“Piegati giunco se arriva la piena”

In: La città di Santa Igia oggi. Paludi e canneti. in: Sardegnasotterranea.org (qui)

Giulio Angioni, “Sulla faccia della terra”, Ed. Feltrinelli/Il Maestrale 2015

Correva l’estate del 1258.  Mannai Mureno racconta.

“È una parola dire ciò che ricordo io, Mannai Mureno, di come tutto è stato settant’anni fa. E tu cerchi ragioni di credere che fra cent’anni, e pure meno, ci sarà chi si imbatta nella nostra vita?

Settant’anni fa…”

Da molto non leggevo un libro tanto coinvolgente, di un autore che, confesso a mio disdoro, non avevo mai ancora letto.

Giulio Angioni, 1939 – 2017, sardo, è stato un antropologo, collaboratore di Ernesto De Martino e Alberto Mario Cirese, fondatori di quella che viene chiamata Scuola antropologica di Cagliari. È stato docente di Antropologia culturale all’Università di Cagliari ma, e basterebbe questo solo suo “romanzo” a provarlo, è stato soprattutto un grande scrittore, dalla significativa produzione narrativa e, infine, poetica.

Perché questo è un romanzo, ma è anche una storia della Sardegna, e di terre vicine, di traffici, di scambi e di soprusi. Normali, noti; una storia di tutti, un trascorrere in lungo e in largo nella vita della specie umana.

È la storia di un habitat e di un incontro tra la ricchezza delle diversità. E tra le rovine che la storia (tante storie, ognuna diversa, originale, e tutte uguali) ne fan. Che sia irrimediabile?

Giulio Angioni ha scritto, trasfondendo la sua opera di antropologo nella sua narrativa, puntigliosamente della sua terra, la Sardegna, inserendosi nel cuore di un filone letterario di grande spessore che, a partire da Grazia Deledda, ha dato alla narrativa grandi nomi quali Emilio Lussu, Giuseppe Dessì, Gavino Ledda, e molti altri che, purtroppo, vedo di aver troppo poco frequentato, così come non ho mai posto piede sulla terra sarda.

Mi si apre dinnanzi un continente, mentre sto rileggendo questo grande romanzo e girovagando nella storia, e nelle storie, e nelle geografie, che sottende.

Prima della rovina di Santa Gia[i], l’isola Nostra era dei lebbrosi. E dicono che prima dei lebbrosi era stata l’isola dei matti, dall’anno chissà quando che si dice che ci si è arenata la nave dei matti.”

“Dicevano che prima ci abitava solo il diavolo…che vi si festeggiavano feste idolatre, con gozzoviglie da epuloni, e l’Aid el Kebir islamico, la festa del montone che al posto di Isacco ha assaggiato il coltello di Abramo. E che vi si ostentava, dicevano, la peccaminosa vista del seno nudo delle donne. Che mentre gli sciacquii dello Stagno riempivano il silenzio…la femmina del diavolo si librava in equilibrio sull’erezione di un qualche dio caprone…”

Correva dunque l’anno 1258 e Santa Igia – Santa Gia – capitale del Giudicato di Cagliari[ii] veniva definitivamente distrutta: dai pisani, dai loro alleati, in una guerra che vedeva il Giudicato preda della lotta per il controllo delle risorse tra Pisa e Genova.

“Ohiohi la guerra. Ma se ti trovi dentro, odiala con chiarezza. Lo stesso a raccontarla. E ci vuole lo stesso coraggio. Per dirti come l’ho scampata al ferro e al fuoco e al sale devo fare i conti con i miei ricordi. I vecchi ricordano per vere certe cose che forse non sono mai successe.

Torna domani. Così di punto in bianco si fa notte che siamo ancora qui cercando di iniziare. Anche se il colore di certi giorni è sempre fermo alla stessa ora.”

Mannai Mureno, il narratore, garzone del vinaio Nanni Pes, che chissà che fine ha fattoinizia a raccontare la sua fuga, dopo la sua prima morte, dopo essersi finto cadavere tra cadaveri, a più riprese.

Racconta l’incontro con Paulinu da Fraus, servo del convento di Santa Maria di Cluso nostra Donna.

Racconta altri incontri, gente che aveva rifugio e altri che, con cui lui e Paulinu lo troveranno, nella vicina isola del Bordello, dentro lo Stagno di Cagliari[iii], dove le isole sono molte ma una è l’isola dei lebbrosi.

Per la verità, sembra che lebbrosi non ce ne siano più in quel luogo; sembra che l’isola, con l’assegnazione dello stigma della lebbra, sia servita a cacciare e confinare altre malattie, di tipo sociale. Gli ultimi lebbrosi del’isola, sembra siano stati catapultati, cadaveri, sulla città, per assicurarne, anche con il contagio, la definitiva distruzione.

Il sale, infine, coprirà tutto, morti e macerie, perché nulla sopravvivesse. Né per Pisa né per Genova, che si erano a lungo scannate sopra quei luoghi.

Stagno di Cagliari, Fenicotteri rosa. Wikipedia

Per chi ora, dopo la distruzione di Santa Gia, tenta di ritornare all’esistenza, l’isola è un luogo forse sicuro, scansato dai sani: un buon rifugio.  Per ricominciare a vivere?

Dopo esser morti, perché coloro che lo eleggeranno a loro piccola patria, provvisoria, morti lo erano stati di certo.

“Io so com’è morire. E se non sono morto, sono il resto di sogno fatto quella notte. Non tutti i morti sono uguali. Certi morti producono gramigna, altri grano. Un morto come me giova almeno a se stesso, da morto che cammina. E parla.”

“Piegati giunco se arriva la piena.”

