Il Giorno della Memoria è trascorso: e ciò che accade nel nostro mondo rende il ricordo più che mai necessario, con la conoscenza e la consapevolezza di ciò che siamo, di ciò che, come specie umana, abbiamo compiuto; di ciò che – inutile girarci intorno – potremmo ripetere: ognuno di noi, ogni Nazione, tutti, nessuno escluso.
Vediamo i prodromi di una ripetizione già in atto.
Ripetere non significa replicare un accadimento, con le modalità storiche già accadute: significa replicare la struttura del pensiero e dell’azione con cui si risponde a un problema, vero o presunto che sia.
Banale: significa replicare alla violenza con la violenza. Tipo: insegnare a un bambino a non essere violento picchiandolo.
La Memoria: ha che fare con il Ricordo, necessario e tuttavia non sufficiente; che deve volgersi in Conoscenza: innanzitutto di noi stessi, appartenenti alla specie umana; di ciò che è accaduto, del perché è accaduto, del fatto che lo abbiamo compiuto proprio <noi> – simmetricamente: le vittime di un tempo / carnefici di un altro momento.
La specie umana, nella Storia, e fino al raggiungimento del massimo orrore, ha sistematicamente risposto con la violenza a una situazione di interessi divergenti, veri o, soprattutto, presunti; ha risposto con la distruzione dell’<altro>, fino alla scientificità cui il pensiero umano si è applicato per produrre l’orrore che qualcuno, e poteva essere chiunque altro, ha posto in atto: la Shoah.
Tra parentesi: facendo salva quella che è l’unicità della Shoah, dovremmo infine riconoscere che tale unicità, in tutto il suo orrore, è stata, ad oggi, solo il punto di arrivo di un comportamento ricorrente, senza che niente ci possa assicurare sul futuro – non solo per quanto attiene ad una sua non ripetizione ma pure per quanto attiene ad un nuovo ulteriore innalzamento dell’orrore.
Dimentichiamo (com’è possibile?) la sperimentazione, già attuata, della catastrofe atomica: limitata (ma davvero vogliamo definirla così?) solo perché di più e di meglio, al tempo, non eravamo ancora in grado di fare. Oggi lo siamo.
Dimentichiamo innumerabili altre catastrofi, limitate (ma poi: davvero? Penso, ed è solo un esempio, agli stermini dei nativi americani), rispetto alla Shoah, unicamente dalla limitazione dei mezzi a disposizione.
Rimanendo a noi, alla Storia di cui ancora esiste memoria e testimonianza:
Auschwitz, 27 gennaio 1945: il disvelamento.
Seguiranno, sull’altro fronte, sul fronte dei <buoni>, a stretto giro:
Hiroshima, 6 agosto 1945: una bomba chiamata LIttle Boy.
Nagasaki, 9 agosto 1945: una bomba di nome Fat Man.
“Ragazzino” e “Ciccione”. I <buoni> hanno avuto pure voglia di scherzare. Erano, sono, fatti così: più che buoni, e quando tutto, a parer loro, va bene, <bonaccioni>.
La storia è narrata, sempre, dalla voce dei vincitori.
Il vincitore avrebbe potuto essere l’altro. Il <cattivo>. Avrebbe potuto. Potrà, in altra occasione. Potrebbe. Sarà.
Invece no, il perdente avrà sempre torto poiché solo a posteriori definiamo i vincitori come i <buoni> e dunque: vinceranno <sempre> i buoni. Sta nelle regole del gioco, poiché saranno sempre i vincitori a narrare la storia; dunque, i <buoni> per autodefinizione.
Le cose avrebbero potuto andare diversamente. In quel caso un diverso <noi>, muto, banalizzante (ci direbbe ancora e sempre Hannah Arendt), narrerebbe un’altra storia. Narrerebbe altri orrori, commessi da altri. Orrori veri. Reali. Commessi qua e là. Prima o poi. Non credo necessario, oltre che impossibile, farne un elenco, che sarebbe sempre, comunque, di parte e incompleto.
Lo so (<devo> saperlo, per poter vivere): hanno davvero vinto <i buoni>. E hanno detto che ciò che era stato non sarebbe dovuto accadere mai più.
Nel mentre, “Ragazzino” cadeva su Hiroshima; “Ciccione” su Nagasaki.
