Una vacanza: per andare “altrove”

D’estate si legge – come sempre, ma diversamente. Anche i libri vengono richiesti di far parte della vacanza; di costituire un altrove; ed è necessario fare “come se…”, considerare tutto il tempo del sole un tempo di riposo, di svago – nonché di stupore, di pensiero divergente. Tanto per essere “altrove”.

Samuel Butler, “Erewhon”: L’anagramma contiene una dichiarazione di intenti. Il viaggio; il fantastico: e la satira.

La storia: c’è il solito viaggiatore, ovviamente inglese, che ci narra il proprio esser partito…

… “con l’intenzione di recarmi in una nuova colonia britannica e di trovare là, o forse anche di comperare, un pezzo di terra non coltivato, adatto all’allevamento del bestiame e delle pecore: pensavo così di potermi arricchire più rapidamente che in Inghilterra”.

Siamo nella seconda metà dell’Ottocento; la vastità dell’Impero britannico consente la fantasia di un altrove che possa essere, o divenire, a tutti gli effetti, casa propria. Un obiettivo piattamente comune: arricchirsi, e farlo rapidamente. Niente di che, potremmo dire, se non l’avventurarsi, scalando montagne, guadando fiumi, ad esplorare una valle sconosciuta, in un territorio che il Nostro, giovanotto di belle speranze, dichiarerà di non voler rendere identificabile.

Ed ecco la scoperta del regno, isolato dal resto del mondo, di “Erewhon” – “Nowhere”, da nessuna parte, in nessun luogo; là dove l’inverso della cosa è la cosa stessa che, divenuta consapevole di sé, non più semplicemente data, irriflessa, si mostra al pensiero.

Ed ecco: il lettore potrà scegliere; riderne, deliziarsi per le tante possibilità che sfilano innanzi al pensiero; dedicarsi ad alcune riflessioni sui giorni andati e sul nostro oggi; scoprire cose, di sé e del proprio mondo, cui non aveva mai, in precedenza, fatto caso.

Una storia di viaggio, dunque, narrata da un tale che se ne è andato alla ricerca di fortuna – niente a che fare con il senso del viaggio del nostro tempo – dove l’incontro con il fantastico viene proposto al lettore sul crinale, da pattuire, del “credibile”. La sospensione dell’incredulità tra l’autore e il lettore verrà richiesta non quale prezzo per l’accesso al Mondo del Meraviglioso, come nelle favole; bensì quale grimaldello per osservare il nostro mondo a partire da occhi altrui, alieni; da occhi capaci di prescindere dalle nostre premesse implicite.

La scrittura: fintamente ingenua, fiduciosa, vogliamo chiamarla credulona? Fa parte del gioco.

I temi? La famiglia, l’educazione, i sistemi di valori, le Istituzioni di governo – la religione, i suoi rappresentanti; i totem e i tabù propri di una comunità, come tali indiscutibili per loro natura.

Che dire di una società dove, per legge, le macchine, se non le più semplici, poco più che estensioni della mano dell’uomo, sono abolite; dove è proibita, come immorale e socialmente pericolosa, ogni nuova invenzione? Di una società dove il male morale è accolto con atteggiamento di comprensione e cura mentre le malattie sono considerate alla stregua di reati, socialmente riprovate e punite? Dove, in conseguenza, tutti sono belli sani e benestanti.

Che ne dite di una società dove “la cattiva sorte, di qualsiasi genere, persino l’essere vittima di un’ingiustizia, è considerata una colpa verso la società perché sentirne parlare mette la gente a disagio”? Dove “la perdita del patrimonio o la scomparsa di un amico carissimo che ci fu di grande aiuto, vengono così puniti quasi con uguale severità della malattia.”

Il viaggio come metafora, dunque – e come occasione, per il pensiero, di dare una ripulita alle incrostazioni culturali che appannano il nostro senso critico, che non ci consentono di vederci allo specchio, a rovescio. Quale sarà il verso retto?

Il tempo: 1868. Inghilterra, regnante Vittoria, che di lì a un decennio sarà anche Imperatrice delle Indie. La modernità, l’industrializzazione, avanzano. Il mondo non appare ancora del tutto, e per tutti, totalmente conosciuto; consente ancora (se proprio lo si desidera) di immaginare l’accesso a valli sconosciute; a conquiste possibili, a ricchezze inesplorate; e perché no, a nuove conoscenze: e non fa differenza che non fossero tali la non conoscenza di allora così come la conoscenza di oggi. Vogliamo parlare di “conoscenza percepita”? (Gli è che fa caldo!).

È dunque satira: che rende “vero” l’incontro del viaggiatore (tale per cercar fortuna, come si diceva) con un mondo a rovescio che, guarda caso, mostra il senso supposto “dritto” del mondo in cui viviamo, centocinquant’anni fa così come oggi.

