La scelta di un libro; segue

Vorrei riprendere da dove ero rimasta; dal pensiero sui libri capaci di superare il tempo. Al solito, è un tentativo per riconoscere, per trovare, un sentiero e non vagare, perduta, nel mio personale bosco dei libri, a rischio di incontrare il lupo – anche se, perché no: da un po di tempo gli incontri interessanti si rarefanno.

Come avevo cercato di dirlo, quel pensiero confuso? Dov’ero rimasta? Mentre fatico a tenere il segno.

Provo a riprendere da qui:

È un tempo per libri che lo possano superare, che abbiano alla base la struttura che accomuna, pur senza necessariamente rivelarlo, il mito, la leggenda, la fiaba; è il tempo dei cantastorie.

Come si individuano questi libri? È facile: sono quei libri che verrebbe voglia di leggere ad alta voce ad un piccolo gruppo; di ascoltare da una voce, in compagnia. Sono i libri che possiedono la struttura del racconto, del parlato – si va dalla breve novella alla saga senza fine, non fa quasi differenza. (Qui)

E perché no al romanzo narrato in prima persona, alla storia familiare.

Ed eccomi, mentre continuo la lettura di Il narratore, di Walter Benjamin (qui) ho terminato la lettura di “Il pellegrino incantato” di Nikolaj Leskov (libro incredibile, unico nel suo genere, almeno per me; e dovrò cercare di raccontarne) finendo presa dal bisogno di narrare e ascoltare: e leggere? Che è quella cosa che si fa da soli, rannicchiati dentro una bolla di luce circondata dall’ombra.

Ora, non so bene. È come se i due mondi danzassero insieme, come si richiamassero l’un l’altro, il mondo del racconto, mondo della condivisione, dell’oralità e il mondo della lettura in dialogo con se stessi.

Sono la sola a diffidare di coloro che non leggono a letto, la sera, per addormentarsi? Nel momento in cui sai, in cui è davvero certo che nulla, nessuno, se non gli occhi che desiderano chiudersi e la mente che resta a cullare un pensiero, una domanda o un mondo fin dentro al sonno e al sogno, interromperanno l’esperienza?

Ci sono, con i libri che conducono oltre il tempo, i libri che portano al viaggio, ad incontrare genti diverse, gli altrove del mondo, di oggi e di ieri – Leskov! Come comprendere quel mondo, quell’incredibile mondo russo ottocentesco. Di cui rimane: cosa? Qualcosa, molto, è certo.

Com’è che li comprendiamo? Come si realizza l’incontro con quei luoghi, con quel tempo, regnante Nicola I al punto di massimo splendore dell’impero dove vivevano quelle piccole grandi genti diverse, appartenenti a luoghi segnati da un altro assoluto? Il dialogo sarà tale, o trasmutato da ogni lettura che incontri il nostro tempo e la nostra personale traduzione?

Ognuno di noi si reca in visita presso altre genti, dentro altri tempi, senza portare doni. E viene accolto con doni speciali, che implicano l’obbligo a restituire – a noi la scelta dei modi in cui farlo, attraverso parole, gesti, pensieri, scelte, incontri inattesi.

Avviene, che l’incontro con il libro non funzioni. Che il dono venga rigettato. Pure, contestualmente avviene che, attraverso il gesto del respingimento, abbia luogo, inevitabile, il riconoscimento; la possibile apertura a un tempo e a un luogo altri.

Avviene, di necessità, perché tutto si restituisce, tutto si “tramanda”, anche il respingimento, lo si sappia o meno, lo si voglia o meno. Non a qualcuno in particolare; neppure volendolo fare, immagino, perché il narrare è consustanziale all’essere, ne è cosignificante, poco importa il come ciò avvenga. Non necessariamente attraverso un libro, lo strumento principe.

Siamo, tutti, un racconto. Il mondo, tutto ciò che esiste alla vita, lo è.

Il bello è che, lungo questa via, i doni del libro verranno restituiti anche a chi non legge; e se ne potrebbe sorridere, a pensarci. Chi lo dice, ora, a quelli là, e pare ne girino tanti, o quantomeno pare facciano molto rumore (sono davvero tanti, o lo sembrano?) che odiano/amano/insultano/ invidiano forse “i sapientoni” che frequentano i libri? Chi glielo dice che, senza saperlo, vengono contagiati dalle letture altrui? Impregnati di saperi, emozioni, bisogni, risposte che hanno dovuto, a modo loro, riconoscere per poter dire che no, non li accettano, quei doni, non li accolgono; e che nulla vorrebbero restituire.

Si tratta di un continuum, credo; non ci può essere un noi/loro/altri, come insiemi ben definiti cui appartenere, che separino, come universi-bolla in cui vivere, coloro che hanno letto senza saperlo e ne hanno involontariamente colto i frutti da coloro che leggono e dai libri traggono gioia, allegria, commozione, tristezza; sperimentando incontri e possibilità di immaginare il mondo; ben separati a loro volta da coloro che non frequentano le storie e invece studiano, tanto, centrati ossessivamente su di un pezzetto di realtà da scansionare all’infinito, sempre quello, di cui conoscere tutto il possibile, e ancora e ancora.

