Sono, questi, giorni in cui, almeno nell’immaginario, chiusi in casa, magari pure in pigiama, si legge, si scrive: nell’immaginario, perché poi, no, non è così.
C’è qualcosa che non torna, in questi giorni, nel leggere, nello scrivere; c’è molto di strano nel ritagliare, dentro la propria giornata, uno spazio di “normalità” – non che ci sia qualcosa di veramente “normale” nel leggere; non parliamo poi dello scrivere. Ma sarebbe un lungo discorso.
Quale tempo potresti ritagliare se, essendo sola o giù di lì, ti trovi a vivere ore collocate nel nulla di un tempo ciondolante e vuoto, o a vivere un tempo estenuante, agitato ed esasperante, se in casa rinchiusi ci sono bambini, o persone in uno stato di dipendenza – con tutte le varianti possibili tra un estremo e l’altro, dal tragico al grottesco. Divertente, temo quasi mai. Solo talvolta.
Si viene catturati dalla necessità, impellente, di vivere relazioni e via a telefonare, e vai a ricevere telefonate. Non c’è nulla che ti risvegli esigenze incoercibili ad uscire come l’essere obbligati a rimanersene <in pace> a casa propria, a fare le proprie cose, senza impegni sociali di alcun genere.
Ci prende la furia, il bisogno di vedere, almeno di sentire, quella lontana parente scordata da anni (“è seconda cugina della nonna o del bisnonno?”), di aver notizie di quegli amici di un tempo, che non vedi da anni e con cui da anni neppure più scambi gli auguri di rito, Pasqua Natale Capodanno – compleanno scordato – perché le cose vanno così, non c’è un perché; ci si perde di vista e poi, niente, sarebbe bello risentirci ma non avviene.
Ci prende il bisogno, incontenibile, di trascorrere del tempo in quella libreria a trenta chilometri da casa, non c’è Amazon che tenga, e meno che mai una casa stracolma di libri la maggior parte dei quali, ad esser buoni, avrebbe titolo a costituire una “nuova lettura.”
Insopportabile la voglia di prendere l‘auto e darsi a una bella corsa, in solitaria; in libertà, senza tempi prescritti, magari anche tirando un po’ il motore (gli fa bene, gradirà); la voglia di sgommare su qualche curva, in salita, lungo una bella strada di montagna, così, giusto per sentirlo cantare, quel motore.
Mi manca l’auto in solitaria. Chissà se la so ancora fare una bella corsa. Di quelle proprio belle.
Poi mi regalerò una sosta, non troppo breve, una fetta di apfelstrudel dove so io, oppure una fetta di sachertorte.
Un passaggio alla toilette e si riparte, sulla via del rientro e giù, qualche curva in derapata, il motore che canta, no, per la verità protesta ma appena un po’, giusto per tener vivo il colloquio e venir accontentato; ecco, ora la vallata si è aperta, il rettilineo, panoramico, invita a rallentare, ad andare così, piano, in scioltezza.
Quello dietro si innervosisce – “e passa! Non lo vedi? Non c’è quasi nessuno. Ce la fai, dai! Vattene!”
Incredibile quanti sogni si possono fare dal divano! Pure, non so, non c’è questa gran soddisfazione.
Sonnecchio. Da cittadina responsabile: e chi si muove!
Il divano è quello di sempre; manca solo il libro giusto!
Clic. Mi ritrovo tra le mani Il Decameron. Un e-book leggero, comodo da maneggiare, edizione Einaudi, a cura di Vittore Branca.
Uno di quei libri che non si sono in realtà mai davvero letti. Qualche novella; una sinossi, a scuola. Le cose vanno così con questi mostri sacri.
Per fortuna ci sono buone note. Fammi rileggere, dio che fraseggio faticoso!
Poi non so. Non credo di aver le competenze necessarie per leggerlo.
Ma ci pensi? Quel buon uomo di Boccaccio, quel figlio illegittimo cui è andata alla grande, dopotutto, a fare l’intellettuale, a scrivere, frequentare, guadagnare poco ma insomma. Quello là, dico. Quando ha scritto il Decameron avrà pensato ad essere letto, non glossato, immagino. Lui non lo sapeva che sarebbe diventato un monumento. Magari gli sarebbe piaciuto, forse ci avrà fatto dei sogni ma anche no. Non ci sta proprio che uno scriva un libro ad alto rischio di censura per essere apprezzato e omaggiato da chi conta, dall’ordine costituito, vedi Il Papato, proprio no.
