Alba De Céspedes, “Dalla parte di lei”, Mondadori 2021
È stato più del solito difficile, per me, scrivere, in questi giorni. Lo è stato perché non riesco, non riuscivo, ad interrompere la lettura in corso – a strapparmi dalla pagina, a porre fuori di me, e osservare, ciò che leggevo, mentre scoprivo parole inattese, mai udite; pensieri sul femminile che con tanta piana chiarezza non avevo mai ascoltato: perché semplici come l’aria che si respira e che dimentichiamo.
Si tratta di un “romanzo” che non è, in verità, del tutto tale. Sostenuto da una trama che, ecco, quasi non c’è; che potrebbe persino essere spoilerata senza che ciò dica davvero qualcosa del libro.
Si tratta di un romanzo la cui fabula si regge su di un costrutto diegetico sottilissimo, impalpabile, narrato da una prima persona che, attraverso questa narrazione, dice dell’essere donna. Lo dice, semplicemente: niente di più, niente di meno. Non poco.
La protagonista, Alessandra Corteggiani, narra la propria storia – un’infanzia, una giovinezza, un matrimonio – come da titolo, dal punto di vista del suo essere una donna. Contesto: un quartiere di Roma, e per un breve ma significativo periodo un paesino della montagna abruzzese, a casa di una nonna paterna, interessante e positiva figura di matriarca, in un tempo che trascorre dall’epoca fascista al dopoguerra.
È “La storia di un grande amore e di un delitto”, come, in quarta di copertina, viene detto dall’autrice.
Il grande amore è Francesco Minelli, giovane professore universitario, in seguito partigiano, prima in clandestinità e poi incarcerato nel periodo in cui Roma fu occupata dalle truppe della Wermacht (dall’ottobre 1943 al 4 giugno 1944, quando la V° armata statunitense entrò vittoriosa in città).
Con la fine della guerra Francesco Minelli iniziò, con il suo gruppo, ad impegnarsi per il futuro politico dell’Italia mentre Alessandra, che aveva a sua volta partecipato alle attività partigiane, avrebbe dovuto, in quanto donna, riprendere il proprio posto in casa.
Alessandra e Francesco si amano molto, nei diversi modi in cui un uomo ama una donna e una donna ama un uomo; e nelle diverse aspettative sociali che venivano assegnate – che vengono assegnate? – a un uomo, a una donna.
“Tutte le donne sono innocenti”: la frase costituisce il punto di caduta del libro, nel riferimento a un sogno della protagonista nel quale, dentro la contraddittorietà che il mondo onirico consente, Alessandra sogna di trovarsi dentro un’aula di tribunale, in cui lei è l’accusata, una donnetta di mezza età, fragile, dimessa; e dove, accolta questa identità, diviene l’avvocata che difende il proprio doppio. E, con passione e autorevolezza, pronuncia la propria arringa di fronte ad una Giuria.
“Salvatela” – dicevo; “è innocente.” Ripetevo: “Signori giurati, è innocente, tutte le donne sono innocenti”.
De Céspedes narra, attraverso il proprio particolare essere donna – bambina, giovane ragazza, adulta – la peculiarità di quest’appartenenza. Lo fa conducendo il lettore ad incontrare donne di ogni età, appartenenti a mondi sociali e culturali diversi; e lo fa intessendo relazioni che svelano, nelle diversità, un proprium che ogni donna conosce e riconosce nell’altra da lei, nell’altra diversa.
C’è il maschile, in questo romanzo, a far da specchio ad un femminile coartato; c’è anche la difficoltà dell’essere maschio; c’è la specificità dell’esserlo, non disgiunta dalla violenza con cui opprime le donne attraverso il non ascolto, attraverso l’invisibilità di un diritto di cittadinanza “dalla loro parte”.
C’è il personaggio della partigiana Denise, donna maggiore di età che verrà rappresentato in condizione di parità dentro il gruppo maschile dei resistenti; che, dalla propria posizione privilegiata, collude con gli uomini nel (cercar di) rinchiudere Alessandra nella sua veste di “moglie” di Francesco: che nel frattempo vive in clandestinità; e in seguito in carcere.
L’8 settembre ha portato il suo seguito di sconvolgimenti e di guerra civile. Roma resiste, in attesa dell’arrivo delle truppe alleate.
Il romanzo è prefato da Melania Mazzucco attraverso un interessante saggio dal titolo, indovinato, “Tutte le donne sono innocenti”. Che andrebbe tuttavia letto a chiusura del libro in quanto (ritenendo l’autrice, in parte giustamente, che la trama del romanzo costituisca solo un banale espediente per sviluppare il tema del femminile) di fatto spoilera il finale della storia: che invece merita di non venir rivelato d’anticipo proprio per la sua funzione per un verso estraniante, per altro verso, proprio in quanto inattesa, significante.
Alessandra opera come staffetta, porta messaggi. Raggiunge l’appartamento-covo del gruppo partigiano e viene accolta da Denise con disagio.
