Letture in corso: sentieri che si diramano (segue)

Pare che le mie letture non vogliano abbandonare il loro disordine; che tuttavia lascia intravedere, qua e là, qualche sprazzo di luce. Sto, mi pare, passeggiando nel bosco; e nel folto degli alberi, dove sentieri solo intravisti si intersecano, un sottobosco di desideri discordanti, curiosità passeggere, umori altalenanti, impedisce l’orientamento.

Non è un brutto stare, conoscendo che – accade sempre – il fitto si diraderà, suggerendo una vicina uscita alla luce; quando riapparirà un sentiero per il paese di Proprio Là, dove, senza saperlo, eravamo diretti.

Il tema è (dovrebbe essere) sempre lo stesso: i libri non si fanno leggere a caso, e neppure seguono un sentiero privo di meta. Neppure quando ci pare di procedere saltellando di lettura in lettura, senza una evidente coerenza nel dialogo con le pagine. C’è sempre un tema, e una nostra domanda, anche quando libro chiama libro al seguito di reminiscenze, di emozioni, di bisogni, operando strani respingimenti e scelte in apparenza <fuori luogo>.

È il libro che sceglie il lettore? Come la bacchetta sceglie il mago? Harry Potter docet.

E non vale chiedersi perché si legge. Si legge per curiosità, per ampliare il nostro mondo esterno e il nostro tempo di vita; si legge per il bisogno di esplorare il nostro mondo interiore; si legge alla ricerca: e ogni libro è, per ognuno, sempre, un romanzo di formazione.

L’invecchiare, se così è, non interrompe dunque la nostra crescita? e non interrompe una domanda. Mi piace: vorrebbe dire che, tutti, moriremo immaturi di giovinezza, anche al termine di una lunga vita. Anche questo mi piace.

Si assiste, talvolta, in libreria, alla scena sempre un po’ divertente-imbarazzante, del cliente non abituale che si rivolge al libraio chiedendo di venir consigliato, volendo regalare un libro a qualcuno. È impossibile <consigliare> un libro a qualcuno, soprattutto a uno sconosciuto. Al massimo, si potrà <raccontare> di un libro a qualcuno, raccontare la personale esperienza di una lettura – e sarà qualcosa come lanciare un messaggio nel mondo e sperare che il mondo lo tratti bene.

Sto confondendo l’autore con il lettore? È possibile. Ma è bello, nello scambiare esperienze di lettura, incontrare, attraverso i racconti altrui, libri potenziali compagni di viaggio, che entreranno nella mappa dei nostri percorsi, diversi, da incontrare in un tempo e nei giorni giusti per ognuno. Ed è bello raccontarne e, a nostra volta, aprire ad un libro uno spiraglio per un incontro che potrà avvenire, se avverrà, al momento giusto per il libro e per il suo lettore.

C’è ora il libro di cui ho appena terminato la lettura – Neil Gaiman, “American Gods”, Mondadori 2002. Traduzione di Katia Bagnoli – e mi piacerebbe capire come ci sono finita dentro proprio ora, anche se il libro stava in attesa da un po’ di tempo; e tuttavia al di fuori della mia attenzione attiva.

Com’è, cosa avviene, quando apprezziamo, senza poterlo lasciare, un libro che, a tratti, ci irrita profondamente, salvo farsi perdonare precipitandoci nella poesia; per poi farci ripiombare nell’irritazione; e non per qualche caduta di qualità della storia, della narrazione. Per una mescolanza, assolutamente voluta, credo, di generi? Frutto di una precisa volontà di irritare?

È stata una lettura interessante. Sarà, credo, la prossima recensione.

Donald Barthelme

Nel frattempo sto leggendo, in questo caso come da programma, Biancaneve”, di Donald Barthelme, – piccoli momenti di lettura e rilettura della stessa pagina, dello stesso brano, intensi e, ma sì, sbalorditivi.

Distorcendo un luogo comune, quando il gioco si fa duro, Barthelme è sempre una scelta salutare, non foss’altro perché non richiede che si capisca tutto, né che si comprenda ogni volta la stessa cosa, e poi chi se ne importa – il libro pare dirlo, fare una scommessa con il lettore – lasciati andare, ogni frase, ogni brano, susciteranno emozioni, domande – risposte? Basta che restino provvisorie – fonte (anche) di benessere.

Non l’ho ancora terminato; e non ho fretta. È una specie di “bene rifugio”, essendo questo il momento, sempre speciale, che precede il tuffo in un nuovo libro. Una rilettura necessaria.

Thomas Mann, “La montagna incantata”, Corbaccio 1992. Traduzione e Introduzione di Ervinio Pocar

Der zauberberg”: dopo “Il tempo degli stregoni” (Zeit der Zauberer) il richiamo è forse inevitabile, sostenuto persino nel titolo. Il racconto del tempo, 1907-1914, in cui tutto iniziò, un tutto in cui prepararsi ad entrare attraverso un rito di passaggio lungo sette anni, l’attraversamento di un tempo altro, in cui cercare, trovare, accogliere un destino di sé nel mondo; entrando, ad occhi aperti, nella catastrofe?