Non c’è scampo. Conviviamo con i mondi altrui e ci ritroviamo tutti figli bellamente meticciati dell’umanità.

Ammetto. Può far paura. Leggendo Leskov l’ho sperimentata: una bella, utile paura, devo dire, ma pur sempre tale. Affascinante. Nutriente.

Resta quel fatto: siamo tutti, sempre, a qualunque <mondo> si appartenga, gente che riceve e restituisce. Gente che è una narrazione; che diffonde storie che la scrittura immagazzina, e restituisce, con scadenza a volontà.

Non ogni storia è nutriente, occorre dirlo: ci sono storie-veleno, da cui non sarà facile, e potrebbe risultare addirittura impossibile, difendersi, tanto più se ci troveremo tra gli inconsapevoli delle proprie letture, tra coloro che assorbono la temperie del tempo e verranno raggiunti dai Protocolli dei Savi di Sion senza mai averne avuto notizia. Saremo, allora, inconsapevoli avvelenatori di pozzi in una narrazione del mondo dove anche l’aria, l’acqua, fanno parte del ciclo del dare e ricevere, sono relazioni tra viventi, dove la quota di racconto, in forma di costruzione e vitalità culturale, costituisce la sostanza di una, non sempre buona, presenza nel mondo.

Al solito, lascio il sentiero segnato e mi ritrovo a seminare, a inseguire a casaccio, pensieri confusi. Se qualcuno è arrivato fin qua, chiedo venia. Non riesco a liberarmi dall’idea che il pensiero, specialmente se confuso, sia un seme: che talvolta, poche volte, è vero, ma talvolta, sboccia, e magari, prima o poi, regala una fogliolina.

Cerco di riprendere da dove ero rimasta – dal recupero del racconto, dal bisogno di produrre e ascoltare storie, che sono il momento, perenne, da cui tutto si origina.

Torna alla mente (dove è sempre rimasto, proprio in forza di un respingimento) un libro, “Le benevole” di Jonathan Littell, di cui ho scritto (sono ormai trascorsi quattro anni), preannunciando la volontà/possibilità di non completarne la lettura mentre sapevo che tale scelta non avrebbe potuto essere <per sempre>.

“Fratelli umani, lasciate che vi racconti com’è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l’assicuro. Rischia di essere un po’ lungo, in fondo sono successe tante cose…E poi vi riguarda, vedrete che vi riguarda. Non dovete credere che cerchi di convincervi di qualcosa; in fondo, come la pensate è affar vostro. (…) A lungo uno striscia su questa terra come un bruco, nell’attesa della diafana e splendida farfalla che porta in sé. E poi il tempo passa, la ninfosi non arriva, rimani larva, desolante constatazione ma che farci? Certo il suicidio resta un’opzione. Ma per la verità, il suicidio non mi tenta…”

È stata una lettura sospesa (qui) che ora mi sta richiamando (forse) in forza dei tempi, del loro evolvere in una certa direzione; in forza della speranza che, dopotutto, la ninfosi dell’umanità si compia? Quando non pareva il caso di sperarci più? Chissà.

Resta una domanda che, a proposito del libro mi sono posta, allora, a proposito del <dovere> di NON leggere un libro e dell’<obbligo> a leggerlo che ne deriva: perché sempre di ciò si tratta, del necessario dover <porre>, e dunque riconoscere, dover <DIRE> che qualcosa <È>; e dunque ascoltare – perché se <È>, è <Racconto> – ciò che si vuol negare.

Il non farlo comporterà la pena, non accessoria ma sostanziale, di non poter dar luogo alla parola magica – NO – mentre una narrazione distruttiva, un nutriente velenoso agirà in forza del suo non essere stato riconosciuto, e ascoltato; e non aver potuto, con ciò, venir respinto.

“Le Benevole”. Il romanzo narra, in prima persona, la vita di Maximilien Aue, un ufficiale delle SS, personaggio di invenzione che, rifugiatosi in Francia al termine della guerra, vive una tranquilla vita borghese senza che mai il segreto della sua vita precedente venga scoperto; e racconta, per sé. Forse.

E’ il racconto di un ‘non pentito’, una storia vista dalla parte del criminale. E della sua proposta ‘normalità’.

Le Benevole sono Aletto, Megera e Tisifone, le Erinni della mitologia greca, divinità della vendetta, la cui furia colpirà coloro che avranno compiuto atti di violenza e ingiustizia soprattutto verso i familiari, verso le persone cui è dovuto affetto e cura; che diverranno le Eumenidi, le Benevole, per l’appunto, dal nome teso a placarne la giusta furia solo quando la giustizia avrà ristabilito l’equilibrio che la violenza aveva rotto.