Solstizio. Rinascita

Wislawa SzymborskaLa gioia di scrivere – Tutte le poesie (1945 – 2009 ) – Adelphi 2009. A cura di Pietro Marchesani

Come non desiderare di poter dare un augurio di “Buon Natale”, un augurio per un nuovo inizio, migliore, più umano, nel brutto mondo che abbiamo se non tutti certo in molti, contribuito a costruire.

Come inviarlo senza escludere – non è giusto, non è bene farlo – il dolore che da troppi giorni, settimane, mesi, anni aumenta e allarga il proprio dominio su di noi – su di altri, che sempre sono un Noi.

Ci provo chiudendo con una breve poesia di aiuto a mantenere – sempre, sempre – la speranza che dentro ognuno di noi si nascondano donne e uomini di buona volontà. Sapendo che ci sono, sapendo che ci siamo; che basterebbe tirarli – tirarci fuori – uscire fuori, dalla scatola.  

Wisława Szymborska.

Torture

Nulla è cambiato.

Il corpo prova dolore, deve mangiare e respirare e dormire,

ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue,

ha una buona scorta di denti e di unghie,

le ossa fragili, le giunture stirabili.

Nelle torture, di tutto ciò si tiene conto.

Nulla è cambiato.

Il corpo trema, come tremava prima e dopo la fondazione di Roma,

nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,

le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola

e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.

Nulla è cambiato.

C’è soltanto più gente, alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,

reali, fittizie, temporanee e inesistenti,

ma il grido con cui il corpo ne risponde

era è e sarà un grido di innocenza,

secondo un registro e una scala eterni.

Nulla è cambiato,

tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.

Il gesto delle mani che proteggono il capo

è rimasto però lo stesso.

Il corpo si torce, si dimena e divincola,

fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,

illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.

Nulla è cambiato,

tranne il corso dei fiumi,

la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.

Tra questi paesaggi l’animula vaga,

sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,

a se stessa estranea, inafferrabile,

ora certa, ora incerta della propria esistenza,

mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è

e non trova riparo.

  Gente

Gente in fuga davanti ad altra gente.

In un qualche paese sotto il sole

e alcune nuvole.

Si lasciano alle spalle un qualche loro tutto,

campi seminati, delle galline, cani,

specchietti in cui il fuoco ora si sta guardando.

Hanno sulle spalle brocche e fagotti,

quanto più vuoti, tanto più di giorno in giorno pesanti.

C’è chi in silenzio si sta fermando

e chi nel chiasso a un altro il pane sta rubando

e chi un bambino morto sta scuotendo.

Davanti a loro una qualche via che non è mai quella,

un ponte che non è quello che occorre

sopra un fiume stranamente rosa.

Intorno spari, più vicino, più lontano,

in alto un aereo che fa qualche giro.

Ci vorrebbe dell’invisibilità,

della grigia pietrosità,

e, ancor meglio, dell’inesistenzialità

per un tempo breve oppure lungo.

Qualcosa ancora – ma dove e cosa – accadrà.

Qualcuno gli andrà incontro, ma quando, chi sarà,

in quante forme e con quali intenzioni.

Se potrà scegliere,

forse non vorrà essere nemico

e li lascerà in una qualche vita.

Ogni caso

Poteva accadere.

Doveva accadere. 

È accaduto prima. Dopo.

Più vicino. Più lontano. 

È accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.

Ti sei salvato perché eri l’ultimo.

Perché da solo. Perché la gente.

Perché a sinistra. Perché a destra.

Perché la pioggia. Perché un’ombra.

Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c’era un bosco.

Per fortuna non c’erano alberi.

Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,

un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.

Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.

Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,

a un passo, a un pelo

da una coincidenza.

Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?

La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?

Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.

Ascolta

come mi batte forte il tuo cuore.

Vermeer

Finché quella donna del Rijksmuseum

nel silenzio dipinto e in raccoglimento

giorno dopo giorno versa

il latte dalla brocca nella scodella,

il Mondo non merita

la fine del mondo