Veduti da occhi altrui…

Michail Bulgakov, “Cuore di cane”, Traduzione di Viveca Melander, Newton Compton 1975.

 

Lasciato il topolino Algernon, andando a ritroso mi sono ritrovata tra le mani Cuore di cane” (1925): non lo rileggevo da molti anni (decenni?) e se le due storie non hanno alcun rapporto tra loro, qualcosa tuttavia c’è, come buona e giusta conseguenza della riscrittura che ogni lettore opera di un libro che, da un tempo altro, arrivi ad abitare il suo oggi.

Ed ecco: non che, al momento in cui è stato scritto, questo lungo racconto sia stato figlio di un mondo migliore o peggiore. È stato scritto in un tempo in cui il mondo era vasto e, se in un <qui> le cose andavano male, c’era il miraggio di un <là> dove avrebbero potuto andar bene; il sogno di un <domani>; di un dopo di noi: che oggi temiamo di perdere; o che sia devastato senza ritorno, mentre insistiamo, come comunità e come singoli, a ricercare una salvezza di qualche tipo, ognuno solo, ognuno per sé.

Chi lo avrebbe potuto raccontare, a Michail Bulgakov, del mondo in cui quel suo racconto sarebbe stato pubblicato per la prima volta; del dopo un’altra devastante guerra di tutti contro tutti di cui ha visto solo un inizio – e quanto impensabile il seguito resta indicibile; in un mondo che egli non avrebbe potuto riconoscere in alcun immaginario fantascientifico – Bulgakov, dopotutto, attraverso le sue invenzioni, mostrava aspetti (e quanto concreti!) della realtà, del tempo e del luogo in cui viveva. Nessun futuro, nella sua visione, nella sua rabbia e nella sua irrisione.

C’era la sua lotta, robusta, incoercibile e irriducibile: questo sì.

Scritto nel 1925, da un medico-scrittore, “Cuore di cane”, sequestrato mentre era in via di pubblicazione in una rivista, apparirà in Italia nel 1967 – e nella sua Russia nel 1987: peraltro, la scelta di farsi censurare è stata la costante di tutta la purtroppo breve vita di Michail Bulgakov.

E chi potrebbe raccontare all’autore che il libro che oggi leggiamo non è quello che lui ha scritto: non più. Che le sue pagine ci parlano, oggi, dentro un mondo e significati che mai avrebbe potuto pensare.

O forse sì. Perché la specie umana è quella che è, e non si smentisce – ma neppure lui sapeva, non davvero, ciò che aveva scritto, credo; ciò che avrebbe trasceso il tempo in cui le sue pagine erano profondamente incistate. Gli era, credo, scappato di penna quell’essere tristemente immutabile dell’uomo che, cambiando vesti nel tempo – e non facciamoci sempre riconoscere! Per favore! vorremmo dire.

Siamo a Mosca, tempo reale – è il 1925. Morto Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, è asceso alla segreteria del Partito Joseph Vissarionovich Stalin.

C’è questo medico, Filipp Filippoviĉ, impegnato in una ricerca sul ringiovanimento del corpo. Abita un appartamento di molte stanze, è un ricco, medico per ricchi, per nulla interessato ad assimilarsi al nuovo corso russo.

Lo conosceremo bene nel suo scontro con Schwonder, il rappresentante del Comitato inquilini che vorrebbe sottrargli almeno una delle sette stanze che occupa per dare un alloggio, quattro metri quadri a persona, a chi ne è privo.  È la nuova politica dell’abitazione e Schwonder chiede giustificazione per l‘uso di tutte quelle stanze; passi l’ambulatorio, passi la sala d’aspetto ma la sala da pranzo non si giustifica. Ma il professore ha i suoi agganci e la lotta di Schwonder si scontra con la realtà del privilegio.

C’è il suo assistente, il dottor Bormental. C’è Zina, la governante di casa.

Prima, naturalmente, all’inizio di tutto, c’è lui: Il Cane, il Protagonista. Il Narratore: sua la voce che racconta, del povero bastardo magro e spelacchiato che vive in un tempo duro per gli uomini, e figurarsi per un randagio di città. E quando mai i tempi sono stati buoni per uomini e randagi.

“Uuuuhhh! Guardatemi sto morendo. La bufera nel portone mi urla il de profundis e io ululo con lei. Sono finito, finito. Un delinquente col berretto sporco, il cuoco della mensa degli impiegati del Consiglio Centrale dell’Economia Nazionale, mi ha rovesciato addosso dell’acqua bollente e mi ha bruciato il fianco sinistro. Che bestia! E sì che è un proletario! (…) Che fastidio gli davo? Non mando certo sul lastrico il Consiglio dell’Economia Nazionale se frugo un po’ col muso nella pattumiera, no?”

Malconcio, il nostro protagonista, destinato a morire per le ustioni che si infetteranno, e di fame, già lo prevede:

“…diventerò così fiacco che un operaio qualsiasi potrà farmi fuori a bastonate. Poi, per finire, verranno gli spazzini con tanto di distintivo, mi prenderanno per le zampe e mi butteranno sul carro della spazzatura.

Gli spazzini, tra tutti i proletari, sono i più vigliacchi”

Nel suo dolore, il cane osserva le persone, valuta, comprende. Sa tutto di noi. Conosce il bene e il male di ognuno. E non ha dunque speranza alcuna per sé.

