Chiacchierata senza capo ne coda. Di libri e letture

Strana gente “i lettori”. Meglio sarebbe dire: strana non-categoria.

Perché i lettori sono gente, che attua un insieme di comportamenti che più vario non si può, non una categoria; e forse dovrei dire strana la gente – e dunque anche i lettori. I falsi sillogismi possono tornare utili; quando una incongruenza è difficile da mettere a fuoco.

Essere una lettrice, un lettore: ognuno a modo suo; chi legge cosa, quando, quanto, come e perché. Non esiste, nel nostro mondo, chi non legge “mai”, “nulla”. Tra i due insiemi – lettori e non-lettori – non esiste una vera soluzione di continuità.

Esistono molti tipi di lettori; che non necessariamente condividono, come l’assegnazione a una categoria può far pensare, l’appartenenza a un insieme correttamente costruito; quantomeno, gli elementi che giustificano la comune appartenenza sono spesso di grandezza omeopatica; e mal definiti.

Il momento mi porta a cercare risposta alla domanda “Che lettrice sono”, “Cosa, quanto condivido con altri lettori”, a partire dal disordine in cui si trovano i miei libri, il tavolo da lavoro, gli scaffali, e che si espande in luoghi non dedicati; e dalle domande che il tentativo di far ordine porta con sé.

Molti di coloro che leggono conoscono la necessità, più o meno a scadenze regolari, di dedicarsi al riordino dei libri ovunque sparsi: trovandosi a dover fronteggiare anche un pensiero-riordino necessario delle proprie letture. Nel mio caso (sono sola? Non credo) la cosa comporta ogni volta il sorgere di un certo stupore di fronte alla incongruità delle letture disperse, interrotte, semidimenticate; di fronte all’evidenza di una disomogeneità fonte di grande sconcerto.

Recuperare il disordine sparso; nella stanza dove libri giornali riviste quaderni, penne e matite (perché, solitamente, chi legge scrive pure) hanno creato uno di quegli ambienti in cui non trovi più un posticino libero per appoggiare qualcosa; dove sparisce la cosa, importante, che stai cercando e che, sicuramente, c’è.

Sai bene di possedere più matite di un cartolaio e non ne trovi una? Molto irritante. È introvabile persino il libro che giusto ieri avevi iniziato a leggere, quel libro decisamente adatto al pisolino pomeridiano, sul divano quando, in fase di abbiocco, non è il caso di proseguire la lettura di quell’altro, della lettura principale, che richiede attenzione vigile.

Guarda cosa c’è qui. Lo avevo tolto dallo scaffale, qualche tempo fa. Si trattava solo di un pensiero, da valutare: rileggerlo? Ma quando mai! Eppure – è trascorso molto, troppo tempo – ecco un libro che, letto e riletto, era stato sul mio comodino per almeno un paio d’anni. Una vera e propria fissazione.

Douglas R. Hofstadter, “Gödel, Escher, Bach: un’eterna Ghirlanda Brillante”. Adelphi 1979

Mi faccio ricatturare dalla Presentazione. Chi lo conosce sa di cosa parlo. Di “un’eterna Ghirlanda Brillante, i cui fili si chiamano Intelligenza Artificiale, Macchina di Turing, Teorema di Gödel. Una fuga metaforica fra la mente, il cervello e i computer”, ci dice la quarta di copertina; di un libro la cui struttura sconvolge i nostri universi simbolici, rimbalzando il lettore, nel piacere di un pensiero rigoroso, tra fantastiche invenzioni colloquiali tra un Achille, una Tartaruga e uno Zenone rivisitati. Ah, dimenticavo il Granchio.

È questo un libro che si può leggere all’infinito proprio perché non tutto è decifrabile da chiunque (e in particolare non da me) senza che, per questo, perda il suo fascino, e non si faccia seguire lungo una linea di pensiero che ci regalerà…che cosa? Oggi – molto tempo è passato – non lo so più. Ne ricordo il grande fascino, per l’appunto.

Erano i primi anni ’80. Quel libro mi aveva irretito. Aveva cullato notti insonni. Oggi, non sarei più in grado di leggerlo, temo; ne sono praticamente certa, ambiti di interesse da tempo desueti; e tuttavia, un’occhiatina? Ne ho timore, e desiderio.

Cambio destinazione e vado allo scaffale Adelphi: stesso autore, con altri: “L’io della mente”. Praticamente consunto, sbriciolato dall’uso.

Ecco! Stavo facendo ordine; stavo predisponendomi a fare ordine. Non sto facendo ordine: sto leggendo.

Poco fa avevo tra le mani Sir Conan Doyle!

Il fatto è che, in realtà, alla fine della fiera, ti accorgi che non è la tua stanza ad essere travolta dal disordine e ad aver perso l’uso cui è destinata: lo è la tua testa; e la stanza è unicamente un indicatore del baratro, un sintomo, un segno.

Si selezionano, tra le letture, quelle che, non so come dire, seguono una linea dotata, nel tuo pensiero, o supposto tale, di una qualche, vaga, stocastica, consequenzialità. Vi si mescolano, scelti non si sa come  – diciamo tra ciò che appare disponibile, in linea con il momento in cui è necessario affidarsi alle pagine di un libro – per dormire, per svagarsi, per allontanare, o riposare da, un pensiero faticoso. Ci si rifugia in letture note, oppure in qualcosa di nuovo, per un assaggio, di cui consumare qualche pagina e poi si vedrà, un ricordo da sommare ad una curiosità, ad un’attesa. Si cerca, solo per quel momento, il libro capace di riposare il pensiero, capace di accordarsi al momento in cui ci si trova, o di suscitare un momento nuovo per sfuggirvi.

