Avevo scritto, in chiusura, proponendo il libro di Jean-Yves Mollier, “Storia dei librai e della libreria dall’antichità ai giorni nostri”: Attenzione: com’è quel fatto per cui, quando le donne conquistano una professione o un ruolo (mediche, insegnanti, rappresentanti politiche e, certo, libraie) questi sembrano perdere lo status sociale di cui, al maschile esclusivo, e non inclusivo, erano titolari?
Un commento, il mio, che niente aveva a che fare con il contenuto del libro. Fuori tema! Avrebbe detto il mio prof. di italiano del liceo.
Forse, non del tutto. Mi sono infatti pervenuti dei commenti:
Da Benny, “Il verbo leggere”:
Ecco, la questione della “perdita di status” mi infastidisce e mi turba ormai da anni, lo ammetto. Ci vorrebbe un post dedicato sai? Mi viene da ridere al pensiero di poter assistere un domani al declino dell’ora tanto decantato STEM per colpa di troppe matematiche e scienziate…
Ho aspettato per vedere se per caso Baylee (che si intende molto di più di me di questi temi) fosse passata di qui.
Butto giù alcuni pensieri. Avrei voluto ritrovare un bell’articolo che avevo letto in cui ci si lamentava del fatto che le professioni umanistiche hanno perso il loro status proprio quando sono diventate popolari tra le ragazze, proprio quando le donne hanno finalmente avuto a disposizione la famosa “stanza tutta per sé”. Certo, bisogna tenere conto del cambiamento dei tempi, della modernità che avanza, ma qualche dubbio rimane.
Dall’altra parte c’è il problema del mondo STEM, un campo ancora presidiato dai maschi, che fatica a diventare inclusivo. L’impressione è che le donne debbano faticare il doppio per affermarsi.
Mi viene in mente la scrittrice Chiara Valerio che ha detto di aver studiato matematica per “dimostrare la sua intelligenza” e di aver seguito solo in seguito anche la sua passione letteraria.
Chiudo con questo articolo della Crusca: (qui)
Ora aspetto un tuo eventuale post ;).
E infine da Baylee, “La siepe di more“, giustamente chiamata in causa:
Ecco Baylee, che passa sempre in ritardo da tuttз!
Non direi di essere esperta dell’argomento, sono solo interessata in quanto soggetto coinvolto, ecco. Però proprio in questi giorni mi è capitato di leggere questo passaggio dal libro che ho in lettura adesso, “Le nuove lettere portoghesi” di Barreno, Horta e Velho da Costa, e mi sembra molto pertinente e molto illuminante: “Riassume la storia della cosiddetta emancipazione femminile mediante l’accesso al lavoro. Un esempio è quello degli scrivani di sesso maschile; un altro, il regolamento dei concorsi per ricoprire i posti in quasi tutti gli organismi dello Stato che danno la preferenza agli uomini eccetto per quei posti che loro non vogliono più: e poi i vari annunci sui giornali “impresa cerca impiegate…” Quando si legge o si sente dire: “Al giorno d’oggi le donne lavorano nei più diversi settori di attività a fianco degli uomini…”, se lo si traduce in modo aderente alla situazione reale significa: al giorno d’oggi le donne vengono utilizzate nei settori di attività, nelle professioni, nelle funzioni che gli uomini rifiutano per migliori condizioni di lavoro e di remunerazione.” È un libro del 1973 (1977 in Italia), quindi bisogna sicuramente tenere conto del cambiamento sociale, ma mi sembra una considerazione interessante in una discussione sul lavoro, il prestigio e i salari corrisposti.
Mi lascerò trascinare, dunque dal desiderio di dar seguito al tema con un “commento” esteso. Scusandomi fin d’ora per il pressapochismo che non ho saputo evitare, nel cercare inutilmente di far sintesi su di un tema troppo vasto.
Un tema peraltro lontanissimo dalle intenzioni e da una qualsivoglia forma di consapevolezza da parte di Jean-Yves Mollier, immagino. Un punto che deve essersi impresso nella mia testa, se non proprio fin dal titolo, certamente fin da quella locuzione che ho immediatamente selezionato: “Gli <uomini> del libro”.
Ora, dovendo l’autore farci attraversare una narrazione lunga cinquemila anni, il fatto (degli <uomini> del libro) appare storicamente <vero>: dove per <vero> si intenda, come ovvio, nel riferimento alla storiografia <ufficiale>, documentata (sempre dal maschile): “ Gli uomini del libro” erano, nei fatti, unicamente (e salvo eccezioni, come tali non documentate), maschi della specie.
Voglio dire: non si tratta di un maschile inclusivo; anche perché la storia dell’<inclusivo> è, quasi, sempre, per l’appunto, una <storia>.