Qualcosa di comune si è mantenuto; ed è perciò che il libro, per certi versi, pare contenere aspetti “profetici” – che appaiono tali perché, semplicemente, umani; tanto da aver reso possibile, allora, e leggibile ancor oggi, l’invenzione di un luogo che possa essere “nessun luogo” in particolare: vale a dire che possa essere ogni luogo.

Satira? Certamente. Pure (ma solo in parte, talvolta dove meno pare) ingenua e scoperta. Vedi quando il nostro giovanotto, incontrando il popolo di Erewhon, sospetta di aver scoperto “le dieci tribù sperdute di Israele”.

“Possibile che la Provvidenza avesse designato ME quale strumento della loro conversione? Oh, che idea eccitante! (…) Riportare le dieci tribù di Israele alla conoscenza dell’unica verità: quale immortale corona di gloria! …Quale posizione mi sarei assicurato nell’al di là, e forse persino su questa terra! …Mi sarei guadagnato un posto nei ranghi celesti, immediatamente al di sotto degli apostoli, se non al loro fianco; certo al di sopra dei profeti minori e forse anche di tutti gli scrittori del Vecchio Testamento, eccettuati Mosè e Isaia.”

Samuel Butler e la religione avevano qualche problema di dialogo.

Questo romanzo ha avuto importanti antesignani nel genere – il racconto di viaggio, l’incontro con nuove terre e genti che, complice il Fantastico, invitava alla riflessione e alla critica in un tempo storico di passaggio, un tempo che (per quello che vale) è considerato l’inizio dell’era moderna.

Pur senza arretrare fino a “Utopia” di Thomas More (ancora scritto in latino, 1516, fine di una stagione letteraria inizio di una nuova stagione) dal Seicento a tutta l’età vittoriana, in particolare in Inghilterra, i racconti di viaggio, fantastico, con il romanzo nero e del terrore, hanno tenuto il proscenio a lungo: i loro pronipoti lo tengono ancora, in effetti. Ed Erewhon ha seguito, accompagnato, una produzione che aveva veduto, oltre cent’anni prima, Jonathan Swift pubblicare, per l’appunto, “I viaggi di Gulliver”, quando da poco era stato pubblicato il “Robinson Crusoe” di Defoe.

L’elenco sarebbe lungo. E coprirebbe gli atti di nascita della narrativa fantasy, della fantascienza, della narrativa horror, del giallo e del noir.

Ma è un altro il genere che, molto in nuce, se vogliamo, questo romanzo mi è sempre parso aprire, sia pure a rovescio (non per nulla è Erewhon): ed è l’aver costituito una via d’accesso al romanzo distopico.

C’è qualcosa, nella capacità immaginativa dell’autore, unita all’estrema adesione, alla lucida visione del proprio mondo, che porta verso la distopia, là dove si guarda all’irragionevolezza e alla potenziale pericolosità di un’organizzazione sociale e istituzionale i cui “valori” sono accolti acriticamente, totemizzati, mentre il mondo sta vivendo un tempo di grandi cambiamenti.

Si ride, tuttavia, anche molto. E mentre non saprei dire quanto i nostri sistemi scolastici possano dirsi più efficaci, al fine di poter contare su di una società composta da buoni e competenti cittadini, di altri che, in Erewhon, ottenevano sudditi che…

“…avevano ricevuto un’ottima educazione nella scuole dell’Irragionevolezza, e ottenuto i massimi diplomi in ipotetica…”

… devo ammettere di provare una certa qual attrazione per un’organizzazione quale:

“L’Ospedale degli Scocciatori Incurabili”, dove si è sottoposti alla pena di venir scocciati per un numero dato di ore da altri che “non tollerano di venir scocciati ma non sanno vivere se non hanno qualcuno da scocciare.”

Vero, è forse difficile, in alcune parti, percepire l’intento satirico, lo sberleffo a un certo mondo, se non avendo presente la storia di vita dell’autore che, figlio di un canonico, presi a sua volta gli ordini sacerdotali, li abbandonò. Samuel Butler, per un lungo periodo, lasciò l’Inghilterra, interrompendo le dispute feroci con il padre in merito al suo respingimento della fede. Si rifugiò in Nuova Zelanda dove divenne allevatore di pecore.

Samuel Butler 1858

Rientrato in Inghilterra, iniziò a scrivere. Il suo “Erewhon” ebbe un grande successo, a riprova del fatto che dubitare è lecito, satireggiare pure.

Samuel Butler (1835 – 1902) fu peraltro un intellettuale e uno scrittore poliedrico, dai molti interessi in campo artistico. Ma fu soprattutto un aspro oppositore della morale e della società vittoriane. Varrebbe la pena, in effetti, conoscere meglio lui, la sua opera, il suo tempo.

Ad Erewhon fece seguito “Ritorno ad Erewhon”, mentre “Così muore la carne”, sua ultima opera, una quasi autobiografia pubblicata postuma, è reperibile solo con difficoltà, nell’usato. Peccato. Chissà.