Antropologia del lettore (segue)

E rieccomi sul tema. Ma oggi lo farò proponendo libri. E storie di lettura.

Quanto ho scritto nella prima parte doveva essere niente più di una premessa, cui far seguire un’accozzaglia di libri in lettura, testimoni di un pensiero vagolante, lieto e confuso, indifferente, o incapace di una meta.

Era ciò che aveva fatto sorgere la domanda su chi sia il lettore, su come sia possibile conoscerlo e comprenderne i comportamenti. Su come la lettura (e la scrittura) interpretino e regolino la nostra vita, inglobando in questo processo anche coloro che, in apparenza, non scrivono e non leggono.

Meglio, dunque, ripartire ora dai libri in lettura – da quelli che ho letto e vorrei proporre a quelli lasciati, al momento, in sospeso. Letture che si stanno inseguendo, intersecando, secondo imperscrutabili loro percorsi.

Dopotutto, i libri sono vita; e nessuna vita ha una direzione.

Torniamo dunque in tema: un ringraziamento a Baylee per la sua recensione di “La fiera delle vanità” (qui) che mi ha condotto a tuffarmi (interrompendo la lettura di qualcos’altro) nella rilettura di un romanzo che non aprivo da decenni; e che, sicuramente, ho gustato, oggi, in modo diverso: con quel tanto di sorriso che la giovane età della prima lettura non aveva permesso, quando – è inevitabile – si è partigiani e fondamentalisti per natura.

Perché è così: un certo tipo di ironia, anche bonaria, non appartiene alla gioventù, forse perché ha qualcosa a che fare con la disillusione, con la rassegnazione che gli anni portano con sé. Potremmo anche chiamarla tolleranza appresa.

Lo dico per chi lo ha letto: Becky Sharp ha avuto, allora, tutta la mia disapprovazione; e gode ora di una poco riluttante simpatia.

Per chi non lo avesse letto: fatelo; incontrerete in lei un’antieroina affascinante (da cui tuttavia, nella vita reale, avendola per amica, occorrerebbe un po’ guardarsi, perché invera uno dei più resistenti e falsi cliché: “le amiche, si sa…”).

Per converso, “l’eroina buona” (si fa per dire), Emmy Sedley, beh, val la pena di leggere la recensione di Baylee e, di seguito, il libro (magari prima completando la lettura in corso).

Per inciso: non è uno svarione, non ho dimenticato i personaggi maschili. È solo che, in proposito, mi viene tuttora bene, nonostante l’età e l’esperienza di vita accumulata, l’essere fondamentalista.

A seguire, una domanda: come sono trascorsa da “La fiera delle vanità” a:

Irvin Yalom, “Il problema Spinoza”, Neri Pozza 2012? Sempre avendo sul tavolo, accanto alla mia mano sinistra, il mio vecchio barone di Munchausen, di Rudolf E. Raspe, BUR dei ragazzi 1978, illustrata da Gustave Doré e con Introduzione di Pietro Citati?

Avevo letto altro di Irvin Yalom. È un autore che, se si apprezza il genere psicanalisi e dintorni, si legge volentieri quando viene il suo giusto momento. Devo dire, tuttavia, che avevo sempre tralasciato questo suo libro, considerato credo il suo capolavoro, e proprio a causa dell’argomento: Spinoza è, per me, una direzione di pensiero e di vita.  E non so: non mi ispirava ritrovarmelo, come argomento, in un romanzo. E il titolo? Divento sospettosa di un libro che parli di Spinoza definendolo un “problema” (pure se lo è stato, senza dubbio alcuno. Un filosofo che si tende a cancellare tuttora. Uno che dà fastidio).

Ho incontrato invece un libro di grande interesse, dove l’invenzione di una credibile e interessante interpretazione biografica del grande filosofo (della cui vita, in effetti, si conosce poco; o, forse, non c’è da conoscere altro dal suo pensiero) si coniuga con la storia di Alfred Rosenberg, un reale protagonista dell’Olocausto, ideologo dell’antisemitismo, condannato a morte dal Tribunale di Norimberga.

In questo romanzo realtà storica e invenzione romanzesca collaborano nel proporre al lettore non solo o tanto una comprensione quanto un bisogno di pensiero: sull’umano e sul divino; sulla preminenza necessaria della ragione; sul giudizio … E qui tralascio di dirne perché vorrei proporlo.

Dopodiché, e dato che la via maestra sembrava perduta per sempre, qualcosa mi ha condotta a leggere un libro che, se ha un suo interesse, ciò si deve unicamente al nome del suo autore: Arthur Schopenhauer: “L’arte di trattare le donne”.  Vogliamo dirlo, senza timore verso un grande nome? Ecco un libro-raccolta di beceri luoghi comuni che, se lo avesse scritto un signor Rossi qualsiasi, sarebbe oggi correttamente cestinato senza pietà. Perché, diciamolo: bruciare, distruggere libri è azione devastante per qualsiasi gruppo sociale; lasciarne morire certuni di morte naturale, ci sta.

Il tempo in cui è stato scritto spiega tutto, mi direte.

Proprio no. John Stuart Mill, per dire, è un suo coetaneo e se “Sulla servitù delle donne” è stato un testo rivoluzionario, per il tempo in cui è stato scritto, non è peraltro il caso di ricordare opere che propongono, senza filtri rispetto alla cultura dominante, il pensiero più rozzo di un’epoca.

Anche per l’Ottocento, bastava una qualsiasi osteria per ritrovare, in forma di chiacchiere, le idee espresse da quel, per molti aspetti, “femminaro” di Schopenhauer, che ha trascorso la vita prendendosi le più varie infatuazioni da adolescente mai cresciuto.