“Mi guardava incerta (…) “Si rassicuri” disse subito: “Suo marito sta bene.”
“Grazie. Ma non venivo a domandare notizie” risposi: “sono venuta a portare i messaggi (…)”
“(…) “Bene. Ma perché è venuta lei signora? Suo marito non sarebbe contento e…”
“Ormai non ha più importanza che lui sia contento o no” risposi seccamente. “È importante che certe cose siano fatte; e Francesco non può impedirmi di farle”.
Le due donne infine parleranno. Si passa al tu.
“Quando venivo a trovare Francesco (…) mi piaceva vederti muovere attorno a lui, sempre graziosa, nella tua femminile gentilezza. Speravo che tu non fossi intelligente. Le donne non devono mai essere molto intelligenti se vogliono essere felici. Per gli uomini è diverso: essi non affidano mai tutta la loro vita all’amore. (…) Neppure si propongono di non sbagliare in amore”.
Denise conclude: “Quando si è intelligenti e non ci si può rassegnare, bisogna adattarsi a rimanere sole”.
Il personaggio di Denise, nell’economia del romanzo, è una breve apparizione che tuttavia, come il sogno della giovane Alessandra, si propone, nel discorso della De Céspedes, come punto di caduta di un ipotetico, e non accoglibile, negoziato maschile-femminile.
Sono giorni in cui fatico a scrivere, dicevo. Per un affastellarsi di pensieri che anche questa lettura porta con sé. Insieme ad altre letture: plurali; che si intersecano, si accavallano. Che mi paiono squadernare, dinnanzi ai miei occhi, il tempo della Storia del Novecento, conducendolo per mano al nostro oggi.
Letture di ieri, di oggi, come già detto in altro post. Sto ancora leggendo, a spizzichi, il Pirandello di “Novelle per un anno”. E sono tante letture – perché questo sono i racconti, o le novelle che dir si voglia. Tanti mondi. Narrati nella loro essenzialità. Intensi.
Così, mentre ascolto generazioni diverse del femminile nelle parole, sempre asciutte, sempre efficaci, di De Céspedes, mi ritrovo a vagare nel tempo che l’ha preceduta, ad ascoltare giorni e mondi (maschili, e come tali, “assoluti” per la specie umana) che non sono più; che allo stesso tempo ci appartengono ancora; che, mutati i modi del mostrarsi, permangono. Arroccati. Ecco, sì; anche a proprio danno, resistenti.
Mi ritrovo ad arretrare ancora, a cercar di vedere un da dove veniamo, relativo, certo, e tuttavia: ancora capace di produrre effetti?
Nel frattempo De Céspedes mostra, nei personaggi del suo romanzo-non romanzo, un tempo femminile condiviso, per alleanza o per opposizione, tra donne dai tempi di vita diversi, dentro mondi culturali diversi; tra mondi dai linguaggi in apparenza, e solo in apparenza, non intertraducibili.
E – per opposizione? – mi viene incontro il maschile attraverso cui La Storia viene narrata.
Mi accorgo di percorrere un attraversamento del tempo dove, “dalla parte di lei”, sento un dialogo femminile che non si interrompe; neppure quando una donna subisce l’ostilità di altre donne. Soprattutto quando, nel condannare una opposizione femminile alle regole patriarcali, implicitamente le compagne ostili offrono un riconoscimento.
Da parte maschile, nel caso, parrebbe esservi un’opposizione unicamente “legale”, a conferma del <non esserci> del femminile.
Pirandello: come sfuggire al confronto sul tema. C’è il mondo a identità maschile di cui l’autore ci parla; ci sono i suoi personaggi – e al negativo i suoi personaggi femminili, segnati da tutto ciò che la <sua> donna non sarà, mai, se non in quanto madre; e anche in questo, attraverso una distorsione e una coartazione del suo sé che la annienta (e non solo nell’immaginario maschile).
Va bene: è un tema che non può essere risolto così, in due parole. Se non altro perché ci sono, a contenere tutto questo, i diversamente vinti, maschi e femmine di ogni tempo.
Resta che il trascorrere, in sincrono, dalle novelle (del maschile) di Pirandello – alle cui spalle Giovanni Verga ancora parla – alle pagine (sul femminile) di De Céspedes, porta a una forma di stordimento. A un ubi consistam dell’essere donna che diviene, se mai non lo fosse stato, instabile, incerto.
Si riaffaccia (fuori luogo? Non lo so, ci devo pensare) Thomas Mann: “Dove siamo? Che è questo? Dove ci ha sbalestrati il sogno?”
E ancora: “Via, via! Questo non lo vogliamo narrare!“*
Ma lo dovremo pur fare. Specialmente ora. Dovremo pur pensare che millenni di civiltà mutilate, a suon di guerre e a spese di metà se non, per tale via, di tutto il genere umano, debbano pur avervi a che fare.
____________________
- Thomas Mann, “La montagna incantata”