Eppure: è altrettanto, se non documentabile, certo indiscutibile come, leggendo il libro, e giungendo, nella storia, all’era moderna, se pure si parla di presenza delle donne (età dell’illuminismo; le “preziose”, i salotti); se dunque sicuramente non c’è stata, voluta, alcuna intenzione misogina da parte dell’autore; la stessa ha finito per manifestarsi, sullo sfondo: in quanto culturalmente data e dunque <naturale>.
Dimentichiamo sempre che la <natura> della nostra specie è <culturale> e non <istintuale>, come avviene per le altre specie animali del nostro mondo. Non teniamo mai nel dovuto conto, peraltro, del fatto che resta, per noi come per ogni specie animale, impossibile operare, socializzare, pensare, così come difenderci e aggredire <contro-natura> – vale a dire al di fuori della nostra cultura che tuttavia, a differenza dell’istinto animale, è evolutiva, e ci consente di adeguare i nostri comportamenti ai cambiamenti naturali, sociali, nonché individuali, della nostra singola vita.
La misoginia è, se posso dire, uno dei fili con cui la tela della storia umana è stata (e ancora è) culturalmente tessuta – vogliamo dire nei millenni? È quell’habitus mentale che, a qualsivoglia genere ognuno di noi appartenga, costituisce la struttura portante delle nostre interazioni, culturalmente apprese, e non di necessità biologicamente obbligate.
Cito: da Vitamine vaganti: Qui
Non c’è bisogno di essere maschi per agire con questo filtro. Se la subalternità all’ordine simbolico è interiorizzata, dalla madre e dall’insegnante viene da lei trasmessa alle figlie e alle allieve, riproducendo il gioco di aspettative legate alla differenza e influenzando i processi di apprendimento e quelli di formazione dell’identità femminile.
Cosa che vale, ovviamente, anche per i processi di apprendimento e quelli di formazione dell’identità maschile.
Vorrei dunque porre un tema:
La misoginia che caratterizza la cultura patriarcale è un ordine simbolico che viene riconosciuto, e interiorizzato, da TUTTI i soggetti della nostra specie, indipendentemente dall’appartenenza ad un sesso biologico o dall’identità di genere cui appartengono.
C’è il mondo delle donne, che è “la metà del cielo”. C’è il mondo degli uomini: che non è l’altra metà; è “il mondo”, “l’intero”.
Contraddittorio? No, poiché occupato – interamente, di necessità – da TUTTE e TUTTI; dalla parte maschile-patriarcale della comune cultura condivisa.
Il femminile – quella particolare metà del cielo – appartiene, biologicamente, anche ai maschi della specie; così come il maschile appartiene, ancora biologicamente, oltre che socialmente, anche alle femmine della specie. La cultura fa, poi, la sua parte; ed obbliga/ha obbligato all’identificazione con il proprio sesso biologico come ad una totalità; obbliga/ha obbligato a far coincidere il sesso biologico con gli obblighi culturali di genere.
Le culture cambiano.
Avete presente? È stato detto: “Il maschilismo è come l’emofilia: colpisce solo gli uomini ma viene trasmesso dalle donne”. Questa frase viene variamente attribuita a diverse autrici ma, <maternità> dell’aforisma a parte (e non casualmente stavo per scrivere, in automatico, <paternità>: tanto per dire) è difficile da disconfermare.
Nella struttura familiare patriarcale la trasmissione e la tutela della cultura è sempre stata un compito femminile; e le donne vivono, e pensano, e agiscono, dentro la comune cultura – e non, come pensano/fingono di pensare molti maschi della specie, in base ad una <istinto> naturale che dovrebbe dominare i loro cervelli.
Anche le donne sono state, sono ancora – e siamo – tutrici del patriarcato. E qui sta l’inghippo; così come il grande merito della lotta femminista, nel suo percorso difficile, talvolta tortuoso, talvolta in arretramento, quasi sempre anticipatore di sviluppi socialmente necessari, spesso/quasi sempre, focalizzato per temi: essendo quasi impossibile affrontare il tutto di cui, in effetti, si tratta.
Oggi; nel nostro immediato ed urgente futuro, viviamo in una società in cui la struttura sociale del patriarcato risulta non solo, come è sempre stato, carica di infelicità dolore e morte per una metà del cielo, bensì totalmente disfunzionale per i destini della specie – obbligando, pena l’estinzione, al cambiamento culturale.
C’è un libro che, pur non prendendo a tema, nello specifico, la cultura patriarcale, ci dice qualcosa a questo proposito, ed è, di Jared Diamond, “Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire”: da leggere, possibilmente, ma non necessariamente, dopo aver letto “Armi, acciaio e malattie”.
