L’altro: la costruzione del nemico

Identità e violenzaSono trascorsi dodici anni da quando – era, credo, il 2006 – Amartya Sen ci ha regalato questo suo libro. Dopo le Torri Gemelle, Il problema dell’altro-nemico era, credevamo, al suo massimo. Ne avevo proposto la lettura – era il maggio 2015 – a distanza di nove anni; e a distanza di un anno dall’apertura di questo spazio, senza poter dare a questo libro una almeno minima visibilità.

Il libro è sempre in circolazione. Le edizioni sono state multiple; ed è purtroppo un libro sempre molto attuale. Che contiene, in chiusura, una speranza – razionale, limitata – che Amartya Sen esprime con il suo linguaggio caldo, semplice, chiaro, che aiuta chi lo condivide a trovare le parole giuste, e pacate, per dirlo: cosa non sempre facile.

Ve lo ripropongo: in questi giorni che non riesco a descrivere se non come paurosi.

 

Amartya Sen, “Identità e violenza”, Laterza 2006 (4a edizione 2011)

L’Islam”, “i musulmani”, “i cristiani”, “lo scontro tra civiltà”, “loro”, “noi“. Sen affronta il tema dell’identità e del come questa diventi, necessariamente, una “identità violenta” quando, ponendosi come il tutto che definisce una persona, cancella la molteplicità delle appartenenze che ci caratterizzano. E questo avviene, in particolare, quando un’identità, resa cosignificante del tutto di un essere umano, è quella etnica (qualsiasi cosa ciò significhi, mi permetto di aggiungere) e religiosa.

Il tema è particolarmente pregnante in un momento in cui, tramite l’assegnazione di un’identità unica e totalizzante, quale si vorrebbe fosse un’appartenenza religiosa, nel mondo si combattono guerre cruente ma, soprattutto, si alimentano, nel senso proprio di dare nutrimento, aver cura, far crescere, odi per i quali diventa più che impossibile, addirittura impensabile, supporne un superamento.

Questo libro è stato pubblicato nel 2006, dunque dopo che i fatti delle Torri Gemelle avevano avviato quella che ormai sappiamo bene essere una nuova fase della storia non solo per il cosiddetto mondo occidentale; ma prima dell’evoluzione che vede, ancora oggi, una situazione di belligeranza diffusa pericolosamente prossima a coinvolgere l’intero pianeta in una guerra globale, mentre il mondo sembra impegnato in un processo di costruzione del nemico quale, forse, non si era mai veduto nei secoli.

(Aggiungo oggi, mentre la paura e l’odio per l’altro stanno per distruggere il sogno europeo, la pace che ha assicurato a questo continente troppo vecchio; la sua speranza di una rinnovata giovinezza).

Un libro profetico, dunque, nel senso etimologico del ‘parlare davanti a tutti’ e del ‘parlare prima’, preavvisare, segnalare. E un libro che parla con preziosa serenità, data da un pensiero che frequenta il campo della ragione umana fuori dalla teoria, nella vita concreta della quotidianità.

Il tema è difficile ma viene affrontato rendendolo comprensibile al punto da risultare, invece, persino ovvio. Eppure, mentre nel corso di una lettura facile, piacevole, talvolta sorridente, ci si trova a condividerne le tesi, le ricadute pratiche dei concetti espressi, il confronto con il nostro sentire, con le nostre esperienze, portano al sorgere di un sottile disagio, ci dicono che qualcosa non torna. Come a dire che sentiamo, dentro di noi, che c’è di più, che c’è dell’altro. E questo qualcosa è la difficoltà che ci causa lo scontro in cui consiste ormai l’aria che respiriamo, e i modi delle notizie che ci arrivano, i toni alterati, quasi un invito ad abbandonare ogni ragionevolezza nel prender parte; è il dilemma che si fa acuto tra l’abitudine e la disponibilità ad incontrare, nella nostra quotidianità, la ricchezza delle diverse appartenenze e il richiamo a far nostre categorizzazioni improprie nelle quali imprigionare l’altro, ogni altro.

Un libro di facile e piacevole lettura, dunque, che si rivela carico della fatica che la ragione richiede sempre. Un libro che si chiude con un monito, la cui pacatezza rivela tutta l’importanza dell’allerta proposta.

