Silenzio della parola e sguardi sul mondo

verso un altra estate_janet_frame_recensioneRipropongo un’autrice che amo molto. Che, tuttavia, va assunta, credo, a piccole dosi. Ma con regolarità.

A suo modo, un’autrice, forse, pericolosa: non si è più gli stessi dopo averla letta; in particolare, attraverso le pagine di questo suo libro. Qualcosa, chiuso il libro, sarà cambiato in noi. Ci sarà stato regalato (con lo stupore, anche con qualcosa che può essere assimilato al dolore di una rinascita) un nuovo sguardo sul mondo, liberato dalla foschia dei nostri giorni affannati.

 

Janet Frame,Verso un’altra estate, Neri Pozza Editore 2012

…e dalla loro baia tormentata/ Svaniscono i chiurli verso un’altra estate./ Ovunque tra luce e quiete mormora/L’ombra della partenza: l’orizzonte ci guarda;/ E nessuno sa dove andrà a coricarsi la notte. (Charles Brasch, da “The Islands“)

 Tra le opere di Janet Frame, questo è il romanzo-racconto che l’autrice non ha voluto fosse pubblicato finché lei era in vita. Lo considerava troppo “personale”.

Lo è: per tutti e per ciascuno a modo proprio, nel modo in cui i fantasmi che ognuno porta dentro di sé leggono il proprio mondo e i modi del proprio posto nel mondo.

“Verso un’altra estate” è il racconto di un fine settimana che Grace Cleave, una scrittrice trasferitasi a Londra dalla nativa Nuova Zelanda, trascorre ospite a casa di una coppia, il giornalista Philip Thirkettle e la moglie Anne, con i loro due bambini piccoli.
Janet Frame, nelle vesti della sua alter ego, narra la sua difficoltà ad intrattenere una normale conversazione con i suoi ospiti, la consapevolezza della fatica che questo suo disagio crea e le crea, in una relazione che interseca i ricordi della propria infanzia in Nuova Zelanda.
Il suo pensiero ripercorre storie di vita, luoghi, trasferimenti, con la sua famiglia, al seguito di un padre ferroviere: e c’è la mucca da mungere, c’è la cornamusa, che il padre suonava la sera passeggiando avanti e indietro, vestito con il kilt, rito della buonanotte ai propri bambini; c’è la capacità di abitare nuovi luoghi e nuovi paesaggi.

Con il passare degli anni, la cornamusa tacerà, riducendo il proprio suono al diminuire delle forze del suonatore.

Nella casa dei suoi ospiti c’è, dietro le quinte, un personaggio per certi versi centrale: è Reuben, il suocero di Philip, anch’egli originario della Nuova Zelanda. In quei giorni è assente, ma costituisce il legame tra la giovane famiglia e la scrittrice. Grace ne occuperà la camera, carica dei segni della sua presenza, degli echi di una vita che, avendo gli lasciato la sua terra, è ora un fuori luogo.
Cosa le aveva detto Philip, invitandola ad andarli a trovare?

Anne le piacerà, e anche suo padre, un tempo faceva l’allevatore di pecore, con lui potrà parlare di pecore, delle loro malattie, della fasciola, della zoppina…

Ho dovuto guardare il vocabolario per sapere cosa sono la fasciola e la zoppina, fatelo anche voi, comunque sono malattie del bestiame. Evidente la comprensione di Philip per la sua nostalgia della Nuova Zelanda, per quel mondo, quegli spazi, quegli orizzonti.

«I viaggi non erano una cosa semplice per Grace; nulla è semplice se la tua mente è un vagabondo da riporto che dalle perigliose fenditure del mondo esterno torna con la sua preda alla segreta sicurezza di quello interiore; se quando arriva la notte i tuoi pensieri escono fuori, striscianti e furtivi come un animale peloso nascosto nel buio, per trovare, ghermire e uccidere il proprio cibo e trascinarlo nella tana segreta del mondo segreto”.

E Grace Cleave (Janet Frame) fa proprio questo: trova, ghermisce e uccide il proprio cibo, che le arriva e lei prende dal mondo, per farlo sé, farne la propria carne e le proprie ossa; e restituirlo in Parola. Quanti echi in questo, e la parola di Frame è potente. E’ una parola che crea, con i significati, le cose, lo stare, il mondo. Leggerla dà una certa vertigine e, come lei scrive,

non serve a nulla dire Freud, Freud. Perché è così che fa la gente. E’ come strizzare una spugna vecchia”.

Ma Philip non sa, e non saprà (quando lei avrà accettato l’invito e, pur con mille ansie, sarà a casa con loro) ciò che le era successo quando, nei giorni precedenti il viaggio, svegliandosi nella notte, aveva sentito “sulla pelle delle braccia e delle gambe, dei seni e del ventre, e persino in cima alla testa, l’impercettibile formicolio di un principio di piume”.

Scalciò via le coperte e si studiò la pelle. Niente piume. Solo una sensazione di lanugine e penne che, come ogni manifestazione di quell’altro mondo, poteva restare segreto; non c’era bisogno che lo sapesse nessun altro. In un certo senso era un sollievo scoprire la sua vera identità. (…) Ora le era stata offerta la soluzione; era un uccello migratore: parula, batticoda, zigolo giallo? Averla, botton d’oro, stercorario? Albatro, vescovo arancio, chiurlo?”.

Questa scoperta della propria identità farà tutta la differenza.

Verso un’altra estate” è un libro bellissimo, nel quale la scrittura di Frame crea un mondo, non il “suo” mondo, semplicemente uno tra i tanti possibili che appaiono ad uno sguardo. Non, certo, il mondo normalmente dato, per il quale occorrerebbe definire sia ciò che è “normale”, vale a dire condiviso per tranquillità d’animo e amor di pace, sia ciò che è “dato” (da chi?), vale a dire il mondo al quale è cortese, beneducato, tranquillizzante riferirsi per una condivisione che ci assicuri di non venir invischiati in una comunicazione vera. Ne discenderebbe la fatica dell’ascolto, e lo stupore, magari una sofferenza, tutte cose che potrebbero incrinare quel significato di “normale” che consente le relazioni sociali, tanto difficili per Grace. Tanto difficili.

Così, Grace Cleave, la protagonista, non parla. E Janet Frame scrive.