Si viene catturati dal ricordo di una parola, di un suono, di un odore; dall’evocazione di un tempo, di relazioni e luoghi. Immagini di sé da recuperare. Mappe.

Non so se tutti facciano come me ma, ad esempio proprio per addormentarsi – ma anche per trascorrere da un’attività ad un’altra, di diverso impegno, soprattutto se ad alto impegno (un arrosto può fare al caso) – è necessario il libro giusto, quello capace di consentire al pensiero di continuare, pacificato, dopo che si è chiuso il libro; o capace di farsi lasciare, dopo aver diversamente riposato; oppure avendo trovato un pensiero, un progetto, un qualcosa su cui lasciar scivolare la mente, appagata. Per impedire che pensieri disturbanti si infiltrino nel nuovo compito – sia esso dormire o legare l’arrosto – come quelle telefonate-spam che interrompono, il riordino, per l‘appunto – meglio, il pensiero del riordino – che deve precedere l’operarlo.

Perché il disordine è nella testa, non nella stanza, non sulla scrivania.

L’e-reader: c’è grande disordine pure lì, dove dovrebbe essere davvero facile essere ordinati. Come ci sono riuscita?

Anche qui: letture disordinate, iniziate e sospese, dimenticate. Frammiste alle letture-letture, quelle che, per l‘appunto, aprono una via al supposto, ricercato, ordine del pensiero – un quasi percorso, non lineare, ovvio; una mappatura, qualcosa del genere; che alla fine, magari con tanta fatica nel confronto con i risultati, sembra poter condurre a una qualche piccola ipotesi sul mondo, sulla vita, su ciò che sei e su ciò cui tendi.

L’e-reader costituisce, per me (e ne consiglio caldamente questo uso se, tra lettori, qualcosa di tutto questo ci accomuna) quello che, nel linguaggio ordinario (ma potrebbe trattarsi unicamente di un mio “lessico famigliare”), viene detto “cassetto dei miracoli”: quello che credo esista in ogni casa (e, per derivazione, in ogni libreria, biblioteca privata); quello dove, solitamente, i bambini vanno a cercare pezzi sparsi di giocattoli, un residuo di nastro adesivo appiccicoso e il barattolo di colla vinavil seccata, il rotolo di spago, le figurine residue di collezioni sempre iniziate e mai finite, tre biglie superstiti di vetro di quando era bambino il papà, una manciata di macchinine con le ruote contorte che non scorrono più e una vecchia pistola ad acqua fessurata. Un ormai appiccicoso polveroso caleidoscopio che non ruota più.

Non è proprio, del tutto, così. Esiste anche un uso sano dell’e-reader. Ottimo per buoni libri da svago, che non fa conto possedere in cartaceo nella propria biblioteca (lo spazio ha precise esigenze). Buona anche l’abitudine di acquisire, anche in versione e-book, i libri cui teniamo maggiormente: per averli sempre a disposizione, ovunque ci si trovi; per poterli leggere, e rileggere, anche a spezzoni, senza perdere il segno; per poterli sottolineare senza guasti.

Sono là, nell’e-reader, tra le cianfrusaglie, in un miscuglio impossibile di resti amati e pezzi da differenziata cui ci (mi) legano, che so, pezzetti sparsi di identità cancellate, file dispersi che inchiodano il software (non so se si dice proprio così, ma tanto per capirci).

Occorre darci sotto: iniziamo il riordino dall’e-reader. Non per buttare, no; neppure per riordinare davvero. Solo per prendere atto. Per rispondere alla domanda: Che lettrice sono?

E chiedere: che lettrici-lettori siete? Bello, se qualcuno mi rispondesse.

Solo, tanto per, sentirmi in compagnia; oppure, in alternativa, almeno prendere atto che invece.

Cosa ho letto, diciamo negli ultimi mesi, tra un “Libro” e l’altro? Per l’appunto, in e-book. C’è qualche libro che potrebbe, anzi dovrebbe stare negli scaffali della libraia virtuale e venir acquisito in cartaceo; c’è dello strano altro; ci sono letture solo iniziate, di cui ho perduto, non ritrovo, un’intenzione, un desiderio di lettura, che tuttavia una lettura potrebbero averla, certo. C’è qualcosa che merita l’eliminazione: incredibile, oltre a non essere capace di buttare nel bidone della carta un qualsivoglia libro malnato, pare io non sia capace neppure di premere il tasto cancella su di un e-book.

La sto tirando lunga: domani (prometto, o quasi) seguirà una visita alla piccola bibliotechina dimenticata, sospesa, in alcuni casi rifiutata, in altri assolutamente da recuperare.

Un esempio per tutti: Antoine Volodine, “Gli animali che amiamo”, ed. 66THAND2ND, 2017

Iniziato; lasciato; lo ricordo interessante, curioso. Disturbante? Lasciato perché? Forse perché stavo leggendo un altro libro per me importante; forse perché – ma dovremo, nel caso, parlarne – uno scrittore, una storia, storie, decisamente, cosa? Di cui parlare, credo. Un suo editore descrive Volodine come “il più inclassificabile degli scrittori francesi contemporanei.

Poi, certo, il disordine. Nella testa.