…) Hanno aspettato fuori – le stelle – incantesimo assoluto – un magico velo di nebbia si muove – nebbia sopra il mondo intero –

Non è stanca ora – solo felice”.

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[i] In: “Qualcosa di infantile ma di molto naturale.”

[ii] In: ”Beatitudine”

[iii] In:”Il nido delle colombe”