Si nasconde, ma ha fame, quando incontra il ricco professor Filipp Filippoviĉ, il celebre medico che ha messo a punto un trattamento chirurgico per ringiovanire,

Il professore ha appena comperato un cartoccio di salame il cui profumo arriva al cane. È un salame fatto con carne marcia, il cane lo sa bene; è cibo buono per lui, non per gli umani. Ma …” lei non me lo darà quel salame, per niente al mondo…gli leccherò le mani, non mi resta altro da fare.”

La fortuna gira, e anche se il ricco medico lo chiama “Pallino” (si è mai sentito un nome più inadatto!), quando viene invitato a seguirlo, si trascina e, come no, si profonde in espressioni d’amore.

La vita di Pallino è cambiata. È divenuto un cane da ricchi, è stato curato, vive al caldo, coccolato e ben nutrito; ha persino il collare. È ingrassato, è bello! Si piace!

Pare una buona persona, Filipp Filippoviĉ.  A parte il suo scontro con il proletariato. Solo con la dolcezza, dice lui, si ottiene qualcosa. E, in effetti, Filipp Filippoviĉ vuole ottenere qualcosa.

Incontreremo il vecchio tema, il sogno dell’uomo di vivere e vivere, di sconfiggere la vecchiaia, e la morte. Il sogno – la volontà – di ampliare le proprie capacità: di superare il propri limiti.

Non in questo caso, per la verità, o non proprio. Qui si tratta, più biecamente, di un medico che si arricchisce su questo desiderio universale; sull’uomo che desidera ancora le belle ragazze e prestazioni improbabili; sulla signora che nega la vecchiaia raggiunta e vorrebbe tenersi il giovane amante…”un baro, professore, tutta Mosca lo sa. E corre dietro a tutte quelle ignobili modiste, non se ne perde una! Ma è giovane, così diabolicamente giovane!” Gente che paga bene.

Filipp Filippoviĉ visita, opera, e intanto canticchia – lirica, la sua passione. E userà Pallino per sperimentare un trattamento chirurgico che sta mettendo a punto. Obiettivo: ottenere il ringiovanimento del corpo umano attraverso il trapianto, da morto a vivente, dei testicoli e dell’ipofisi.

Il cane, amato e coccolato, è a disposizione per l’esperimento, pure se non lo sa. Serve ora unicamente un cadavere fresco, e cosa meglio di quel morto ammazzato in una rissa da osteria, un balordo alcolista, violento, feccia della società; un giovane cadavere fresco che potrà fornire testicoli e ipofisi.

Pallino diverrà dunque il brutto, ma umano, Poligraf Poligrafovič Pallinov, un proletario che rivendicherà i suoi diritti, ovviamente sostenuto da Schwonder e dal Comitato inquilini.

Beh, la storia non va raccontata oltre, è chiaro. Accadranno cose.

La storia, dicevo, va letta. Nulla è davvero scontato in questo racconto, se non la natura umana, e dopotutto l’avventura di Pallino finirà bene, mentre il grande chirurgo continuerà la sua attività professionale, canticchiando Verdi. Unico perdente, ma è implicito, il proletariato e la sua, diciamo lotta disarmata.

Finirà bene, dicevo: ma è un punto di vista, diciamo il punto di vista di Pallino, che sarà pure il narratore ma non è, non del tutto, il protagonista. Neppure lo pretende, direi. E se sarà, dopotutto, contento della propria sorte, non per questo avrà chiuso gli occhi sul mondo che lo circonda.

Dal punto di vista del lettore, la risata è amara, la satira trapassa dall’ironia al sarcasmo feroce senza riuscire a frenare la colpevole risata. Che fa eco a quella dell’autore, beninteso.

Di questi tempi, leggo solo storie che finiscono, si fa per dire, bene; o quantomeno non proprio male; o solo con aspetti un po’ tristi, anche se talora davvero tristi; storie che, se uno ci pensa, si possono leggere e basta, che non impongono, solo chiedono, educatamente, di esser percorse gradino dopo gradino in esplorazione dei tanti, possibili e impossibili, livelli di lettura; tanti che neppure l’autore se li sarebbe immaginati, direi. Lui era, e poi chi lo sa, impegnato a prendersela con il tradimento degli ideali socialisti, o a respingerli, non so; a farsi boicottare e non pubblicare, e insistere a far la fame. E tutto dev’essere stato davvero difficile – anche se, dopotutto, tre mogli, da poveraccio, diciamo, mostrano una gran voglia e una gran capacità di vivere, a tutti i costi. Anzi: no. A suo giudizio.

Ho voglia, ora, di rileggere “Il Maestro e Margherita”, e sarà, ne sono certa, una lettura del tutto nuova (ancora una volta, sono trascorsi tanti anni; e nessuno esce indenne dal tempo, a cominciare dal nostro mondo).

Sarà una lettura che terrò per me. Ovvio. Almeno credo.

Dimenticavo: c’è pure il film, di Alberto Lattuada, 1976. Con un giovane Cochi Ponzoni che, per la verità, risulta “troppo umano” nel ruolo di Poligraf Poligrafovič Pallinov; c’è una giovanissima Eleonora Giorgi nel ruolo di Zina, la giovane cameriera del professore. Colonna sonora di Pietro Piccioni.

Un bel film che tuttavia tradisce, a suo modo, il testo. Ma forse, nel ’76, ci stava che venissero prese le parti del Comitato Inquilini e del povero Pallinov.  A prezzo del testo.

Vero è che ogni tempo paga il suo prezzo. E forse dovrei fare attenzione a questo mio giudizio attuale.

Visibile qui su youtube.