Ho trovato tuttavia interessante l’Introduzione al volume di Franco Volpi, che prende le mosse dal definire i filosofi “depositari di sapienza per definizione ma bancarottieri in amore.

In effetti, temo non ci sia molto da commentare su quella che può essere definita l’assenza della presenza femminile in filosofia – perché le donne ci sono sempre state, nella storia del pensiero: con fatica, certo; dovendo lottare per ottenere, per rubare, un accesso anche alla sola alfabetizzazione. Sul qualcosa da fare nel merito, invece, occorrerebbe quantomeno porre a tema la misoginia ancora imperante nella nostra società (no: diciamo pure “nelle società”).

Nei millenni, con rare eccezioni, i “filosofi” hanno profuso un impegno coerente e compatto nella cancellazione e negazione del pensiero femminile senza neppure il bisogno di accordarsi su ciò.

È un tema interessante: leggere ciò che, delle donne, dice Schopenhauer, a mio parere, non lo è. Neanche per ridere. Perché non c’è niente da ridere: la violenza sulle donne è la punta (gravissima, devastante, certo) di un iceberg che ha nella cultura cosiddetta alta, il suo incubatore.

Meglio che io passi a libri – buoni libri – dalla lettura sospesa: per vari motivi, non sempre a me chiari; alcuni dotati di senso, altri francamente che ne difettano. In almeno un caso, beh, si tratta, sicuramente, del sorpasso che hanno subito di fronte a un rivale che si è inserito, irregolarmente, con manovra spericolata e vincente.

Si tratta di libri che sono in corso di lettura; che dovrò, almeno in un caso, riprendere dall’inizio. Alla cui lettura certo non rinuncerò.

Primo tra tutti, Giulio Angioni, “Sulla faccia della terra”, Feltrinelli 2015.

Non so capire come mai io lo stia leggendo a capitoli, quasi prescrivendomi un’interruzione tra l’uno e l’altro. È qualcosa del genere: fermati un momento, lascia che ogni giorno trascorra un giorno; lascia il tempo all’esperienza del giorno di sedimentarsi.

Pur essendo un romanzo – la storia di un gruppo incongruo di sardi scampati alla distruzione di Santa Igia (Santa Cecilia, nel cagliaritano), ad opera dei pisani, nel 1258, che troveranno rifugio in un’isola che, all’interno di uno stagno, aveva ospitato un lebbrosario. E che vi organizzeranno la propria sopravvivenza e una convivenza nella diversità.

Ogni personaggio è un romanzo a sé. E io credo che l’interruzione di lettura sia dovuta, come accade per la poesia, e per i racconti, dal bisogno di elaborare le diverse esperienze che si stanno vivendo.

Ogni giorno un giorno: non ho fretta di conoscere gli esiti dell’esperienza. Non credo, a metà percorso, che siano importanti. È una storia da vivere.

E veniamo a “Neroconfetto”, di Giulia Sara Miori, editrice Racconti.

Weird – strano – è la categoria assegnata dall’editore a questi racconti; come dire il “genere” che – ma si può dire così? – fa da contenitore a questi testi, che, in effetti, prima di essere “strani” di loro natura, catturano in modo strano, per l’appunto.

Ne leggi uno. Prosegui. Leggi il secondo. Ti arresti.  Torni al primo.

Sei convinta? No? Sì, complice la curiosità di scoprire che cosa sia questa scrittura.

Ho scelto il tempo, il ritmo di lettura sbagliato, dici a te stessa. Riprendi dall’inizio. Prosegui.

Ti arresti.

Per questo libro va bene così. Chiede un tempo a modo suo – a modo mio?

Non lo so ancora. So solo che non lascerò questo libro.

Cos’altro? In lettura, dico.

Maja Lunde, “La storia delle api”, Marsilio 2018. Un romanzo, tre storie, tre diversi tempi e luoghi del mondo; protagonista la relazione tra la vita di noi umani e la vita delle api.

Un romanzo molto interessante: credo che lo dovrò riprendere daccapo; ha diritto a una lettura in un tempo tutto per sé, non interrotto.

Mi restano altri due libri iniziati e interrotti, in corso di lettura, da altro: Libri che chiedono di vedersi dedicato un giusto loro tempo. Li lascio, innominati, per una prossima volta.

Dopodiché: resta il tema che mi ero prefissata, e sul quale continuo a rimuginare. Ma che questa descrizione di – posso chiamarla mala-lettura? Anche se non lo è, credo – a mio parere esprime.

È qualcosa che ha a che fare con un bisogno non chiarito, con un tempo che sembra accartocciarsi su se stesso, tra regole sanitarie, difficoltà nelle relazioni, inciampi di quel tanto di routine che consente di sperimentane una rottura e trarne effetti positivi.

Ma c’è, anche, il fisiologico rapporto che si instaura tra il libro, il suo lettore, la comunità in cui questo vive, la vita di chi non legge. Ci sono le diverse età – del libro e del tempo in cui viene letto. Ci sono le diverse vite del libro; le sue rinascite in quanto letto da persone diverse, dalla stessa persona in tempi diversi; in momenti di vita diversi.

C’è la relazione autore-lettore: ricorda, talvolta, un certo tipo di matrimonio, dove ognuno dei due è innamorato di un altro immaginario, che non conosce e forse neppure è interessato a conoscere.

Tante cose. La domanda che avevo aperto nel post precedente ha senso, sì: non sarò io, certamente, a poterla sviluppare.