Un filone narrativo ancora vitale, tra storia e cronaca.

Stefania Auci, “I leoni di Sicilia. La saga dei Florio”, Editrice Nord 2019

Da un anno questo romanzo è campione di vendite sul mercato italiano e non solo. Venduto, riferisce la casa editrice, in cinque paesi stranieri ancor prima della sua uscita italiana in libreria.

Vale a dire che si tratta di un romanzo sul quale la casa editrice ha scommesso, investendo sul suo lancio commerciale: e sul quale ha vinto.

L’autrice, non alle prime armi è (era) tuttavia non nota nel panorama letterario italiano. Riferisce lei stessa, in un’intervista, di scrivere ormai da dieci anni:

 «Vengo dal mondo dell’editoria di genere – racconta – facevo romance quando Harper Collins si chiamava ancora Harlequin, ma i romanzi sentimentali mi stavano stretti; così ho cominciato con la narrativa storica, prima con Florence e ora con I leoni di Sicilia…» (qui)

Una che ama scrivere, dunque. Che vuole scrivere; che ha lavorato per affinare i propri strumenti, giungendo a realizzare un’opera di grande respiro – sempre da lei sappiamo di un lavoro di ricerca, di documentazione, prima ancora che di scrittura, durato ben tre anni.

Interessante anche la scelta della narrativa storica. Si tratta di un campo particolare nel quale, in effetti, il lavoro di ricerca, documentazione, studio, è fondamentale, e indica un impegno che oltrepassa, nella motivazione alla fatica, improba, della scrittura, sia la motivazione autoreferenziale dello studio-comunicazione di sé sia la motivazione del piacere-bisogno di dar corpo alla fantasia, all’inventività, per impegnarsi nella narrazione di un mondo, e del proprio mondo.

È una scelta che mi pare indichi un preciso e assoluto impegno nella scrittura: quasi non importa su cosa, pure se, ovviamente, nello scrivere ognuno riversa sé, i propri punti di vita sul mondo, le proprie emozioni, i propri bisogni.

Stefania Auci ha lavorato a perfezionare una sicura, affidabile professionalità: non è poco. Il risultato è un romanzo dalla scrittura efficace, pulita, controllata. Un buon libro; che si legge con piacere.

Il tema è, a sua volta, attrattivo. La storia della famiglia Florio – il percorso (cui seguirà la caduta) di una famiglia che ha incrociato, e per una parte, caratterizzato, nel suo percorso imprenditoriale e non solo, la storia d’Italia – si colloca a buon diritto tra i miti italiani.  Si sceglie il libro, si legge, e il pensiero va, immediatamente (e, nelle interviste rilasciate, vi fa riferimento l’autrice stessa) a “Il Gattopardo”, a “I Viceré” a “I Malavoglia”. Certo, si tratta di riferimenti a opere che hanno superato la prova del tempo ma, proprio perciò, si tratta di modelli, per un romanzo che, per certi versi, ha un sapore rétro (che peraltro aiuta ad incontrare il gradimento dei lettori).

Ho atteso a leggere questo libro. Lo incontravo, proposto, recensito, approvato; ne ero attratta eppure, non so perché, mi tratteneva dal leggerlo una qualche riluttanza: in libreria, allungavo la mano nel gesto del prendere per ritrarla vuota. Passavo oltre, rinviavo, persino nei momenti in cui desideravo, cercavo, un libro con cui intrattenermi, in relativa leggerezza, e vedevo questa scelta come perfettamente adatta allo scopo.

Pur senza attendere il capolavoro assoluto, non avevo, in effetti, dubbi particolari sul libro. Il favore del pubblico che si unisce a quello della critica, corrisponde solitamente alla realtà dei fatti.  Mi sono decisa, a seguito del parere ampiamente positivo di un’amica ottima lettrice: era sera; l’e-book della mezzanotte e oltre ci stava bene.

Mi sono ritrovata tra le mani un buon libro, opera di un’autrice di ottima scrittura, capace nella narrazione così come nella costruzione di personaggi a tutto tondo; sostenuto da una collocazione storicamente accurata.

La scrittura, dicevo: controllata e scorrevole, anche nei luoghi comuni che definiscono i personaggi di secondo piano (i nobili palermitani dovutamente “spiantati”, i riti del commercio consolidati dalla tradizione e dalla separazione per classe sociale; la putiedda, la botteguccia, con tutta la complessità sociale che viene considerata una specificità del mondo siciliano tradizionale ma che, per la verità, mi pare ritrovabile, mutatis mutandis, in ogni altra realtà regionale italiana, quantomeno fino a non molto tempo fa, e forse ancora.

“Conoscono questo modo di lavorare da generazioni, e così continuano a fare. (…) Non hanno mai creduto di poter andare oltre. Quindi…Si sono fermati a ciò che hanno. A una putiedda.”

