Dovrò essere scusata per questo post. Me ne scuso, dunque; nella speranza che chiuda un tempo di scrittura per aprirne un altro, non molto diverso: diverso per me.
Sto scrivendo poco, in questi ultimi mesi; i motivi sono tanti. Hanno a che fare, per lo più, con cose di cui dovrei scrivere, e non sono certa di volerlo fare. Con cose su cui mi necessita un pensiero che si mostra discontinuo; con temi, domande, dettagli, incertezze, ancora domande.
Sto leggendo, come sempre molto, troppo, senza un’idea conduttrice; sto per lo più rileggendo antichi amori, programmaticamente a spezzoni: una frase rimasta là, per me, nel fondo di qualcosa; un passaggio che connette pezzi della mia vita; un pensiero dimenticato da recuperare; qualcosa che non ricordo ma non ho, non del tutto, dimenticato.
Vorrei scrivere; di cose che si affastellano nella mente e l’una scaccia l’altra, e alla via così. Soprattutto – e forse sta qui l’inghippo – di cose che non necessariamente hanno a che fare con: libri, autori, editoria, librerie, biblioteche, e via così.
E penso; questo spazio si chiama “Parliamone”; che non è, di necessità, “Parliamo di libri e dintorni”.
Libri, letture: che non sono altro dalla vita tutta, che vi hanno a che fare; con la vita privatissima di ognuno di noi e – sarà possibile distinguerle? – con la vita di cittadinanza di ognuno; con il nostro essere sociale, dentro un groviglio di esperienze individuali inestricabile.
Leggere vi ha a che fare per la parte che fa di un qualsiasi libro un’esperienza, un’emozione, solo in parte condivisibile – e vale per la grande opera letteraria ma pure, in modo diverso, per il buon romanzo da intrattenimento, per il giallo-rosa dentro cui ci immergiamo per stare in riposo e in compagnia.
Sempre, lasciamo a parte per, forse, nasconderli a noi stessi, dei segmenti, personalissimi, di cui, nel parlarne, nel proporre una lettura, non si può dire.
E “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.” Ancora ritrovo il buon Ludwig Wittgenstein?** Chissà cosa voleva dirci. Tanto vale far nostra una tesi che, così come avviene per ogni cosa scritta, venga poi letta da altri.
Talvolta lasciamo, forse, intuire quel tanto che basta per non mentire nella scrittura che, come sappiamo bene, non tollera falsità. Contraddittorio? Anche no.
Domanda, sospetto: si tratta di quella parte che trasforma un racconto, una storia, in un capolavoro? Con la <verità> che contiene; sola, nuda. Unica per ognuno di noi.
I nostri libri hanno a che fare con la nostra vita di cittadini, di membri di una comunità e del mondo; e dunque “Parliamone” non dovrebbe rimanere confinato a pagine lette che nulla abbiano, o di cui nascondere che hanno, a che fare con, anche, le pagine dei giornali, le notizie che inseguono le ore della nostra vita, il nostro privatissimo personale e la nostra assunzione di cittadinanza.
“Il personale è politico”, si diceva un tempo. È sempre vero; e non solo nell’ambito del femminismo in cui lo slogan è nato. Tema ampio.
Ed ecco: ho finora mescolato la mia storia di vita personale con queste pagine unicamente, credo, per generali indicazioni di ruolo: donna, anziana, madre, moglie, nonna: ruoli, per l’appunto, da scheda anagrafica.
Ho tuttavia toccato, come ognuno di noi, temi che vi hanno a che fare; che mi trovavano nella difficoltà di prendere la giusta distanza nel parlare/scrivere, di un libro o di altro (come è, o almeno pare a me debba essere, necessario saper fare).
Ed ecco. La cronaca in questo agosto riporta più di sempre incidenti in montagna (mescolati ai grandi temi del mondo che ascoltiamo attoniti/indifferenti, travolti dalla nostra singola inutilità in proposito, rifuggendo da un dovere, pure piccolo, di assumere qualcosa come nostra personale responsabilità): ascoltiamo notizie su morti in montagna per imprudenza e su morti che appartengono alla montagna.
