«Il fardello dell’uomo bianco»

Rudyard Kipling
Rudyard Kiplilng, Premio Nobel per la letteratura 1907

Ho voglia di parlar d’altro – sempre rimanendo seduta sui miei libri e con i libri per sostegno – ma, come dire, sento una specie di costrizione a portare, in questo spazio, i libri dentro la vita, dentro i problemi, gli interessi, le avventure, le gioie e le arrabbiature che segnano la vita, e che trovano voce, spunto, argomenti, nel dialogo con un libro.

Si affronta un problema, si apre un giornale, si segue un avvenimento: ed è ben difficile che, nella nostra mente, il giudizio, l’emozione, la riflessione che ne conseguono non trovino legami con qualcosa che si è letto – qualcosa che ci ha arricchito; che a nostra volta arricchiamo, rendiamo nuovo, fornendogli carne e sangue di realtà, aggiungendo significati, prendendo poi a nostra volta nuova vita e nuova esperienza dalle parole lette.

Anche stasera – 18 aprile 2016 – i telegiornali rimbalzano la notizia: quattrocento morti nel Mediterraneo, no duecento, forse seicento; no, forse la notizia è falsa; non è accertato; non si sa; qualche organismo europeo sta discutendo il da farsi. Le «loro» guerre.

Ed ecco che, mentre sto continuando, con lentezza, e me la godo, la lettura di «Lettere dalla Siria», e inizio a leggere «Effendi» di Freya Stark; e mentre, in conseguenza di questa lettura, mi trovo ad entrare, stupefatta, nel mondo mentale dell’Impero britannico del tempo e della sua «missione colonizzatrice» di cui la Stark era, per contemporaneità, orgogliosamente figlia; mentre inizio a fare i conti con la ridda di emozioni (respingimento immediato, disagio, poi domanda, poi curiosità, poi il libro è interessante) che mi provoca questo confronto, mi trovo ad aprire, poco dopo, e quasi per caso (!), un libro del tempo che fu.

Rudyard Kipling, «Kim». Non un libro per ragazzi, quantomeno non solo. Un libro per ragazzi che diventa un diverso libro per gli adulti, un grande libro, che si fatica, ascoltandolo bene, a connettere con la figura di Kipling, voce ufficiale dell’imperialismo britannico. Dopo il quale, la voglia è di riprendere in mano Peter Opkirk, «Il Grande Gioco»

Prima ancora di rendermene conto, ne inizio la lettura – l’ho aperto, ho buttato l’occhio su qualche riga – e non lo lascio più.

Avrei dovuto lasciarlo? E perché poi? Perché sto già leggendo altro? – ma questo è l’incontro del destino, ho tra le mani le radici della cultura che ha cresciuto la pianta Freya Stark. Quel mondo dell’Impero, quella supremazia dei mari e del commercio, quell’orgoglio di sé che portava l’Inghilterra ad assumere un’ottica «civilizzatrice». Di chi?

Ora vado, consapevolmente, a prendere, con la voglia di condividerlo, un altro pezzo d’epoca, non poi tanto lontana. Un pezzo abbastanza dimenticato ma che, temo, dà ancora segni di vita dentro di noi, ben protetto nel fondo della nostra identità – di noi «bianchi (ex) colonizzatori», dico, con tutto ciò che oggi vediamo accadere – e non oso dire che «ci» accade, sarebbe blasfemo.

Vengono, e sono tanti. Troppi? A «distruggere la nostra civiltà», a «rendere precaria la nostra vita», a «mangiarsi le nostre risorse», a lavorare da noi, a lavorare per noi.

No, quest’ultima cosa – lavorare per noi – l’avevano già fatta. E anche le risorse, per la verità, siamo stati noi a prenderci le loro. Forse, dunque, non sono proprio, del tutto, nostre. Poi, certo, tutto è molto più complicato di così.

E se invece fosse semplice? Una situazione confusa.

«Noi», dicevamo di lavorare per loro. E pare sia stato bello crederci. Ci regalava, oltre al guadagno, una immagine di noi stessi potente, gratificante, di cui andare orgogliosi.

C’era anche – per noi italiani, nella nostra esperienza fortunatamente più breve e non così falsamente gratificante – il «madamato[i]». Chissà quanti nostri fratelli abitano quelle terre, più scuri meno scuri, e forse, chissà quanti, senza saperlo, ora stanno venendo a casa dai loro nonni.

Eccolo, il ricordo che cercavo, il pezzo d’epoca. Rudyard Kipling – “Il fardello dell’uomo bianco“. Una «poesia», all’epoca nota e ammirata, che inneggiava alla missione «civilizzatrice» dell’uomo bianco. Quasi un proclama.

Questa poesia, che oggi appare sicuramente improponibile, da nascondere sotto il tappeto, è opera di uno degli scrittori più grandi che l’Inghilterra moderna abbia prodotto, premio Nobel per la letteratura 1907 (per «Il libro della giungla» – a proposito di «libri per ragazzi»).

Non era bella neppure allora quell’illusione, quella superiorità, quell’idea di missione civilizzatrice. Ma come lo possiamo dire noi, oggi, dal nostro dopo da cui, senza merito, per non dire altro, sappiamo com’è andata a finire e dove ci ha portato? E rifiutiamo di assumercene le conseguenze?

