Era ieri, ed era Belleville

Romain Gary (Émile Ajar), “La vita davanti a sé”. Illustrato da Manuele Fior, Neri Pozza 2018. Prima edizione francese 1975

 

 “Per prima cosa vi posso dire che abitavamo al sesto piano senza ascensore e che per Madame Rosa, con tutti quei chili che si portava addosso e con due gambe sole, questa era una vera e propria ragione di vita quotidiana, con tutte le preoccupazioni e gli affanni. Ce lo ricordava ogni volta che non si lamentava per qualcos’altro, perché era anche ebrea. Neanche la sua salute era un granché e vi posso dire fin d’ora che una donna come lei avrebbe meritato un ascensore.”

Una narrazione in prima persona, che inchioda il lettore all’ascolto, che non accetta di venir interrotta. Perché di ascolto, in effetti, si tratta. È un romanzo-racconto, con la voce di Mohamed, un ragazzetto, musulmano; detto Momò (lui preferisce).

Di sé. Momò dice di essere un “figlio di puttana” che vive presso Madame Rosa, una vecchia grassa ex prostituta che accoglie, a pagamento (ma se occorre, se alla fine nessuno paga più, anche no) bambini di colleghe in attività: lo fa per vivere, e per sottrarre i bambini al malvagio destino dell’assistenza sociale e dell’orfanotrofio.

È il primo libro (e non sarà l’ultimo) di questo autore che leggo, ancora una volta incrociando, in corso di lettura, un rimando di Pina Bertoli (qui) cui rinvio per informazioni sullo scrittore e la sua opera.

L’incipit ci dice, da subito, molto del libro: una voce narrante ingenua e scafata ci dice che sorrideremo, e anche molto. Non ci dice tutto il dolore cui, leggendo, andremo incontro; un dolore che il sorriso lenisce: sarà un sorriso-medicina che, come tale, dovrà venir dosato, per il protagonista e per il lettore-ascoltatore; che curerà, lasciando al palato un retrogusto di amarezza.

Siamo a Parigi, quartiere Belleville, intorno ai primi anni ’70.

Attraverso gli occhi di Momò, attraverso i suoi dispiaceri, attraverso i problemi, le domande che pone e si pone; attraverso le risposte che gli vengono date e che si dà, per fare ordine nel suo mondo, entreremo nei luoghi che, quasi vent’anni dopo, saranno teatro della saga della famiglia Malaussène, di Daniel Pennac.

Recedendo invece di pochi anni, ma non di molto, eccoci nel mondo di “Zazie nel metro” di Queneau (1969); e a guardarlo con altri occhi.

Belleville: un mondo; tempi diversi, occhi diversi che lo leggono – tante le sfaccettature – con le vite, gli affetti e i loro modi, le storie e i personaggi; per una continua fatica del vivere, con dolore e allegria. Un mondo che condivide, solidarizza, ingloba, fedi e culture; risorse diverse per tutti e per ognuno.

Al di fuori, c’è l’altro mondo: ci sono il benessere e la legalità; c’è il luogo, appena accennato, dell’assistenza sociale.

Si sorride, e tuttavia sempre meno. Ma è inevitabile e Momò, che tutto fronteggia, fragile e sbruffone, lo sa bene. Lui mette in conto il dolore. Lo trattiene e lo espelle, mai davvero, mai del tutto, come fa una spugna con l’acqua.

Lo normalizza a modo suo: se ne fa una ragione e guarda, ad occhi ben aperti, alle ragioni degli altri. Di ognuno, vede la bellezza. Vede la bontà. Anche nelle difficoltà, che hanno sempre un loro perché.

“Per molto tempo non ho saputo che ero arabo perché non c’era nessuno che mi insultava. L’ho saputo soltanto a scuola.”

Non è stato un problema. Non davvero.

Età incerta, dieci anni, pressappoco, momentaneamente assegnati. La scuola viene presto interrotta perché, pare, l’età dichiarata non risulta congrua: e Momò frequenta le strade del suo quartiere, la sua gente, che è sempre altra gente, che vive solidarmente dentro relazioni ricche di tante identità ognuna delle quali regala saperi, vicinanza, aiuto.

Momò racconta, di sé e degli altri che, ognuno a suo modo, sono famiglia, sostegno e appartenenza.

Racconta –  meglio dire, butta là informazioni, chiacchierando di sé e dei suoi problemi, ponendo domande sui tanti perché della vita – i suoi anni e l’amore per e di Madame Rosa; ne lascia intuire, per accenni, la vita di ebrea polacca, reduce da Auschwitz; che tiene, sotto il letto, un ritratto di Hitler:

“Quando le cose andavano male, lo tirava fuori, lo guardava, e andava subito meglio”.

Racconta i suoi dispiaceri, quelli grandi, e le strategie utili a fronteggiarli. Racconta quelli degli altri: e tutto si ridimensiona.