La cronaca ci racconta la fatica e i rischi che vivono i gestori dei rifugi alpini, confusi spesso con hotel per vacanzieri; veniamo “informati” sui rischi che affrontano i soccorritori alpini che, in aggiunta – e mai dovrebbe esser dimenticato – vivono la ferita, il lutto, il dolore e la fatica del recupero / la rabbia e il sollievo, perché sì, c’è anche sollievo nel ritrovare indenni vacanzieri imbelli in ciabatte in alta quota.
Poi la cronaca riferisce la morte di uno sherpa, Mohammad Hassan là, sul K2, quota 8200 metri. Una morte che ricopre di vergogna l’alpinismo: se c’è ancora; quell’alpinismo che ha poco a che fare con i tempi di salita, dove manca ogni pensiero, ogni sguardo alla montagna, ogni ringraziamento per ciò che la fatica della salita e sì, anche la tecnica, danno; per quello che potremmo chiamare il necessario senso del limite, con la capacità di far crescere il rispetto per la natura di luoghi che, con la nostra salita, stiamo contaminando; con la capacità di chiedere alla montagna, che ci aiuterà a divenire esseri umani migliori, il permesso di salire. Per non dire di un insegnamento che la montagna regala a tutti coloro che la amano. Questo: che quando non ce la fai più, ebbene, le cose non stanno così. Ce la puoi fare e ce la farai ancora, e ancora. A passo lento, a passo breve, a passo lungo. Ce la farai.
Mohammad Hassan non poteva essere salvato – dicono: e probabilmente è così; ci hanno provato – dicono – senza risultato.
Leggo che forse non era ancora morto quando lo hanno lasciato: scavalcandolo / scavalcando il crepaccio, o di qualunque ostacolo si sia trattato, in cui era caduto; non è chiaro.
Una cosa, tuttavia, la so bene: so che, con la perdita di un compagno di arrampicata, L’ASCENSIONE È FINITA. Si attendono i soccorsi. Non è possibile? Si riprende la strada per scendere.
Ed ecco il fatto personale di cui spero verrò scusata: sono trascorsi quarant’anni da quando mio fratello Andrea, ventinovenne, alpinista provetto, e due suoi amici, Carlo e Aldo, che come lui amavano e conoscevano la montagna, hanno perso la vita sullo Spigolo del Velo, sulle Pale di S. Martino.
Cose che avvengono: un chiodo fisso di parete ha ceduto. Forse per lo strappo causato da una caduta del capocordata. Forse.
Al Rifugio del Velo, che si trova alla base della Via ferrata, l’allarme è arrivato in tempo reale: un’altra cordata seguiva, e ha veduto la caduta senza speranza. Il richiamo, l’allarme, è giunto a voce, urlato, al rifugio.
A quarant’anni di distanza mi accorgo che non so, che non me lo ero mai chiesta: quella seconda cordata (che non aveva nulla a che fare con quanto accaduto; che, semplicemente, a sua volta, aveva intrapreso l’arrampicata, forse la più bella delle nostre Dolomiti) dopo aver dato l’allarme, avrà proseguito? Avrà felicemente raggiunto la cima?
In verità ho sempre assunto, come implicito, che NO. Che abbia rinunciato. Ho dato per ovvio – neppure da chiedere! – che siano scesi a riferire; a condividere il dolore di una tragedia; ad aiutare, a soffrire, ad accompagnare.
E ora, d’improvviso, non so.
Di quel giorno conservo alcune foto, molto belle, che soccorritori generosi e attenti hanno provveduto a salvare: cercando negli zaini documenti, informazioni, e veduta una macchina fotografica ovviamente sfracellata, hanno provveduto ad avvolgerla, a coprirla, per evitare che un rullino prendesse luce; per evitare che le possibili ultime immagini felici di quei ragazzi venissero perse. *
Ora, in montagna, la stupida corsa ai record c’è sempre stata ma quel che è stato fatto a Mohammad Hassan è insostenibile.
