Del leggere

“La letteratura dovrebbe non solo raccontare storie ma educare al dolore, alla gioia, alle sfumature dell’amore e della passione. Se da un libro ne usciamo illesi, che senso ha averlo comprato? La parola deve essere usata come un’arma, dobbiamo reimparare a tremare davanti alle storie raccontate. Io non voglio finire un libro e restare quella di prima. Io voglio che un libro mi cambi la vista, come un paio di occhiali nuovi per un miope. Voglio sentire che all’ultima pagina qualcosa dentro di me è stato strappato e poi restituito. Leggere una storia, anche commovente, che non mi si incolla addosso è come andare a fare un bagno in mare senza sentire sulla pelle il sale. Si va in mare per poi mangiarsi reciprocamente la pelle salata. Se volevate restare puliti stavate a casa. La lettura è uguale, leggete per sporcarvi e ripulirvi dopo.”

Il pezzo citato è tratto da una “recensione-stroncatura”, pubblicata dalla giovane poetessa Clery Celeste su “Pangea”, del libro (che non ho letto, almeno non ancora) “Cambiare l’acqua ai fiori” di Valery Perrin, ed. e/o 2019.

Titolo della recensione: Bisogna leggere per sporcarsi, per sentirsi addosso il sale. “Cambiare l’acqua dei fiori” sarà pure un caso editoriale ma non mi ha lasciato nulla. Non basta una buona storia per fare un grande libro. (qui)

La citazione mi è pervenuta attraverso una pagina facebook, dove la scrittrice Flaminia P Mancinelli-Valton (autrice interessante, di cui spero riuscirò a parlare presto) ha formulato, in proposito, una domanda:

A parte il fatto del libro specifico, di cui si parla, voi siete d’accordo con Clery Celeste? E’ questo che vi aspettate da un libro?

Desiderando rispondere, nella differenza che c’è tra il parlato e lo scritto (in particolare su di un social, dove si è, si dovrebbe essere, doverosamente, più controllati) mi sono limitata a rilevare la complessità della domanda: che tuttavia mi è rimasta dentro come un pungolo; non tanto per il quesito in sé quanto per il fatto che, in me, si è, credo, legato ad un’altra domanda su cui periodicamente ritorno: “cos’è un libro?”

Flaminia Mancinelli

Avessi dovuto partecipare a quel gioco che suona come “Dammi la prima risposta che ti viene in mente” avrei risposto con un tondo “NO, non concordo con Clery Celeste”; perché, e sono tentata di dire “ovviamente”, non è questo, quantomeno non sempre, e forse neppure di frequente, ciò che mi aspetto da un libro. A voler essere del tutto sincera, talvolta posso addirittura evitare di proposito (nel momento dato, ma in ipotesi pure per sempre: a ognuno i propri limiti e lo stabilire la misura delle proprie forze) la lettura di un libro da cui io mi attenda che ciò accada.

Lo scritto di Clery Celeste mi pare, francamente, un po’ frutto di grande e giovane passione per la poesia e un po’ frutto di posa. Ecco, sì, forse da un libro di poesia potrei attendermi di uscirne con qualche diottria aggiuntiva, sul mondo, sul tempo, sulla vita e sulla morte.

Io non voglio finire un libro e restare quella di prima. Io voglio che un libro mi cambi la vista, come un paio di occhiali nuovi per un miope”: per chi, come me, come tanti, si legge quasi un libro al giorno (facciamoci grazia delle dimensioni), mutare ad ogni sorgere del sole la propria immagine del mondo (che deve valere anche per <il proprio> mondo, e il mondo delle relazioni in cui e di cui vive, di cui ci si nutre, ottenendone identità e il necessario sentimento di permanenza) mi pare un non senso; o la catastrofe esistenziale frutto di un’esperienza psicotica. Quotidiana.

Non scherziamo. È, e non può essere se non, la frase-recitativo di chi, quantomeno, non ha messo una postilla di chiarimento al sostantivo: Libro.

Tra parentesi, non entrando nel merito dei versi di Clery Celeste (che invito caldamente ad, ancora e sempre, scrivere, curare, amare i suoi e gli altrui versi, leggendo anche quelli che non le cambieranno la vita, proseguendo nell’avere grande cura del suo dono, per sé e per noi) non posso non chiedere: è lei così sicura che ciò che scrive avrebbe titolo a venir letto e amato, qualora venissero adottati i criteri che appassionatamente espone? Come si suol dire: ai posteri…

Perché ci sono, eccome, i libri che cambiano la vita; ci sono le letture benedette da cui si emerge nuovi, con la vista acuita, pure doloranti, con i muscoli ammaccati e il respiro corto, ma consapevoli di aver ricevuto un dono, un’illuminazione; consapevoli del fatto che, dopo tale lettura, la nostra strada potrà prendere nuove vie. 

Per inciso: e non è detto che ciò avvenga perché abbiamo incontrato un capolavoro; non è detto che, in altro momento della nostra vita, quel libro sarebbe stato la parola giusta al momento giusto. Non è detto. Possiamo solo dire che, a compiere il miracolo, è stato un Libro.

