Il tema ha tante, troppe sfaccettature, e irretisce.
C’è chi scrive, c’è il lettore, ci sono i lettori, da cui la necessità di condividere parole e significati nonché le regole per utilizzarli e costruire il discorso: una comunicazione; parlata, scritta: dentro un mondo, il nostro, che pensiamo eternamente <oggi> e pensiamo sia <il> mondo.
Ognuna di queste categorie – chi scrive, chi legge, chi pensa e commenta, chi fa cose – è a sua volta composita, mai univoca; e solitamente la stessa persona occupa ruoli e possiede status che la rendono partecipe ad ogni insieme: di coloro che scrivono, di coloro che leggono, nei tanti modi che il leggere, e ogni altro fare comprendono in sé.
Lo scrivere, in un suo certo modo, li ricomprende tutti: si scrive qualcosa e si scrive, sempre, <di> qualcosa, di ogni cosa fatta. È inevitabile, è necessario. Dalla lista della spesa alla relazione di bilancio allo scambio di informazioni saluti e baci, alla scrittura manualistica, alla saggistica, alla scrittura creativa (buona ultima, nonostante le apparenze) ogni fare umano tanto o poco implica una scrittura.
È, per questo, condivisa da tutti la necessità di conoscere e rispettare regole delle scrivere che, entro limiti dati, si considerano certe: quando alla scuola primaria apprendemmo le parti del discorso e i modi delle loro combinazioni non ci fu detto “per ora, al massimo per quest’anno” costituirà errore grave lo scrivere <qual’è>; e mai, ma proprio mai, avremmo potuto impunemente dire o scrivere <a sé stesso, a sé medesimo>. Ai miei tempi; che, per i tempi del mondo umano, sono ieri.
Oggi, pare che <qual’è> sia accoglibile; è ormai regola, assodata, scrivere <a sé stesso>. È, almeno giornalisticamente, ormai accolto l’uso del pronome maschile dativo singolare <gli> esteso al dativo singolare femminile <le, a lei>. In italiano, il plurale maschile è inclusivo, quando necessario, del femminile; ma il singolare, quando il soggetto sia la singola donna, <ella>, dovrebbe venir rappresentato correttamente.
Potrebbe essere una sopraggiunta integrazione del femminile nel concetto unisex di <persona>? Con annessa riduzione del valore del maschile singolare? Perché no, ma non lo credo. Nella nostra società, la donna (la persona di sesso anatomico femminile) costituisce ancora un universo altro, come i marziani e gli unicorni.
Le regole: possiedono un tempo di applicazione. Un tempo che, confrontato con quello della nostra vita, ci ha finora legittimati a considerarle eterne, immutabili.
È infatti codificato, si fa per dire, un italiano standard – “codificato, sovraregionale, elaborato, proprio dei ceti alti, invariante, scritto”: dice l’enciclopedia Treccani[ii], confermando implicitamente, come detto, di prescindere, entro limiti molto ampi, dal fattore temporale, rispetto al quale nulla è <invariante>.
Tutto questo è (è stato) necessario a farci sentire certi del terreno su cui poggiano i nostri piedi nelle relazioni, certi di un accordo condiviso che regola le nostre interazioni sociali; ci ha dato modo di agire nel (nostro) mondo con competenza. Di più: ci ha permesso di considerare <naturali>, quasi dovute e immutabili, le regole culturali che presiedono ad ogni comportamento sociale, di reciprocità; e quando parliamo di <culture> intendiamo sempre <le altre>, assumendo la nostra come <civiltà>, tout court; e così pure quando parliamo di <etnie> (con sicurezza, certi che nessuno ci chiederà mai di spiegare cosa esse siano), senza alcun sospetto di poter essere classificati a nostra volta, da uno guardo altrui, con categorie analoghe.
L’Italia, lo sappiamo bene, è forse il popolo più meticciato del mondo, i suoi cittadini la risultante dell’incontro tra popoli e culture le più varie: chissà a quale etnìa appartengo.

Qualcosa sta cambiando, è cambiato. Non lo percepiamo ancora in tutte le sue conseguenze, se non per alcuni inciampi più o meno grammaticali-sintattici tra generazioni (analfabeti funzionali! Boomers!). Rifuggiamo, mi pare, dal vedere come, sempre più, il Cambiamento renda franoso il terreno culturale su cui sostiamo.