Era povero, Mohammad Hassan, neppure molto esperto, pare; sicuramente mal attrezzato: eppure è stato utilizzato ugualmente. A <suo> rischio. Un rischio accettato per necessità economica.
Poteva venir attrezzato meglio? Dico, per non creare le condizioni di una tragedia che, anche non volendo considerare il rapporto umano che si suppone tra compagni di cordata, AVREBBE INTERROTTO L’ASCESA.
E invece NO. L’ascesa non sarebbe stata interrotta.
Lo so: mentre continua una guerra ai confini d’Europa; mentre, guardando preoccupati la guerra vicina, dimentichiamo le molte guerre in atto, dimentichiamo soprattutto che ogni punto del pianeta ci è vicino, con le sue tragedie; mentre ci preoccupiamo per i cambiamenti climatici e formuliamo fosche previsioni per i nostri figli, il destino di Mohammad Hassan è una piccola notizia di cronaca che nulla inciderà sul destino di Kristin Harila, la scalatrice norvegese recordwoman per aver scalato tutti i quattordici 8.000 metri al mondo nel minor tempo di sempre.
Quest’anno, nel corso di tre mesi – aprile/luglio – quella donna ha raggiunto tutte le quattordici vette >8.000 metri; record che si chiude, il 27 luglio 2023, con la vetta del K2. Record già registrato, reperibile anche su Wikipedia.
La disumanità è scolpita a sangue sul solo fatto di aver proseguito la scalata: c’era il record da conquistare; un record di <velocità>.
Difficile capire: di quale velocità stiamo parlando? Della velocità di chi? Non degli sherpa che ti anticipano e attrezzano il percorso perché tu possa seguire? E far presto? Perché?
La cronaca, negli ultimi due mesi, racconta di gestori di rifugi incavolati neri per le pretese di clienti che confondono un rifugio alpino con un hotel; che pretendono la doccia, subito; che affrontano i percorsi mettendo a rischio se stessi e chi li dovrà raggiungere e soccorrere; che chiamano il soccorso alpino perché sono troppo stanchi o perché si ritrovano a non poter camminare sul ghiacciaio con le sneakers o ad avere troppo freddo in pantaloncini corti e T-shirt. Cose così.
E tuttavia: hanno ragione i gestori dei rifugi ma perché non ne parlano con i <quasi> colleghi che, per sete di guadagno, con la complicità entusiasta degli amministratori pubblici, sventrano la montagna per costruire impianti di risalita e amenità del genere per un turismo di massa: far soldi piace, davvero. E porta in montagna persone che, giustamente, non capiscono.
“Non c’è più una cultura della montagna”, diciamo, senza chiederci da dove viene.
Val zoldana: qualche anno fa, su di un bel prato, quota intorno ai 1700 metri, dove ci stava, e ci sta, un ristorante raggiungibile anche attraverso una piccola seggiovia, ora cabinovia, mi sono ritrovata il grande prato, vista sul Civetta, occupato da impianti giganteschi di scivoli gonfiabili, quelli che solitamente si trovano al mare; con una piscina all’aperto (mi pare) e un parco giochi – accesso a pagamento, ovviamente, sia mai che, come non molti anni prima, i bambini (quelli che non ci sono quasi più) non pensino di poter correre e giocare sul prato, pure in salita e – qui sì, giustamente – vediamo chi arriva prima!
Parliamone, dunque, dei “piccoli” fatti che, goccia su goccia, con la nostra collusione, fanno i grandi fatti che stanno avviando all’estinzione la specie umana: infestante, è chiaro.***
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- * Immagine di copertina: Cima Madonna, Spigolo del Velo. Foto privata
- ** L. Wittgenstein, “Tractatus logico-philosophicus”
- *** Vedi anche qui: Un problema di razzismo? Non avrei pensato esistesse qualcosa di peggiore, ma qui lo si è raggiunto: un problema di umanità.