Cos’è, dunque, un LIBRO? Beh, per stare ai “classici” (nel senso convenzionale di “datati”, “evergreen”, “tuttora editati”, sono LIBRI, e ottimi libri, “I tre moschettieri” e “Assassinio sull’Orient Express”. C’è qualcuno che non concorda? E tuttavia, usiamo lo stesso vocabolo – “LIBRO” – per designare…metteteci ciò che volete, vogliamo esemplificare con “Alla ricerca del tempo perduto”, tanto per rimanere nel canone e non rischiare? Per poi prendere coraggio e, affidandoci alla contemporaneità, porre “Infinite Jest” nel novero dei libri che resteranno.

Possiamo concordare, ritengo, che questi libri-esempio non si equivalgono, senza ascrivere al buon Dumas, o ad Agatha Christie, di aver provocato, con la propria opera, uno choc esistenziale al loro lettore; senza, peraltro, ritenere che le loro storie possano venir, che ne so, dimenticate, buttate al macero, considerate una non-lettura.

Dovremo persino ammettere, per converso e in quanto cosa lecita, che qualcuno non oda una voce adatta a sé dentro le pagine di Marcel Proust o di David Foster Wallace. O peraltro di Omero. Perché no. Diciamolo: ne ha facoltà.

E per la Poesia, che facciamo? Le cose si fanno più difficili, sicuramente. Non esiste “poesia di intrattenimento” – anche se, ma no, forse, dopotutto, sì – pure se esiste poesia di vario genere e – meglio sospendere il discorso, meriterebbe una chiacchierata a sé, e forse non proprio da parte mia anche se, in quanto lettrice, e per ciò solo, rivendico, nel caso, il titolo a parlarne.

Oh dio, riecco la domanda: lettrice di cosa? Si apre, forse, il tema dell’<aver letto i libri giusti>?

Recupero un ricordo; che si infiltra e, con qualche difficoltà, ma neppure tanta, porta ad un articolo di Andrea Cortellessa, del 2015, dal titolo “Poeticidio”, facente parte di un confronto. Tema il destino editoriale della poesia. (Qui)

“Perché il sistema dell’editoria capitalistica occidentale in cui mi sono formato io – figlio di piccolissimo-borghesi con in casa, nelle case, molti libri ma non esattamente quelli “giusti” – è stato, ce ne rendiamo bene conto solo adesso, una parentesi di libertà breve quanto fortunata: due o tre decenni schiacciati fra una cultura davvero elitaria e di “casta” e l’incultura di massa del nostro tempo.”

Annotazione mia: e si illude, Cortellessa, perché il disastro, che ora a me pare compiuto (ma sicuramente mi sbaglierò) ai <suoi tempi> di nato nel 1968, era già ottimamente avviato. Ed è, ovviamente, il punto di vista di chi, come me, nell’anno della sua nascita era un’entusiasta e agguerrita matricola che ancora udiva le voci, già in via di estinzione, del Gruppo ’63.

Pure se, nel contempo – sulle macerie di un canone frantumato dai mutamenti, dove una certa qual forma di anomia è ormai regola culturale condivisa delle nostre società e dentro i problemi del nostro pianeta – mi pare, oggi, e se ci sarà vita futura, di scorgere del nuovo e molto di buono dentro un giovane mondo tacciato spesso di analfabetismo funzionale da una élite autoreferenziale, che è morta e non lo sa.

Perché poi, è chiaro, il problema ricade sullo stato della nostra editoria. Dopotutto noi, oggi e, tanto più, domani, nella selezione che dei nostri libri farà il tempo, giusta o meno, sia quel che sia (la sentite, in lontananza <la eco di Eco>? Scusatemi, non ho resistito ma, se volete, qui c’è qualcosa) dipenderà da ciò che sarà stato scelto di pubblicare, dall’efficacia della pubblicazione, dalle leggi di mercato, da tante e tante variabili che, con la qualità del libro avranno a che fare e anche no. E per fortuna che il tempo e le culture, attraverso la costruzione di loro canoni letterari, ci regalano un insieme selezionato e sistematizzato del tutto: è disgrazia il fatto che ciò comporti perdite forse immani, dove tuttavia, senza ciò, forse ben più sarebbe perduto, fors’anche proprio tutto. I confini, le caselle di una griglia, comportano limiti ma, di loro, definiscono anche uno spazio reale di libertà. L’importante è unicamente la loro permeabilità.

Lo stato dell’editoria non vive nel vuoto. Vive dentro tempi, culture e, in particolare, dentro quel sistema che, per l’appunto, si dedica alla costruzione del canone; vale a dire – arretra arretra – il mondo degli studi, le nostre Università e dintorni.

Ne parla, Cortellessa, nel suo articolo, dove, nel confrontare l’Università della sua giovinezza con l’attuale ci dice che era

“statale e di massa, sì, ma che non aveva abdicato ancora, come demagogicamente e neoliberisticamente ha fatto oggi, ai suoi “veri” compiti di formazione: a partire dall’educazione alla lettura. Una cultura che venga meno al suo ideale di universalismo – una delle eredità dell’Illuminismo, questa, meno suscettibili di revisioni “dialettiche” – torna a essere una cultura di ancien régime: un affare per pochi, i soliti pochi che se la potranno permettere.”

La mia domanda rimane: cos’è un libro?