I millennials sanno già di essere in transito; e ci ignorano. Per i nostri figli, nipoti, <gli antichi> siamo noi: i boomers, che parlano, scrivono – leggono – tra di loro, conservando norme e rituali ormai privi di referenza per le nuove generazioni, avendo ancora cura del tempo e delle opere che li hanno preceduti; ma della cui storia, della cui cultura, niente forse durerà oltre la loro vita.
Non i riti, non i miti, non le opere, temo: le architetture (chi mai costruirebbe oggi un edificio pubblico, o un importante privato palazzo pensando a una sua durata nei secoli? Per non dire nei millenni? I grandi edifici civili, religiosi, hanno avuto il loro tempo quando le cattedrali venivano costruite da maestri artigiani dalla vita per lo più breve; quando non esistevano “architetti”.
Maestri artigiani affrescavano pareti per la posterità; dipingevano quadri su commissione; lavoravano, di generazione in generazione, alla loro costruzione per la sopravvivenza della propria opera nel tempo; e per vivere, per mangiare, per nutrirsi, ovviamente.
I dipinti, le composizioni musicali, le opere dell’arte contemporanea, liberate dall’artigianalità e dal vincolo della committenza, contribuiranno ancora alla formalizzazione della cultura <alta>? Ma già per Andy Warhol – preistoria? – l’arte doveva essere “consumata”.
La letteratura? I Premi? La critica? Come ogni dispositivo culturale di asseveramento del Canone sembrano oggi fungere da spartiacque tra <noi>, vecchi sacerdoti del rito, e un nuovo mondo che ha già tutto sepolto, e che, insieme, non sta asseverando se stesso, non pare aprire alcuna scommessa sulla propria sopravvivenza culturale.
Le lingue e le loro regole cambiano in itinere, in conseguenza del fatto che cambia il mondo, e cambiano i parlanti – cambiano anche le cose da dire, il loro peso e la loro qualità. Ogni lingua – ogni parola, ogni costrutto – agirà dentro, e muterà con riferimento a, cose del mondo che interagiscono e mutano.
Vuoi per la brevità delle vite umane, vuoi per la lentezza dei cambiamenti nella nostra esperienza, il tempo della vita di una persona non era stato, finora, invaso dal cambiamento dei fondamentali dell’esistenza: e cosa più fondamentale, in ogni cultura, della lingua madre? Ogni cultura, di generazione in generazione, ha sviluppato cambiamenti senza che questi, se non in momenti eccezionali, dessero vita a una interruzione, o quantomeno a una seria difficoltà nella sua trasmissione tra generazioni.
Anche le culture muoiono, come ogni vivente. Appaiono e scompaiono.
Ora sta avvenendo/è avvenuto qualcosa di nuovo.
Fuori della porta di casa tutto un mondo, e tutti i mondi che dovrebbero essere la ricchezza in varietà della nostra specie, si stanno sgretolando.
Mentre parole si inanellano senza illusione alcuna, senza speranza di essere utili, noi ascoltiamo, leggiamo, scriviamo. Mettiamo emoticon sui nostri profili social, scriviamo qualche parola indignata, e la consapevolezza della nostra impotenza, come singoli e come comunità, cresce e ci distrugge.
Nel mentre, sto a riflettere, se così si può dire, sulla necessità di adeguarmi/non adeguarmi/sforzarmi almeno un po’ rispetto alla lingua italiana neo-standard, che vale a dire in movimento, e provo – debbo dirlo – un grande disagio nel confronto con i vari schwa – doppio disagio: per il riconoscimento del tema, importante, che pone; per l’incapacità, e forse il rifiuto, a una risposta – provvisoria, giustamente provocatoria – che non ha corrispondenza tra scritto e parlato, e dunque si rivela una non-risposta (spero che Baylee me lo conceda).
I libri: il rifugio. Ma anche no. Per la prima volta in vita mia, non lo è. O meglio: guardo il mondo intorno a me; guardo “tutto ciò che accade”, e il libro diventa la fuga in un libro, anche impegnato, per (fingere che serva a qualcosa) capire. Sento che l’impotenza rispetto al tema, magari provvisoriamente, parzialmente compreso nelle sue componenti, è totale. E mi sto vergognando della mia vita con i miei libri. Qualcosa del genere.
[ii] “La nozione di standard è complessa e a definirla convergono fattori di diverso carattere. Ammon (1986) individua sei attributi principali definitori: lo standard è tale in quanto è: (a) codificato, (b) sovraregionale, (c) elaborato, (d) proprio dei ceti alti, (e) invariante, (f) scritto”. (In: https://www.treccani.it/enciclopedia/italiano-standard_(Enciclopedia-dell%27Italiano)/).