Non lo so. Da molti, troppi anni, non rileggo questo libro, che ora è stato iniziato, dotato di segnalibro, dopo aver vissuto una attrazione-desiderio di fuga – il segnalibro fermo, in una sospensione che <doveva> essere risolta.

Non mi sono chiari i motivi per cui ho esitato nell’affrontare la differenza tra il ricordo, bellissimo, importante, di una lettura vissuta in un’altra età, mia e del tempo del mondo in cui è avvenuta, e il diverso vissuto dell’oggi – mio e del tempo, ambedue totalmente altri, del mondo in cui vivo.

Come sarà stato riplasmato, dal tempo, il mio ricordo? Ci riconosceremo, io e Hans Carstop? Quale lettura “La montagna incantata” regalerà al ventenne, di oggi. Nella rilettura, potrò intuirla? Mi apparterrà?

Anche i libri vivono, crescono; talvolta, ma non è questo il caso, invecchiano. Talvolta muoiono: anche solo per noi. Avviene.

Thomas Mann

Ho uno strano rapporto con Thomas Mann, non da oggi. Non amo questo autore – non amo l’uomo Thomas Mann, pure se il mio non-amore è cambiato, nel tempo, infiltrato da una forma di comprensione (propria o impropria non so). Amo i suoi libri che, non so bene come (potendo, sicuramente, arzigogolarci sopra, come del resto avviene), mi appaiono non poter appartenere a quella faccia severa, anche quando è ritratto sorridente, alla sua storia “ufficiale”, alla sua (apparente) “monumentalità” borghese. Eppure, sono opere in cui l’elemento della propria interiorità (autobiografia non sarebbe, credo, la parola giusta; la sua “biografia” è stata altra cosa) è ben presente; è il motore della sua scrittura.

Non so. C’è quel qualcosa – il groviglio, i figli, Klaus ed Erika, gli altri figli; gli esili, in molti sensi. Poi ci sono le sue pagine. E tanto basta.

C’è un libro – Tilmann Lahme, “I Mann. Storia di una famiglia”, ETD 2017, che segnalo unicamente perché ho avuto la tentazione di averlo, concludendo per il no. Almeno non per ora. Credo, forse, che il tempo (per me, parere molto personale e ingiustificato, non avendo letto il libro) non sia maturo; la distanza temporale non sufficiente, per violare (uso il verbo in senso proprio) quella vita (e quelle vite). Thomas Mann ci ha detto tutto di sé. Così ha fatto  Klaus Mann, il figlio (qui). Non ho mai letto Erika Mann, la figlia prediletta.

<Voglio>, ora, solo rileggere “La montagna incantata”. Lo desidero (con uno strano sentimento di “sprezzo del pericolo”). Non so se potrò darne una restituzione.

 

Nel frattempo, è allo spasimo, per me, l’attesa della nuova traduzione, da parte di Ottavio Fatica, di “La compagnia dell’anello”, il primo libro di “Il Signore degli anelli” di J.R.R.Tolkien. Dovrebbe arrivare in libreria, leggo, nella seconda metà di questo mese.

Occorre, a questo punto, accennare brevemente al grande lavoro di recupero degli scritti del Nostro, realizzato dal figlio Christopher Tolkien che ha dedicato un lungo e pregevole lavoro alla pubblicazione postuma delle opere inedite, e incomplete, del padre.

A Christopher Tolkien si debbono importanti recuperi di opere che il padre non solo non aveva pubblicato ma che erano ancora, pare, allo stadio di composizione: uno per tutti Il Silmarillion. Manoscritti, appunti, rifacimenti. Difficile dire, in effetti, quale avrebbe potuto essere la stesura finale, e la eventuale scelta di pubblicazione, da parte dell’autore.

Lo scorso anno è uscita una nuova storia, in precedenza inedita, “Beren e Lúthien”, che doveva concludere l’opera di Christopher sui testi del padre; e invece, in questo ottobre, è uscito “La caduta di Gondolin”: ultima opera davvero, parrebbe, anche in considerazione dei novantaquattro anni del curatore – non vorremmo che i nipoti dovessero affrontare la curatela delle curatele del professor Tolkien junior.

La cattiveria è affettuosa, da parte mia. Anche perché, confesso, cullo progetti-fantasia del tipo: mi faccio regalare per Natale…e con un po’ di pazienza potrei riuscire ad avere tutto, ma proprio tutto ciò che (ha scritto?) viene attribuito a J.R.R. Tolkien – poi mi dico no, dai, lascia perdere. Sei alle prese con il problema di come ridurre, disperdendo un po’ di figli-libri fuori casa, il sovraccarico di carta che sta mettendo a dura prova i tuoi spazi di vita; anche perché, nel frattempo, libri si aggiungono a libri, ovviamente.

Comunque, per chi fosse interessato, il sito dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani racconta tutto – (qui): ma immagino che, chi è interessato, lo conosca già e lo frequenti.