Salvo poi veder emergere (vale per ogni parte d’Italia) grandi talenti imprenditoriali che contraddicono la generalizzazione con forza uguale e contraria al pregiudizio; dove si confondono l’osservanza formale di rituali sociali con i progetti, le capacità, la volontà del singolo.

E infatti:

«I picciuli non mentono, si dice; la robba non ha parole false. Sono gli uomini ad avere quattru facci.» E ciò che gli procura il piacere maggiore, più del corpo di una donna – che pure ha imparato a conoscere in Inghilterra – o di una bottiglia di vino, o del cibo, è il suo lavoro. Il guadagno. Quanto al riconoscimento sociale, non importa il tempo che dovrà metterci per ottenerlo, lo avrà.”

Le voci che parlano sono, nel primo caso, quella di Ingham, l’amico, socio e concorrente inglese che ha portato in Inghilterra con sé, per quello che oggi chiameremmo un viaggio di studio, Vincenzo Florio, il nipote di Ignazio e figlio di Paolo, fondatori dell’azienda.

Vincenzo, in predicato di assumere il comando di seconda generazione delle attività della famiglia Florio, studia, primo nella sua famiglia.

La seconda voce è quella dello stesso Vincenzo, alle prese con lo sviluppo delle proprie attività e che, con i picciuli, sta salendo la scala sociale ma non può ancora far dimenticare le proprie origini; che ama, forse riamato, la giovane baronessina Isabella Pillitteri ma resta, per la baronessa madre, il figlio di una famiglia di facchini e portarobbe.

Tutto era cominciato a Bagnara Calabra, 16 ottobre 1799 quando il terremoto travolse, ancora una volta, il paese, distruggendo cose e persone, annientando ogni faticoso percorso alla costruzione di un sia pur limitato benessere.

I fratelli Paolo e Ignazio Florio, che a Palermo possiedono una putiedda di aromi, decidono di partire e ricominciare in una terra solida, e ricca di opportunità.

Lasciano tutto, trascinando in un inatteso “esilio” Giuseppina, la moglie di Paolo, che da quel momento odierà il marito per averla strappata alla propria terra, alle proprie relazioni, al proprio mondo.

Il resto è storia: della Famiglia Florio, del Regno delle Due Sicilie, di quel tempo che vide il controverso regno di Ferdinando II passare dalla iniziale spinta alla modernizzazione – “Si crea il primo sistema pensionistico d’Italia e si dà inizio alla prima rete elettrica d’illuminazione pubblica.” – alla conservazione e all’assolutismo, in risposta, anche, ai moti del 1833 e 1834; e alle tendenze autonomistiche della Sicilia.

La storia dei Florio si intreccia con la storia del Risorgimento italiano. Le pagine scorrono. Lo sguardo dell’autrice si sofferma su due figure femminili – Giuseppina, moglie di Paolo, e la nuora, Giulia, moglie di Vincenzo – ritratte senza indulgere a interpretazioni agiografiche: figure forti, con aspetti controversi; figlie del proprio tempo e, insieme, capaci di superarlo; capaci di affiancare e sostenere la lotta familiare per il riscatto sociale, prima, per la preminenza poi, senza abdicare, pur forzate dentro i confini di un ruolo, ai propri personali obiettivi di realizzazione.

Un buon libro, dunque. Lo ripeto. Domani, prevista una gita in libreria, per acquistarne la copia cartacea.

Pure, mi ritrovo costretta a chiedermi: cosa, in questo libro, mi lascia, se non insoddisfatta, sicuramente preda di una leggera indifferenza?

L’autrice ha in preparazione il secondo libro, che chiuderà la “Saga dei Florio”. Perché penso che, se pure solo forse, potrei non leggerlo? Diciamo che, quantomeno, non lo sto attendendo con ansia.

Mi viene alla mente un’altra pregevole autrice la cui scrittura e le cui storie mi hanno procurato una reazione analoga: Elena Ferrante di cui non ho amato, tanto da aver interrotto la lettura con il secondo libro, la serie di “L’amica geniale

Ferrante è un’autrice che, dopo un primo approccio, non ho più letto: non, semplicemente, perché il suo libro non mi sia piaciuto – ci sono grandi capolavori che non amo ma che riconosco perfettamente come tali – ma perché ho sentito quei libri come qualcosa di già dato, come una storia già consumata, ecco.

Mantengo il sospetto di un giudizio errato, e mi ripropongo periodicamente, di leggere “L’amore molesto”; senza tuttavia arrivare al desiderarlo.

A differenza della saga Ferrante, “I leoni di Sicilia” sono stati una storia che ho letto con piacere, senza particolare coinvolgimento e tuttavia senza alcuna tentazione di lasciarlo.

E credo, pensandoci meglio, che leggerò sicuramente il prossimo libro non appena uscirà: per scrittura, capacità, da questa autrice è lecito attendersi molto.

Ora, tuttavia, mi è sorto il desiderio di rileggere Federico De Roberto, “I Vicerè”. E il Giovanni Verga di “I Malavoglia”, che da molto più tempo non leggo.