Amartya Sen

L’apertura. Sen chiarisce da subito, dal Prologo, il tema, e lo fa con il sorriso (e da subito la lettura ci prende perché l’aneddoto, rivelatore, da cui l’autore parte per la sua esposizione, è gustoso): il professor Amartya Sen, Premio Nobel 1998 per le Scienze Economiche, direttore del Trinity College di Cambridge, arriva, di ritorno da un viaggio, all’aeroporto londinese di Heathrow; il professore ha il passaporto indiano e, dunque, compila il modulo per l’immigrazione scrivendovi il proprio indirizzo: Residenza del Direttore, Trinity College, Cambridge. Il funzionario che esamina i documenti lo guarda e – narra Sen – gli pone “un quesito filosofico di una certa complessità”: chiede se, essendo egli “evidentemente” ospite del Direttore del Trinity College, quest’ultimo fosse un suo caro amico.

Sen confessa al lettore la propria difficoltà nel rispondere con immediatezza in quanto “non ero del tutto sicuro di potermi definire amico di me stesso”. Ma il non aver risposto con immediatezza darà luogo a nuovi problemi e a sospetti.

E’ facile immaginare l’imbarazzo finale del funzionario, nella cui testa erano entrati in collisione, come incompatibili, lo stereotipo “indiano” e lo stereotipo “Direttore del Trinity College di Cambridge”. Sen concluderà l’aneddoto dicendo: “la questione alla fine si risolse”; e aprendo il tema del libro con le parole “l’identità può essere una faccenda complicata”.

La complessità aumenta – dice Sen – se passiamo dal concetto per cui “una cosa è identica a se stessa” al concetto per cui quella stessa cosa condivide molte cose con altre cose.

La nostra identità, oltre ad avere aspetti multipli, è anche un’identità sociale, che a sua volta è multipla. E l’identità sociale, quale contenitore, vero o supposto, della vita di relazione e dei sistemi di appartenenza di ognuno di noi, potrà diventare una gabbia nella quale la persona, in luogo di appartenervi o meno, in tutto o in parte, verrà rinchiusa dallo sguardo altrui – lo sguardo del “solitarista”, dice Sen – che la considererà totalizzante dell’identità individuale.

Spesso noi ci confrontiamo con gli altri assumendo che “l’altro” sia “una categoria” in luogo di essere una persona che non conosciamo e di cui, di conseguenza, dobbiamo disporci a sapere molte cose, che non saranno, in ogni caso, né tutte né esaustive della sua identità.

Il tema diventa così una disanima del concetto di multiculturalismo e del concetto di monoculturalismo plurale: “L’esistenza di una diversità di culture, che magari viaggiano una accanto all’altra, come navi nell’oscurità, può valere come esempio riuscito di multiculturalismo?

Così, assumendo di dover rispettare le diverse appartenenze culturali che convivono nella nostra società, finiamo per imporre un’appartenenza a esclusione di altre, ignorando le infinite contaminazioni di cui tutte le culture sono ricche. E diveniamo ciechi di fronte alla legittima possibilità, per ognuno, di scegliere non tanto o solo tra appartenenze ma di far convivere, o di escludere, aspetti diversi delle stesse.

La conclusione narrerà il primo incontro del bambino Amartya Sen con la violenza e con la morte : era il 1944, il dominio britannico in india stava per finire, la nazione era preda di scontri. Un pover’uomo, colpevole solo di passare per la strada per andar al lavoro ed essere uno degli “altri”, venne aggredito. Cercò rifugio, morente, a casa Sen; il pronto aiuto, la corsa all’ospedale, furono inutili e Kader Mia morì.

Ricordandolo, Amartya Sen immagina “un altro universo, non così lontano da essere irraggiungibile, in cui lui e io potremo affermare insieme le nostre tante identità comuni (anche se i solitaristi ululeranno minacciosi al cancello). Non dobbiamo mai permettere che la nostra mente sia divisa in due da un orizzonte.”

Questo è un libro la cui lettura è, oggi, quasi necessaria, oltre che molto piacevole. Come altri libri di questo grande pensatore.