Iniziano gli incontri; con chi sull’isola già ci sta già; con altri che vi cercheranno rifugio e che verranno accolti. Con il cane, cui verrà dato il nome di Dolceacqua, che farà loro trovare del cibo sepolto.

Conosceremo Baruch, l’ebreo vecchio e saggio, portato da due “sediari” in portantina, dato che l’età lo ha reso incapace di camminare, ma la cui testa è ancora fina. Poi Tidoreddu, un pescatore che conosce bene lo Stagno. Sotto l’ascella tiene un librone,

“non lo posa mai, non sembra volerlo mostrare a nessun. Il libro pare dargli forza, fargli compagnia”

Incontreremo Vera, e poi Akì, la schiava musulmana.

Dev’essere di quelle prese in Barberia, da noi buoni cristiani e fatta serva, comprata a Santa Gia

Si aggiungeranno tre soldati, mercenari tedeschi dispersi; e il fabbro Teraponto: tutti alla ricerca di una vita nuova, di una vita altra e ancora possibile, dopo la sopravvivenza.

Espedienti, intreccio di competenze, risorse che l’isola mette a disposizione, dopotutto era stata abitata a lungo e, per molte cose – utensili, manufatti – si tratta solo di porre tutto in quarantena prima di utilizzarle. C’è il problema dell’acqua dolce, e il cane è di aiuto per la ricerca; nell’isola ci sono pozze sorgenti.

La vita lentamente si fa, l’eterogeneità del suo piccolo popolo, che via via cresce, è risorsa e non barriera.

Ogni giorno avrà la sua vita, ogni giorno una nuova soluzione; un nuovo incontro e nuove storie; espedienti per dare forma al popolo dell’Isola Nostra. Ogni giorno la precarietà, saputa, perché chi è già morto sa bene che la vita è provvisoria e, insieme, è per sempre. Domande e risposte, stratagemmi e pensiero, cui provvede Baruch:

“Il pane è sempre scarso a questo mondo, per i più. Più scarsa per tutti è la verità, ma sempre in eccesso rispetto alla domanda. L’uno e l’altra vanno risparmiati, specie di questi tempi.”

Ci sono racconti, i grandi racconti di ognuno. Ci sono lo stagno e la sua storia, le “arti di laguna”, quelle dei pescatori e quelle di chi si impadronisce del lavoro altrui; che rende servi i pescatori. E il male viene, sempre, dal mare.

Si pensa, nell’isola dello Stagno, si fanno i conti. Perché:

C’è chi si fa padrone persino del grande mare aperto. E del sale. Saline e peschiere, da sempre le nostre ricchezze, a memoria d’uomo e di scrittura sono il lavoro di servi, sardi, pisani, genovesi, schiavi e galeotti di ogni luogo e stirpe, teutoni, alemanni, slavoni, resti della Chiesa d’Oriente, musulmani ebrei e persino forzati lebbrosi. Tutta gente che non dura dieci anni a quei lavori, oggi in balìa dei conti della Gherardesca.”

Com’è, come avviene, che trovo conosciuto quel mondo dello Stagno? Che riconosco quell’ieri; che è ogni altro tempo; ed è oggi. È casa conosciuta, di altri saputi, e forse anche casa mia, non veduta, sempre perché la verità, come insegna Baruch, è sovrabbondante e a disposizione, pur senza avere una grande richiesta.

La storia si fa, nelle preoccupazioni, nelle risposte ai bisogni, negli incontri che regalano ognuno qualcosa, nelle condivisioni, nella festa e nel dolore.

Le cose degli uomini, nel mondo, sembra non finiscano mai bene, ma la vita, finché c’è, è degna di essere pensata, nell’impegno a farla e a goderne; e poi sì, Mannai Mureno dice giusto, non tutti i morti sono uguali.


[i] Santa Igia (o più correttamente Santa Ilia, contrazione di Santa Cecilia) fu la capitale del giudicato di Cagliari dal IX secolo al 1258, quando fu distrutta dai pisani e dai loro alleati sardi in seguito alla conquista del territorio. (…) Santa Igia fu rasa al suolo nel 1258 da una coalizione composta dall’esercito pisano e dalle milizie degli altri tre giudicati sardi “filo-pisani”che l’avevano assediata l’anno precedente con l’obiettivo di porre fine al giudicato di Cagliari. Pare che sulle sue rovine venne sparso il sale. (Vedi: Santa Igia, Wikipedia).

[ii] Il giudicato di Calari o anche di Pluminos, impropriamente chiamato Giudicato di Cagliari, era uno Stato sovrano ed indipendente che si estendeva nella parte meridionale della Sardegna (…). Erede diretto del regno unitario sardo da cui si staccarono successivamente gli altri giudicati, conservò a lungo nelle istituzioni lingua e costumi greco-bizantini. La sua durata fu di circa 300 anni, dal X-XI secolo al 1258. A capo del regno vi erano il re denominato judike, e un consiglio deliberativo (Corona de Logu). La “capitale”, Santa Igia, fu, el 1258 fu rasa al suolo. I suoi resti si trovano ancora nella parte occidentale di Cagliari. (Vedi: Wikipedia)

[iii] Lo stagno di Cagliari, impropriamente detto anche stagno di Santa Gilla, è per estensione e per rilevanza un’area umida tra le più importanti. In realtà esso è una laguna. Il suo nome deriva dal fatto che nella lingua sarda non esiste la parola laguna e l’espressione stani rappresentava genericamente qualsiasi area umida diversa dalla parola palude (pauli) sia che fosse stagno o laguna. La laguna, infatti, è riconosciuta negli elenchi ufficiali delle aree umide da sottoporre a tutela: è classificata zona di protezione speciale. È inoltre inserito nella rete ecologica Natura 2000.