Ci sono i molti personaggi che entrano in una storia sostenuta dal coro. Di volta in volta, Momò accende un riflettore e illumina un personaggio – mentre vive esperienze e organizza le proprie idee; mentre cresce e impara a vivere.

C’è sempre qualcuno da cui ricevere aiuto; c’è sempre qualcuno di cui ci si deve occupare.

C’è il sig. Hamilche ha fatto il venditore ambulante di tappeti per tutta la Francia e ne ha viste di cotte e di crude. (…) ha dei begli occhi che dispensano del bene tutto intorno. Era già vecchio quando l’ho conosciuto e dopo ha sempre continuato ad invecchiare”.

Il signor Hamil ringrazia sempre Dio perché gli conserva la memoria, e gli consente di non dimenticare Djamila, la ragazza che per un breve tempo aveva amato e che poi era partita.

Basta un amore, che si è interrotto, a riempire una vita? Momò chiede:

“Signor Hamil, si può vivere senza amore?”…. “Sì” – ha detto, e ha abbassato la testa come se si vergognasse. Mi sono messo a piangere.”

Ci sono i neri di rue Bisson, che vivono in tribù, “come fanno in Africa”.

C’è il Mahoute, amico di Momò, più grande di lui che, come sempre fanno gli amici più grandi, gli spiega la vita.

C’è Madame Lola, il travestito, un senegalese ex campione di box che “aveva accoppato un cliente al Bois che come sadico era cascato male perché non poteva mica saperlo. Madama Rosa era andata a testimoniare che proprio quella sera era andata al cinema con Madame Lola e che dopo avevano guardato la televisione insieme.”

Ci sono i bambini di Madame Rosa.

C’è Moïse, il più piccolo, che “era biondo con gli occhi azzurri e non aveva il naso segnaletico”; c‘era Banania “che si sbellicava sempre perché era nato di buon umore”.

“Ve lo dico io, quel birbante non era di questo mondo, aveva già quattro anni ed era ancora contento.”

 C’è Michel, vietnamita, i cui genitori, come quelli di Banania, non si erano fatti più vivi e non pagavano più. Madama Rosa minacciava di mandare Michel al Brefotrofio.

 “Sono le solite storie di bambini che non avevano potuto farsi abortire in tempo e che non erano necessari” dirà Momò.

Il tema di chi non paga va e viene. Una volta o l’altra può riguardare tutti ma, c’è sempre un ma:

“Penso che Madame Rosa avrebbe anche messo Banania al brefotrofio, ma non il suo sorriso e siccome non si poteva dare l’uno senza l‘altro era costretta a tenerseli tutti e due. Toccava a me portare Banania nei pensionati africani di rue Bisson perché vedesse del nero, Madame Rosa ci teneva molto. “

C’è il dottor Katz, il medico del quartiere, che cura e sorveglia e si arrabbia. Anche lui è vecchio ormai, e le scale della casa di Madame Rosa sono un problema.

C’è la vita, e ci sono tante domande, e tante cose da imparare – ascoltando, osservando, traendo deduzioni.

Madame Rosa spiega a Momò che lui e gli altri erano fortunati a non conoscere le madri “perché alla vostra età c’è ancora la sensibilità, e loro sono delle puttane spudorate, roba da non crederci. Tu lo sai cos’è una puttana?

È una che si guadagna da vivere col culo.

Mi domando dove hai imparato delle mostruosità di questo genere, ma c’è molto di vero in quello che dici.”

Anche voi, Madame Rosa, vi siete guadagnata da vivere col culo quando eravate giovane e bella?

Ha sorriso, le faceva piacere sentir dire che era stata giovane e bella.”

C’è anche un cane. Dove si capisce il grande dolore necessario quando si vuole bene.

Personaggio di un momento, il cane; un piccolo episodio. Centrale. In cui c’è tutto Momò, la sua singolarità, con tutto il suo mondo.

E c’è una storia. Di cui nulla è opportuno raccontare. Occorrerà leggerla.

Manuele Fior

Rimane la sofferenza, dopo aver letto questo libro. Una sofferenza che, tuttavia, non spegne il sorriso. Che riguarda, anche, una realtà – Belleville, nel caso; ma potrebbe essere un’altra realtà-calderone culturale di una qualsiasi grande città, dove è nata, e vive, una comunità capace di arricchirsi nella differenze ma dove, al di fuori degli abbellimenti letterari, non solo la vita è difficile, la violenza è di casa e la sofferenza è la norma, ma dove, nella realtà non letteraria, le cose non vano a finire bene; non per uno, non per tutti.

La finzione letteraria consente che ciò avvenga. Con una leggera forzatura; in cui, giustamente, l’autore lascia uno spiraglio al forse.

Un libro assolutamente da leggere.

L’editore Neri Pozza ne ha fatto anche una bellissima edizione illustrata, ad opera di Manuele Fior. Tra l’altro, un autore di graphic novel molto interessante.