Kim, locandina del filmL’interessante, dopotutto, sarebbe guardare bene, conoscere, capire, oggi, le nostre certezze di un ieri non tanto lontano – da cui non credo ci siamo liberati, non davvero, non tutti e forse neppure la maggior parte di noi, forse neppure quei «noi» che credono di averlo fatto.

L’interessante sarebbe vedere, domani, come crolleranno le nostre certezze di oggi, nate sull’aver compreso gli errori di ieri; armati, dunque, della fiducia che non li ripeteremo – proprio mentre li stiamo ripetendo, per «altri motivi», della cui validità non ci è dato dubitare.

Il refrain è sempre quello: «civilizzare», «portare la democrazia». C’è anche: «Stabilizzare».

L’interessante sarebbe conoscere l’immagine che di noi si faranno i nostri nipoti.

Non so fare altro che attaccarmi alle pagine di un libro. Non potrei dire che mi aiuta molto, no, mi aiuta solo ad evitare certezze, riuscendo ad avvicinare quelle di un altro tempo, di un altro luogo, di altra gente, per vaccinarmi da un germe che sta sempre dentro il nostro mondo, e dunque anche dentro di me, mentre cerco di non rendermi complice di ciò in cui oggi credo.

Mentre finisco di leggere «Kim» (è bellissimo! Lo sapevo ma non me lo ricordavo. Magari lo proporrò) lascio a ricordo di quel mondo, ancora a noi vicino, la poesia di Rudyard Kipling. Così, tanto per togliere un po’ di polvere da sotto il tappeto, per disperderla.

 

Il fardello dell’Uomo Bianco[ii]

Rudyard Kipling, (1865-1936)

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Disperdi il fiore della tua progenie – / Obbliga i tuoi figli all’esilio

/ Per assolvere le necessità dei tuoi / prigionieri;

Per vegliare pesantemente bardati / Su gente inquieta e selvaggia – / Popoli da poco sottomessi, riottosi,

/ Metà demoni e metà bambini.

 

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Resistere con pazienza, / Celare la minaccia del terrore / E

frenare l’esibizione dell’orgoglio; /

In parole semplici e chiare, / Cento volte rese evidenti, / Cercare l’altrui vantaggio, / E produrre l’altrui guadagno.

 

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Le barbare guerre della pace – / Riempi la bocca della Carestia /

E fa’ cessare la malattia; /

E quando più la mèta è vicina, / Il fine per altri perseguito, / Osserva l’Ignavia e la Follia pagana

/ Annientare la tua speranza.

 

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Non sgargiante governo di re, / Ma fatica di servo e di spazzino –

/ La storia delle cose comuni. / I porti in cui non entrerai / Le strade che non percorrerai / Le costruirai

/ con i tuoi vivi, /

E le contrassegnerai con i tuoi morti.

 

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco / E ricevi la sua antica ricompensa: / Il biasimo di coloro che fai progredire, /

L’odio di coloro su cui vigili – / Il pianto delle moltitudini che indirizzi / (Ah, lentamente!) verso la luce:

«Perché ci ha strappato alla schiavitù, / La nostra dolce notte Egiziana?»

 

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco / Non osare piegarti a un compito /

inferiore – /

E non invocare troppo forte la Libertà / Per nascondere la tua stanchezza; / Che tu gridi o sussurri,

Che tu agisca oppure no, / I popoli silenziosi, astiosi / Soppeseranno te e i tuoi Dei.

 

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Dimentica i giorni dell’infanzia – / L’alloro offerto con leggerezza

/ Il premio facile, concesso di buon grado. / Viene ora a esaminarti, nell’età adulta, / Per tutti gli anni

/ ingrati,

Freddo, affilato da saggezza costata / cara, / Il giudizio dei tuoi pari!

 

 

[i] Madamato: «Si scrive “madamato“, ma si legge “schiavitù sessuale” o matrimonio comprato. Un termine usato nelle ex-colonie italiane, prima in Eritrea e successivamente anche nelle altre colonie, Libia e Somalia. Un termine che era un vero e proprio contratto, una pratica molto in voga negli anni ’30. Tutti i fascisti nelle ex-colonie italiane avevano la propria “madama minorenne” di colore dentro il letto. (…). Ecco ciò che scriveva in Italia la propaganda fascista nelle sue riviste e nei suoi quotidiani: “Non si sarà mai dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Con i negri non si fraternizza, non si può e non si deve. Almeno finché non sia data loro una civiltà“.

Il madamato, oltre alla schiavitù sessuale produsse un’altra atrocità, non secondaria, i bambini nati da questi “matrimoni comprati“. Il fenomeno portò alla nascita e al contestuale abbandono di migliaia di figli “meticci” non riconosciuti dal padre la cui unica sorte era quella di essere abbandonati oppure di venire accuditi presso orfanotrofi religiosi.

Solo con l’introduzione delle leggi razziali (1937) il madamato venne formalmente proibito e penalmente perseguito, anche se i risultati furono scarsi. Le leggi razziali infatti introdussero il principio della non mescolanza delle razze»

http://marisdavis.com/index.php?option=com_content&view=article&id=551:pedofilia-e-fascismo-il-colonialismo-italiano-le-viscere-della-follia&catid=54:africa&Itemid=329

 

[ii] Da: http://wpage.unina.it/mbrunett/docs/Interviste/Kipling.pdf