Mi piace pensare che volesse solo essere letto; per dilettare madonne lettrici (bello, vero?) e non solo; per dire qualcosa, rinnovare qualcosa, lanciare idee e poi, al fondo: credo gli piacesse, anche, spettegolare.
Perché dunque farsene intimidire.
La peste di Firenze del 1348. Settecento anni fa.
Tra chiacchiere ed amenità Giovannino, nel Proemio, ce la racconta da brivido. Quasi quasi passo oltre. Me ne vado subito in campagna con la combriccola, a godermi l’aria buona e la buona compagnia, ad ascoltare e raccontare storie; e a dedicarmi, ma davvero, al dolce far niente, al prendermi cura di me.
Il Proemio.
Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta Neifile ed Elissa si incontrano in Santa Maria Novella un martedì mattina, “tutte l’una all’altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà.”
Sette belle donne, di età non proprio ancora in tempo utile per trovare un marito – il curatore fa notare che, al tempo, una ragazza già a dodici anni iniziava ad esserlo e che i matrimoni avvenivano solitamente tra i quattordici e i diciotto anni.

Un gruppetto di felici quasi zitelle, dunque, che inducono senza alcuna fatica tre uomini giovani bellocci e nullafacenti ad accompagnarle in una villa di campagna ove, se non avrebbero potuto proprio proprio fuggir la peste, quantomeno avrebbero potuto non esser circondate dai cadaveri che “impestavano” (per l’appunto) le strade di Firenze.
Panfilo, Filostrato e Dioneo, morosi, per altro, di tre delle ragazze, dunque non ancora rassegnate alla zitellaggine; o quantomeno interessate a viverla in modo piacevole – mentre l’autore connota come “leggiadra” la loro “onestà” suggerendo, da subito, il tono dell’opera: siamo in un tempo nuovo, laico, piacevolmente scandaloso. Un mondo in cui parlare dell’amore. E della morte. Come evitarlo.
C’è questa bella dedica alle donne, per le quali le novelle sono state scritte. Reduce da una pena d’amore, infatti, Boccaccio rileva come tali pene siano più dolorose per le donne che per gli uomini poiché…
“Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi di alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare”.
Alle donne mancano questi sostegni, private come sono dalla possibilità di accedere alle stesse fonti di distrazione. Senza contare che esse sono più fragili, e dunque vittime di pensieri che non potranno esser sempre allegri.

Giovanni Boccaccio si propone dunque di scrivere “cento novelle o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in dieci giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto” (e insiste, davvero molto, sull’onestà d’intenti della lieta compagnia: excusatio non petita?) da cui le donne potranno trar piacere, ma anche insegnamento, alleggerendo così il peso dei loro pensieri e dei loro dispiaceri.
E conclude, sornione, che se ciò avverrà, dovranno render grazie…
…“a Amore il quale liberandomi dai suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri.”
Ora, se io leggo e gusto queste pagine oggi, nel mio tempo; e se il libro possiede ancora una sua piacevolezza, e non è ridotto a palestra di esercitazione per costruttori di monumenti, come non dire, di quest’uomo “che figlio di buon padre…”?
Cosa leggere, mi chiedevo, in un tempo come questo. Recensire, poi, non ci sta proprio. Non in giorni come questi (ameno finché non cambio idea e non mi capita il libro giusto)
Allora, ecco cosa: mentre leggo quel che leggo, mi piacerebbe condividere, qui, una o più novelle al giorno, o magari ogni qualche giorno; farci sopra un po’ di chiacchiere, con lo sguardo incompetente della lettrice di oggi che, ho ben già visto, è perfettamente in grado di gustarle, di ridere, di commuoversi e quant’altro, magari con commenti che il Giovanni Boccaccio non si sarebbe atteso ma certo senza la reverenza che non avrebbe potuto prevedere.
Spero che qualcuno abbia voglia di spettegolare con me.
Dentro queste novelle ci stanno, infatti, non solo ma anche, un bel po’ di indiscrezioni, malignità, fatti di cronaca, mascherati ma insomma – o almeno così mi pare.
Poi la campagna fiorentina è un bel posto dove starsene, dal divano:
“Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altrimenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città; e èvvi, oltre a questo, l’aere più fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia maggiore e minore il numero delle noie.”