Ho sbandato, affrontando un <campo largo> impossibile (niente a che fare con la campagna elettorale, sia ben chiaro!). Provo ora a tornare in argomento – forse il mio vecchio professore aveva ragione.
Le professioni. Quando una appartenente alla metà del cielo occupa, oggi, un luogo simbolico fino a quel momento riservato ad un membro dell’intero cielo ha unicamente due scelte, in verità solo apparenti:
In un primo caso, di dover ridefinire quel <luogo>, portandolo ad appartenere, ANCHE, al mondo del simbolico femminile; inserendovi di conseguenza: fragilità del potere connesso al ruolo, approccio all’altro da sé di tipo materno, accettazione conseguente di una qualche forma ridotta di prestigio. Nessuna di noi potrà mai, infatti, agire al di fuori della propria natura culturale in toto.
Nel secondo caso, assumendo, con il ruolo, ANCHE il simbolico maschile di appartenenza allo status, dovrà accettare un pesante giudizio sociale sul piano della propria femminilità; nonché sul piano della propria adeguatezza nella rappresentazione del ruolo: dove un uomo verrà giudicato assertivo una donna verrà giudicata arrogante; dove un uomo verrà considerato adeguato in forza del suo status sociale di maschio, una donna verrà giudicata carente sullo stesso piano a causa del suo status sociale di femmina; dove un uomo verrà giudicato, nel proprio privato, virile una donna verrà giudicata, bene che vada, “allegra”, male che vada “virago”.
In ogni caso, con lo status, sarà il ruolo a venir depotenziato. E dunque, se non l’avevano già fatto per scelta, abbandonato dai maschi.
Una ulteriore domanda sorge spontanea: le insegnanti, le mediche, le ingegnere avranno conquistato, con fatica, capacità e determinazione, l’accesso al ruolo, per ritrovarsi ad affrontare un depotenziamento dello stesso sul piano dello status sociale – prova ne sia che facilmente ottengono, a parità di ruolo, una retribuzione inferiore? O non sarà accaduto che le insegnanti, le mediche, le ingegnere avranno occupato, sempre con fatica, capacità e determinazione, ruoli che i maschi stavano già abbandonando, in quanto, in un nuovo assetto della società, non più appetibili? Che ne dici, Baylee? E che ne sarà del mondo STEM non appena, manca poco, sarà occupato in prevalenza dalle donne? Può non sembrare ma ci siamo vicine. Che ne dici, Benny?
Il ruolo dell’insegnante, al crescere della scolarizzazione, non più riservata ai figli delle élite, ha sicuramente perduto parte del suo smalto; il ruolo del medico, in presenza di Sistemi Sanitari ad accesso universalistico, a loro volta hanno sicuramente perduto smalto.
Diciamolo meglio: si tratta di ruoli che, nati al servizio delle élite – e dunque culturalmente prestigiosi – divenendo universalistici, scivolano, per così dire, nel simbolico del materno, del prendersi cura – e dunque in un ruolo correlato al femminile: a scapito dello status e della retribuzione.
Vediamo cosa ci dice il linguaggio su questo: maestro/maestra, professore/professoressa, insegnante (M e F), dottore/dottoressa. Il maschile inclusivo, in queste professioni è stato sostituito dalla corretta flessione di genere. Così come era sempre stato per professioni quali infermiera/infermiere, dattilografa (dattilografo esiste come vocabolo ma non si è quasi mai sentito), cameriere/cameriera.
E tuttavia, salendo nella scala gerarchica delle professionalità, se arriviamo ai titoli di Magnifico Rettore e di Primario ospedaliero o, in generale, Dirigente-manager – ecco la flessione al femminile farsi difficile, fino a subire addirittura una negazione di possibile esistenza in contrasto con ogni corretta regola grammaticale.
Nel caso del <Magnifico> Rettore, è indubitabile che una Rettrice perderà l’attribuzione di <Magnifica> – si spera ottenendo quantomeno di farla perdere anche al suo pari grado maschio, aiutandolo così ad uscire dal Medioevo.
In professioni che ancor oggi vengono percepite di élite – al servizio di élite – ecco farsi difficile la flessione al femminile: ingegnera, architetta, persino avvocata – e Direttrice d’orchestra sono ancora titoli dall’utilizzo faticoso. Che le donne stesse non sempre accolgono.
Il confronto con il linguaggio è sempre chiarificatore. Oggi, il dibattito è aperto.
Credo che sia cosa buona e giusta, utile, al di là del fatto che le soluzioni ricercate, proposte, sostenute, ottengano o meno, quale sì quale no, una conferma culturalmente confermata.
Sarà il linguaggio a mostrarci, infine, la strada innanzi a noi; e il percorso compiuto.