L’ISPI – Istituto per gli studi di politica internazionale – nel 75° anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki – scrisse un articolo il cui incipit riporto:
“Gli anniversari del primo impiego dell’arma atomica a Hiroshima il 6 agosto del 1945 rischiano di cadere nell’oblio. I sopravvissuti alla tragedia (hibakusha) si contano ormai sulle dita delle mani e il clima internazionale attuale è meno propizio a siffatte commemorazioni. Quella che ebbe luogo nel 2015 per marcare il 70mo anniversario fu deludente e passò quasi inosservata. Maggiore eco ebbe l’anno successivo la storica visita del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama nella città giapponese, la prima di un presidente americano, e il discorso magistrale che egli pronunciò in tale occasione. È poco probabile che il suo successore segua il suo esempio.” (qui)
Esiste un Giorno della Memoria condiviso tra le Nazioni? Tra vincitori e vinti di allora? Sì e No.
SI: La ricorrenza è stata stabilita dall’ONU (senza fretta: il 1 novembre 2005, nel sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, dunque ogni 27 gennaio, con la risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale).
NO: non in ogni nazione rappresentata all’ONU tale ricorrenza viene commemorata.
La ricorrenza accomuna gli Stati dell’Unione Europea. Altri Paesi la commemorano in altre date. Altri non lo fanno: non sono <fatti loro>.
A casa nostra il 27 gennaio è associato al ricordo della vergogna incancellabile delle leggi razziali, la cui emanazione Benito Mussolini annunciò da un palco, davanti al Municipio di Trieste – era il 18 settembre 1938 – davanti ad una piazza stracolma di folla (obbligata ad assistere? Anche no).
Il re le aveva promulgate, certamente non obbligato, tredici giorni prima, il 5 settembre 1938.
Alla ricorrenza + associata la Memoria del Campo di sterminio della Risiera di San Sabba (dal 1965 Monumento Nazionale) nel Comune di Trieste, che fu il solo in territorio italiano, al tempo formalmente in zona sottoposta al regime nazista e tuttavia sua alleata, eon la collaborazione, della Repubblica Sociale Italiana.
“Nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945 i nazisti fecero esplodere – nel tentativo di cancellare le prove di quanto accaduto nell’edificio – il forno crematorio e la ciminiera. A nulla è valso il loro tentativo, poiché a testimoniare la presenza del forno crematorio ci furono sia le testimonianze dei prigionieri sopravvissuti, sia il ritrovamento di ossa e ceneri umane”. (qui)
Il quadro, nel frattempo, è mutato, continua a mutare; buoni e cattivi si sono rimescolati e continuano a farlo ma non importa: a quanto pare, esiste una polarizzazione, un noi/loro qualsivoglia stante il fatto che, vale per i singoli/vale per i gruppi e gli Stati, dal proprio punto di vista ognuno ha ragione.
Temiamo il fatto che <loro> possiedano l’arma atomica e troviamo – rassicurante? – il possederla <noi>, non è così?
Nel frattempo, discettiamo di armi nucleari tattiche distinguendole dalle armi nucleari strategiche; discettiamo dei pericoli di un possibile uso delle prime – ovviamente da parte <loro> – mentre blateriamo di funzione di <deterrenza> delle armi nucleari strategiche, da parte <nostra>. Tipo, “guarda che se tu osassi distruggere la mia metà del mondo, ritenendolo un prezzo accettabile per ottenere la vittoria, io distruggerò contestualmente la tua metà e ciao a tutti. Un botto e via!”
Che mai potrà significare, in tutto questo, la parola “deterrenza” se non a giustificare la scelta di rendere possibile l’utilizzo di armi atomiche <tattiche>: altrimenti, perché le costruiremmo?
La Shoah. Hiroshima e Nagasaki. Senza poter parlare di ciò che abbiamo opportunamente dimenticato e di ciò di cui nulla abbiamo mai saputo, essendo ormai pochi i testimoni di quei fatti, rimaniamo tuttavia, oggi, in possesso della loro voce; rimaniamo in possesso di documentazione che impedisce qualsivoglia negazionismo: impedisce l’ignoranza, compresa quella volutamente scelta – perché sì, anche questo fanno gli uomini; scelgono di non sapere.
Anche questo può fare la specie umana.
Le voci dei testimoni non si spegneranno a meno che non lo vogliamo.
Nel mentre, e oggi, con piena conoscenza di quanto accaduto e di quanto sta accadendo, e non solo in Palestina e in Ucraina, sappiamo tutti che nessun orrore potrà più venir considerato impossibile.
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NOTA: in foto, aula assemblea generale dell’ONU.



